Magistratura

  • Le istituzioni più forti della delinquenza

    Il 16 gennaio, con la cattura di Messina Denaro, segna la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra che tutti vogliamo sia quella del rafforzamento dello Stato, della Giustizia e della sconfitta della criminalità organizzata, sotto qualunque nome operi o si nasconda.

    Il grande lavoro di tutte le forze di sicurezza, l’abnegazione e spesso il sacrificio hanno permesso di dimostrare che le istituzioni sono più forti della delinquenza e del terrorismo partendo proprio da quanto fece il Generale Dalla Chiesa per arrivare ai giorni nostri.

    Mentre rivolgiamo il nostro ringraziamento ai Carabinieri ed alla magistratura ricordiamo a noi stessi, in questa giornata di vittoria contro la criminalità, tutte le vittime, tutti coloro che con il loro sacrificio hanno difeso la nostra libertà.

    La loro memoria è onorata dalla cattura di colui che era considerato nel mondo uno dei 10 più importanti latitanti, e continuerà ad essere onorata se tutti, dal primo all’ultimo cittadino, sapremo, a fianco di coloro che sono al servizio dello Stato, rispettare le leggi e combattere qualsiasi infiltrazione.

  • In attesa di Giustizia: comici involontari

    Uno dei più subdoli principi su cui fondare la responsabilità degli accusati fu teorizzato ai tempi di Mani Pulite e da allora largamente condiviso e applicato: soprattutto in presenza di qualcuno da condannare a tutti i costi pur senza avere uno straccio di prova.

    Qualcosa, tuttavia, sembra stia cambiando: la Procura di Latina indaga sulle presunte malefatte di una cooperativa i cui amministratori avrebbero malversato fondi pubblici, golosamente intascati invece di distribuirli come salario ai dipendenti ed impiegarli a vario titolo per la corretta gestione della attività. Del dovuto riserbo e del rispetto del segreto istruttorio neanche a parlarne, e fin qui niente di nuovo: di questo aspetto dovremo riparlare.

    La grande novità cui si deve plaudire è  proprio il superamento in questo caso del principio del “non poteva non sapere” a vantaggio di uno stivalato difensore dei braccianti, dei poveri e degli oppressi sebbene sia legato da strettissimi vincoli con le indagate principali che, non solo lo lascia indenne da informazioni di garanzia (e di ciò, nel rispetto delle regole, vi è da compiacersi), ma provoca alternati sussulti di inatteso garantismo da parte di quella sinistra che vi aveva abdicato ab immemorabile. Bene ma non benissimo posto che l’autodifesa – di avvocati per ora sembra non esserci bisogno – non si è basata sulla strenua negazione dell’illegalità ma sulla assoluta inconsapevolezza di quanto pare accadesse all’interno dei componenti dello stato di famiglia ed è culminata con la illustrazione di un diritto che, sino ad ora, non risulta canonizzato né da codici né da pensatori illuminati e progressisti come – tanto per citarne uno –  Martin Luther King: il diritto all’eleganza. Insomma, la moglie di Cesare è un modello al di sopra di ogni sospetto che non conosce oblio e c’è chi tra lacrimevoli sfoghi riesce a regalare momenti di involontaria comicità.

    Questa settimana, poi, il Ministro della Giustizia ha osato preannunciare lo stimolo ad alcune riforme di matrice apertamente liberale subito intese come una dichiarazione di guerra alla magistratura, risultando in particolare intollerabili le affermazioni a proposito di separazione delle carriere tra giudicanti ed inquirenti e buon governo dello strumento delle intercettazioni.

    L’indomita reazione è stata affidata – tra i primi – al Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati il quale ha pianto per le bestemmie alla Costituzione uscite dalla bocca del Guardasigilli, dimenticando che – sia pure timidamente ma in maniera chiara – la nostra Carta fondamentale all’articolo 107 già delinea la netta distinzione tra Giudici e P.M.;  per non farsi mancare nulla, a proposito di intercettazioni, ha ricordato che una legge intesa a regolarne la pubblicità e punire chi ne fa oggetto di indebita divulgazione. Peccato che abbia omesso di rilevare che i casi di indagine e condanna per questo illecito uso di materiale investigativo siano statisticamente irrilevanti: un’altra pièce comica che si risolve in straordinario assist per un finale da avanspettacolo con Macario affidato al Direttore del quotidiano che, non a caso, ha come azionisti di riferimento proprio un comico in pensione oltra ad un impomatato leguleio.

