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In attesa di Giustizia: avanti tutta 2

Nello scorso numero abbiamo affrontato l’argomento relativo ai tempi di trattazione dei ricorsi per Cassazione e delle Udienze Preliminari, con l’impegno di raccontare ai lettori quali siano le modalità predilette dai giudicanti del settore penale per celebrare i processi di primo grado e di appello in guisa da risparmiare tempo.

Cominciamo dal giudizio in Tribunale, in Corte d’Assise – dove si trattano principalmente gravi reati di sangue – l’attenzione è decisamente maggiore: l’impostazione sistematica del nostro codice vorrebbe che la prova relativa alla presunta responsabilità di un imputato si formi in dibattimento, cioè a dire, il Tribunale non dispone degli atti (tranne alcuni, relativi agli atti cosiddetti irripetibili, come i sequestri) delle indagini del Pubblico Ministero e quest’ultimo è tenuto a citare in giudizio i suoi testimoni, agenti operanti, consulenti, sottoponendoli all’interrogatorio e lasciandoli sottoporre al controinterrogatorio dei difensori nonché a domande finali dei giudici. Altrettanto possono fare i difensori, chiedendo di introdurre prove a discarico: ne consegue che l’attività di acquisizione della prova sia piuttosto laboriosa ma altrettanto garantita e garantista perché si realizza nel contraddittorio delle parti processuali con facoltà di confutazione.

Ciò accade sempre più di rado; una modifica scellerata del codice di qualche anno fa prevede che “con il consenso delle parti” e con buona pace dei principi di oralità e formazione della prova in giudizio possano essere introdotte nel fascicolo del dibattimento tutte le attività di indagine svolte dal P.M. in splendida solitudine: dunque avviene che quest’ultimo, all’inizio del processo, chieda il consenso dei difensori a tal fine e, sovente spalleggiato dai giudici, svolge una forma di moral suasion paventando che in caso contrario  la pena finale possa essere più elevata, ovvero assai più mite se il consenso intervenga. Già, il tempo è denaro e, tanto, i giudicabili sono tutti colpevoli a prescindere: lo dice anche Davigo!

Ne consegue che, sempre più spesso, il processo assuma connotazioni farsesche andando a concludersi in poche battute, esito scontato (una condanna ma mite) nel dispregio totale dello spirito del sistema accusatorio.

L’appello: la gestione dell’udienza è simile a quella della Cassazione solo che i Giudici sono tre e non cinque e anche questi hanno molto da fare e bisogna accelerare. Dunque, si comincia chiedendo quali difensori intendano “riportarsi ai motivi”, cioè non discutere ma richiamarsi ad uno scritto introduttivo dell’impugnazione: i processi di costoro vengono chiamati per primi ma decisi insieme a tutti gli altri, se ve ne sono.

Dovrebbe poi farsi – come in Cassazione, l’abbiamo visto la settimana scorsa – la relazione sul processo da parte di uno dei Giudici ma la domanda che viene subito rivolta è: “avvocato, possiamo dare per letta la relazione?”, se la risposta è “sì” si adombrano e talvolta non viene neppure fatta passando direttamente alla requisitoria del Procuratore Generale che, il più delle volte, consiste in un tacitiano “chiedo la conferma della sentenza” senza spiegare il perché.

Questo, in riassunto, lo schema di un processo penale di appello tipo nel nostro Paese:

Presidente: “Chiamiamo il processo a carico di Tizio, la relazione viene data per letta, parola al Procuratore Generale”

Procuratore Generale: “Chiedo la conferma della sentenza”

Avvocato difensore: “Mi riporto ai motivi”.

Dopodichè, incamerati un certo numero di processi celebrati in tal modo, la Corte si ritira in camera di consiglio e li decide tutti insieme in tempo utile per essere a casa all’ora di pranzo.

Se non ci credete, una mattina andate a vedere in Tribunale se le cose non vanno così, può bastare un’oretta: sapete, da noi l’efficienza nell’amministrazione della Giustizia è una realtà.

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