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In attesa di Giustizia: chicchi di veleno

Pierfrancesco Pacini Battaglia, “Chicchi” per gli amici…e chi sarà mai? Pochi lo ricordano e probabilmente c’è chi si allieta se questo protagonista della stagione di Mani Pulite sia stato dimenticato e poi se ne sia andato in silenzio, a 89 anni, sebbene quella del silenzio non sia stata per lui una regola sempre rigorosamente rispettata: la sua scomparsa non ha interessato granché le cronache, con l’eccezione inziale – per lui, pisano –   delle testate della Nazione e del Tirreno.

Certamente fu piuttosto loquace nel 1993 con i magistrati del Pool di Milano ai quali riferì di movimentazioni di denaro degne della finanziaria di uno Stato sovrano effettuate tramite la Karfinco, un istituto di credito ginevrino di sua creazione specializzatosi nel deposito ed amministrazione di fondi neri e mazzette.

Chicchi Pacini Battaglia, nonostante abbia ricoperto un ruolo di cruciale importanza nel sistema tangentizio, evaporò tanto rapidamente quanto in maniera misteriosa dalla Tangentopoli lombarda, pulito come il sederino di un bimbo e senza neppure subire l’onta di San Vittore, dopo essersi presentato spontaneamente in Procura dove fu trattato in guanti bianchi anche per le condizioni di salute rese critiche da un cuore malandato. “Noi, per farlo parlare mica potevamo picchiarlo” disse poi Davigo di cui è, peraltro, nota preferenza per la moral suasion assicurata dalla galera. Del resto, a quei tempi, confessare era la parola d’ordine per chi sceglieva di avventurarsi con le sue gambe al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano.

Tra le tante cose dette da Pacini Battaglia, che non esitò a scaricare su chiunque altro la colpa per ogni malefatta riconducibile alla gestione della sua banca, permangono inquietanti un paio di affermazioni successive: “si è pagato per uscire da Tangentopoli” e “Di Pietro e Lucibello (l’avvocato, notoriamente molto amico del P.M., da cui fu difeso) mi hanno sbancato…”; nessuno, opportunamente, gli ha mai chiesto conto, di dare una spiegazione a queste frasi e l’argomento è stato trattato alla stregua di una leggenda metropolitana da destinare ad un più rassicurante oblio.

Voci dal sen fuggite, chicchi di veleno distribuiti in dosi non letali da colui che fu definito “il banchiere che stava un gradino sotto Dio” e che alcuni anni dopo fu arrestato nell’ambito di un’indagine spezzina insieme a Lorenzo Necci, ex A.D. delle Ferrovie dello Stato, ed all’ex parlamentare Danesi: niente indulgenza plenaria e quella volta fu condannato a sei anni di reclusione in parte minima scontati in carcere, graziato nuovamente dalle sue patologie cardiache.

Ci fu solo un irriducibile segugio, il decano dei cronisti giudiziari milanesi Frank Cimini, il quale ebbe l’ardire di scrivere che Pacini Battaglia, con il suo silenzio a corrente alternata su come erano andati realmente i fatti in quelle indagini, salvò l’immagine della magistratura.

La madre di tutte le tangenti, così Antonio Di Pietro descrisse in maniera pittoresca la vicenda Enimont nel corso del processo a Sergio Cusani ma, a distanza di trent’anni, l’unica definizione che ragionatamente si può dare è proprio quella di Mani Pulite come la Mater Lacunosa di tutte le inchieste per tutto ciò che ha comportato come conseguenza delle forzature probatorie – non di rado un po’ grossier –  in virtù della supplenza del codice con il cosiddetto “rito ambrosiano” a tacere dello stravolgimento dell’equilibrio tra poteri dello Stato con la subalternità della politica alla magistratura, ai silenzi imbarazzati ed ai mea culpa postumi di alcuni ex P.M., per non parlare dei troppi misteri che accompagnarono quella stagione: dalla pistola con cui Raul Gardini si sarebbe suicidato per poi riporla ordinatamente sul comodino ai presunti conti cifrati in Austria di Di Pietro, al  fascicolo  “Mario Chiesa + Altri” che divenne una specie di contenitore dell’indifferenziata in cui, in maniera volutamente confusa, vennero per anni riversate tutte le investigazioni su oltre 4.500 indagati creando non pochi problemi di accesso agli atti nell’esercizio del diritto di difesa.

Non c’è stato solo Enzo Tortora a testimoniare in questo Paese più che l’attesa il crepuscolo della Giustizia.

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