    Tuona Marco Travaglio, dalle colonne de Il Fatto Quotidiano, chiama alle armi il popolo dei giusti e degli onesti per fronteggiare con adeguata durezza e la proverbiale profondità di pensiero qualsivoglia iniziativa intesa a stravolgere le riforme volute dal migliore Ministro della Giustizia degli ultimi trent’anni nei cui confronti si è consumato l’estremo oltraggio…e chi sarà mai? Claudio Martelli, Giovanni Conso? Nossignori: Alfonsino Bonafede, e non siamo su scherzi a parte.

    Con ciò, il buonumore accompagnerà tutti nelle prossime Festività.

  • In attesa di Giustizia: accadde diciotto anni fa

    E’ molto interessante una recentissima sentenza della Corte Costituzionale (l’ultima pronunciata sotto la Presidenza di Giuliano Amato) che ha riconosciuto un perimetro più ampio ai danni risarcibili come conseguenza di quella responsabilità civile dei magistrati che è  già molto parsimoniosamente riconosciuta.

    Evitando ai lettori i dettagli tecnici, la Corte ha stabilito che le vittime di un ingiusto processo o di una ingiusta indagine hanno diritto, oltre che al risarcimento dei danni patrimoniali, a quello dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di fondamentali diritti della persona diversi – ecco la novità – dal diritto alla libertà personale. In sostanza, la decisione rileva che un cittadino “messo alla gogna” da una accusa ingiusta, anche se non arrestato, subisce egualmente la compressione di diritti non meno importanti quali quello alla dignità, alla reputazione personale e professionale ed alla salute fisica e mentale.

    Vediamo cosa è successo partendo dal presupposto che la Corte Costituzionale, generalmente, si pronuncia sulla costituzionalità di una legge laddove un’Autorità Giudiziaria abbia sollevato la questione durante un processo…e la legge in discussione è una delle meno applicate e meno ancora “digerite” dalla magistratura italiana. Scritta (malissimo) nella originaria versione da Giuliano Vassalli dopo il vergognoso massacro giudiziario di Enzo Tortora ed il conseguente referendum, fu poi blandamente rafforzata nel 2015.

    Il caso in questione ha una particolarità: la vittima della ingiusta ed infamante inchiesta giudiziaria all’origine della causa di responsabilità è a sua volta un magistrato. La vicenda origina in Calabria ed ha come protagonista negativo, l’allora PM Luigi De Magistris – meglio noto come Gigi Flop per il miserevole score delle sue indagini – in buona compagnia con il Procuratore Capo Mariano Lombardi di Catanzaro ed al collega di Ufficio, Mario Spagnuolo: alle 5 di mattina del lontano 11 novembre 2004 costoro mandano la Guardia di Finanza a perquisire l’abitazione del dott. P.A.B., magistrato di origini calabresi in servizio presso la Corte di Cassazione con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa; il magistrato non riuscì nemmeno a comprendere il senso della incolpazione provvisoria confusamente descritta nel decreto di perquisizione e sequestro e non solo perché scioccato visto che l’estensore era De Magistris, noto altresì come “Il Pubblico Mistero”, uomo aduso a formulare ipotesi delittuose che forse lui stesso faticava a comprendere. Dopo questa incursione, tranne lo sputtanamento, non accadde più nulla: nemmeno una convocazione per essere interrogato. Nulla di nulla, e siamo sempre nell’ambito di diffusi (mal)costumi giudiziari di questo Paese, e di alcune sue Procure in particolare. Quando finalmente, dopo due anni, la posizione di questo sventurato venne trasmessa all’Autorità competente (già: erano anche territorialmente incompetenti), cioè la Procura di Roma, chi lesse le fumisterie incomprensibili della imputazione provvisoria  richiese subito, ottenendola, l’archiviazione e il dott. P.A.B. diede avvio al giudizio nei confronti dello Stato per la sua responsabilità sussidiaria ed ottenendo la liquidazione dei danni patrimoniali, ma non quelli morali perché il dott. P.A.B. non era stato arrestato. Si va avanti ed infine la terza sezione civile della Cassazione ritiene di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale: ora la vittima di quella ingiustizia avrà diritto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali.

    Tuttavia mi sembra di sentire che ciascuno di voi, letta questa storia, si stia chiedendo: ma se la vittima non fosse stato un magistrato, sarebbe andata nello stesso modo? La stessa domanda che mi stavo ponendo anche io, al netto dei diciotto anni di attesa di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: standard italiani 2

    Ancora un femminicidio brutale, quello di Alessandra Matteuzzi, a Bologna, per mano del suo ex compagno: è la cronaca di una morte annunciata…ma non per tutti, come vedremo.

    Secondo copione, abbiamo una relazione  – a cui la donna aveva deciso di porre termine – caratterizzata da  atti persecutori ininterrotti per mesi sino a determinare il deposito di una denuncia per stalking alla Procura della Repubblica di Bologna dove, ora, la Ministra Cartabia ha inviato gli Ispettori per capire cosa sia successo, o meglio, cosa non sia successo.

    Infatti, la legge che – mutuando la denominazione per le urgenze impiegata nel Pronto Soccorso – è stata   soprannominata “Codice Rosso” sembra non aver funzionato e non per inadeguatezza della norma che prevede una tempistica molto stringente volta proprio a mettere con rapidità in sicurezza le vittime di violenza di genere prevenendo quelle escalations che, come questa volta, possono risultare fatali.

    In particolare, è previsto che le Forze dell’Ordine, una volta ricevuta la denuncia, ne riferiscano immediatamente al Procuratore il quale, a sua volta, entro tre giorni deve dare avvio alle indagini, disporre l’audizione della persona offesa e di eventuali testimoni adottando con tempestività e laddove necessario cautele idonee ad impedire i contatti e l’avvicinamento del persecutore alla sua vittima: misure che possono estendersi sino all’arresto. Nel caso di Alessandra Matteuzzi, fatta salva la prima comunicazione dei Militari dell’Arma al P.M., nulla di tutto ciò è stato fatto e vi è da temere una dipendenza da sopore feriale: donde l’avvio di una ispezione.

    La denuncia, invero, reca la data del 29 luglio: tre giorni prima del fatidico inizio del mese di agosto.  A fronte delle prime contestazioni di inerzia, fonti vicine alla Procura hanno sostenuto che sarebbe stato impossibile sentire i testimoni perché erano in vacanza: una pezza peggiore del buco perché la prima persona da ascoltare sarebbe stata proprio Alessandra che in ferie non era, come dimostra la tragica circostanza di essere stata uccisa sotto casa sua. Quanto ad altre persone informate dei fatti, salvo che non fossero in crociera nell’arcipelago di Vanuatu (tanto per dirne una) imponendo una complicata rogatoria internazionale, sarebbe bastata – come spesso si fa – una delega per farle interrogare dai Carabinieri del luogo ove si trovavano.

    Oppure…non sarà che in ferie è andato il P.M. incaricato ed il suo sostituto non si è raccapezzato tra fascicoli che non conosceva? A pensar male si fa peccato ma spesso non si sbaglia.

    Il Procuratore Capo di Bologna, in seguito e un po’ in affanno, ha difeso l’operato del suo Ufficio  affermando che, sia pure dopo mesi di appostamenti sotto casa, violazioni della posta elettronica e dei social networks, danneggiamenti dell’auto ed altro ancora, non vi erano elementi da cui dedurre l’attualità di un pericolo e non sarebbe stato possibile richiedere un provvedimento restrittivo di alcun genere – neppure un divieto di avvicinamento? – perché, a tal fine, sarebbe stato previamente indispensabile ottenere riscontri a quanto esposto per evitare di incarcerare una persona che, a seguire, potrebbe risultare innocente: apprezzabile quanto insolito conato di garantismo che confligge con l’evidenza che se le indagini non si fanno appare improbabile che i fatti vengano chiariti ed i riscontri si rinvengano per virtuoso intervento dello Spirito Santo.

    La verità potrebbe davvero essere un’altra ed ancora una volta insita negli immutabili ed intoccabili standard italiani: le vacanze d’agosto, caschi il mondo, non si toccano mentre proprio il resto del mondo le fa scaglionate.

    In una vicenda come questa, poi, nel “rispetto” di un altro modello di diffusa sottocultura non poteva mancare una voce stonata: quella del Direttore Generale della Croce Bianca della Emilia Romagna, tal Donatello Alberti – verrebbe da definirlo un ennesimo esempio di pezzente morale – il quale non ha mancato di osservare come l’abbigliamento della sventurata (che, tra l’altro, lavorava nel settore della moda) fosse da  donna scostumata e provocante e, quindi, non c’è da sorprendersi se è stata aggredita dopo aver fatto ingelosire un povero ragazzo.

    Nel frattempo, quando ormai è troppo tardi, l’assassino è stato arrestato ma non può certo dirsi che l’attesa di giustizia ne sia soddisfatta: le cautele si sarebbero potute e dovute adottare un istante prima…ma prima di tutto negli standard italici viene il meritato riposo agostano.

  • In attesa di Giustizia: correnti e spifferi

    Il Presidente Mattarella ha indetto per il 18 e 19 settembre le elezioni per il rinnovo del C.S.M.: un Consiglio che arriva faticosamente al suo termine naturale dopo essere stato investito dalle conseguenze dell’”affaire Palamara” che ha determinato – tra l’altro – la necessità di elezioni suppletive causate dalle dimissioni di alcuni componenti che ne erano stati coinvolti, dalle polemiche per la gestione anomala di verbali secretati della Procura di Milano da parte di Piercamillo Davigo, dalla ostinata resistenza di costui alla cessazione della funzione consiliare dopo il pensionamento. Queste, solo per citare alcune delle criticità che hanno interessato il quadriennio più tribolato dell’organo di autogoverno della magistratura che, a memoria d’uomo, si ricordi tra spifferate editoriali sulle modalità di affidamento degli incarichi più prestigiosi e crisi delle correnti (largamente politicizzate) alle quali appartiene la gran parte dei circa 9.600 magistrati ordinari in servizio. Per non parlare della gestione delle indagini contro l’avversario di turno del partito di riferimento, a prescindere dalla fondatezza.

    E se il Consiglio Superiore, anche in passato non ha dato prova del dovuto rigore – in sede disciplinare e non solo – non altrettanto può dirsi delle correnti: lo dimostra la recente pubblicazione su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica, di interessanti documenti relativi al caso Tortora che attestano quanto dura sia stata in allora la presa di posizione di MD nei confronti sia dei magistrati responsabili di quella sciagurata indagine, sia della decisione del CSM di archiviare ogni procedimento disciplinare sui medesimi. Una presa di posizione pubblica di una tale durezza che portò addirittura alla crisi della Giunta di A.N.M., che dovette dimettersi.

    Con questa pubblicazione e il richiamo ad una storia remota ma non dimenticata si rivendica una precisa identità culturale e politica di quella parte della magistratura italiana, proprio in relazione al caso simbolo della malagiustizia italiana. Come dire (e da sempre su queste colonne condividiamo il concetto) che la magistratura italiana non è (o non è stata?) una indistinta espressione di desolanti riflessi corporativi. E le correnti, intese come espressione di pensiero e culture differenti all’interno della giurisdizione, sono (o sono state?) occasione di confronto, di crescita civile, di ricchezza culturale.

    Marzo del 1989, all’indomani della definitiva assoluzione di Enzo Tortora: la denuncia contro gli uffici giudiziari napoletani viene estesa anche alla oscura gestione dell’inchiesta sull’omicidio del giovane giornalista Siani e  MD chiede con determinazione che il CSM dia seguito a severi provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati responsabili “del più dirompente caso della vita politico-istituzionale italiana”. Denunciano l’assurdità che uno di essi, il dott. Felice di Persia, sia stato nel frattempo eletto proprio al CSM. Tutto inutile, il CSM archivierà ogni accusa e Magistratura Democratica non mancò di registrare che “la logica corporativa non tollera che dall’interno della magistratura vengano critiche alla gestione degli uffici giudiziari o allo stesso CSM”.

    C’è, dunque, anche nobiltà della storia del correntismo all’interno della magistratura, ma ciò che dobbiamo domandarci oggi è cosa sia rimasto di quelle spinte ideali, di quella indipendenza di pensiero, e soprattutto di quella attenzione alle garanzie ed ai diritti nei processi; e semmai, come poterli recuperare. Il Paese ha attraversato anni di drammatica alterazione degli equilibri costituzionali, con una esondazione catastrofica del potere giudiziario in danno del potere politico e la superfetazione del potere  incontrollato delle Procure. Vi è da sperare che almeno una parte della magistratura italiana sia  attraversata da una riflessione critica ed autocritica su questi temi? O quella bella pagina “napoletana”, tra spifferi e correnti,  resterà solo un lontano  ricordo, da guardare con malinconica trepidazione, come si fa con gli album di famiglia?

  • In attesa di Giustizia: all’armi, all’armi!

    La riforma della Giustizia “a firma” della Ministra Cartabia, oggettivamente, non è entusiasmante e Carlo Nordio, non uno qualunque, l’ha definita “il minimo sindacale per conseguire i fondi europei del PNRR”.

    Marta Cartabia ed il suo staff, d’altro canto, hanno un limite insuperabile che è quello della necessaria approvazione delle iniziative di legge di origine governativa da parte del Parlamento: e qui iniziano i guai perché ciò significa raggiungere equilibri anche improbabili nella prospettiva di vedersela con i voti, ahinoi ancora numerosi, delle truppe cammellate del giullare che l’ha preceduta nel ruolo di Guardasigilli offrendo, quando ha tentato di parlare di diritto, involontari momenti di ilarità.

    Un giullare, dunque, assai diverso da quelli di shakespeariana memoria che nell’”Enrico IV”, piuttosto che in “Re Lear” incarnano una sensibilità diversa che li porta ad esprimere con inattesa saggezza la propria verità di fronte alle vicende umane e che – oltretutto – non si valgono del consenso di comici veri prestati alla politica o del sostegno dottrinale dell’avvocato Conte. Non Paolo, il jazzista: quello lo si ascolta sempre volentieri.

    Frutto, quindi, di implacabili esigenze di compromesso, la riforma nasce criticata da più parti e ferocemente contrastata dall’Associazione Nazionale Magistrati che ha persino acquistato pagine di quotidiani per gridare il proprio dissenso ai cittadini: non bastando la qual cosa, l’Assemblea Generale del sindacato delle toghe ha proclamato uno sciopero (in data da destinarsi) non per protestare ma per essere ascoltati.

    Ma, cos’è che turba tanto l’Ordine Giudiziario? Forse l’insufficienza di garanzie o che non si siano adottati strumenti per contrastare l’eccessiva durata dei processi, magari l’inadeguatezza dell’organico e delle strutture? E, per essere ascoltati, non basterebbe avere una credibilità un filo maggiore a quella attuale?

    No! Le preoccupazioni sono ben altre: prima fra tutte sembra essere la istituzione di un fascicolo per ogni magistrato (Giudice o P.M. che sia) che ne raccoglie i dati dello sviluppo professionale e delle performances, una più rigida separazione delle funzioni tra giudicanti ed inquirenti e – naturalmente – lo sbarramento al rientro in magistratura dopo esperienze di natura politica.

    Tradotto: nessuno mi può giudicare nemmeno tu (riferito al nuovo C.S.M.) come cantava Caterina Caselli nel lontano 1966, pochi anni anteriormente alla approvazione della legge c.d. “todos caballeros” che prevede l’automatismo nel progresso in carriera – e nello stipendio – in virtù del semplice ed inesorabile decorso del tempo e di accordi correntizi al posto di una disamina della qualità del lavoro svolto.

    Per esempio, prima di allora, un magistrato che intendesse passare di grado da Giudice di Tribunale a Consigliere di Corte d’Appello vedeva valutati gli esiti proprio in Corte d’Appello delle sentenze da lui redatte. Se venivano in gran numero riformate, beh, che non meritasse il “passaggio di livello” risultava abbastanza chiaro e condivisibile.

    Anche la stretta sulla separazione delle funzioni – al di là di comici lamenti circa la conseguente soggezione all’Esecutivo dei Pubblici Ministeri, impedita da almeno tre articoli della Costituzione – appare non graditissima forse perché non consentirebbe l’allegro zampettare dalla giudicante alla requirente e viceversa a seconda delle sedi o posti semi direttivi o direttivi più appetibili a disposizione.

    E poi, e poi…il divieto di reingresso in magistratura dalla politica: giammai! E se uno non viene rieletto, poverello, cosa fa, resta senza lavoro o se ne deve cercare un altro? Una condizione straziante da prevenire con indomita energia.

    Vedremo cosa deciderà in ultimo la Giunta esecutiva dell’ANM che dovrà riunirsi per definire data e programma della protesta: riunione che, forse, se Palamara non la smette di chiacchierare e la Procura di Brescia di indagare, potrebbe tenersi durante l’ora d’aria al carcere di San Vittore.

  • In attesa di Giustizia: parole, parole, parole

    Nei giorni scorsi il Presidente MATTARELLA si è nuovamente insediato al QUIRINALE, prestando giuramento alle Camere e pronunciando il tradizionale discorso che, altrettanto tradizionalmente, è di alto contenuto istituzionale ma dai contenuti prudentemente generici nel rispetto del ruolo di garanzia che gli è affidato cui corrispondono l’autonomia del Parlamento e del Governo.

    Questa volta, diversamente dal passato, qualcosa di nuovo e di buon auspicio – rispetto ai soliti richiami alla nobiltà della politica, ai principi costituzionali, la solidarietà verso i più deboli… –  si è colto nelle parole del Presidente: una forte sollecitazione alla necessità di riformare la giustizia.

    E’ un tema sul quale MATTARELLA, nei sette anni precedenti, ha mantenuto un atteggiamento che eufemisticamente si potrebbe definire cauto: sette anni di disgrazie, tra l’altro, caratterizzati dall’“affaire” Palamara, dall’occultamento di prove a favore di imputati da parte della Procura di Milano e dai molti altri scandali che hanno assestato colpi formidabili alla autorevolezza della magistratura (m, rigorosamente minuscola).

    Sette anni nei quali il garante della Costituzione ha firmato leggi di evidente incostituzionalità: da quella sulla legittima difesa (in questo caso, invece di opporre il veto, ha tiepidamente suggerito – restando inascoltato – di rivedere alcuni punti non del tutto allineati con la Carta Fondamentale dello Stato) a quella sulla prescrizione, a tacere di quella sul congelamento della prescrizione per i processi precedenti alla riforma da celebrare al Tribunale di Bari, crollato perché, in sostanza, edificio abusivo e privo di manutenzione. Ma gli esempi potrebbero essere anche altri, partitamente nel ruolo di Presidente del C.S.M..

    Colpisce, allora, l’inedita forza degli argomenti, le sollecitazioni affinché la magistratura recuperi credibilità da parte dei cittadini che “neppure devono avvertire il timore per il rischio di decisioni arbitrarie ed imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”.

    Non bastasse, il Presidente ha auspicato che la le riforme siano frutto di un costruttivo confronto tra magistratura (m sempre minuscola, per ora) ed Avvocatura con un richiamo esplicito al ruolo cruciale che quest’ultima riveste in un serio percorso riformatore.

    E ancora: il sovraffollamento carcerario è visto come intollerabile offesa alla dignità umana. Bravo Presidente, bravo anche chi gli ha scritto e/o suggerito il discorso ma la impennata di orgoglio non può che essere applaudita.

    Non da tutti, ovviamente: il Fango (con la g, certo) Quotidiano, commentando il discorso di Mattarella, ha titolato “applausi soprattutto contro i giudici” e l’editoriale di Travaglio trabocca di bile con commenti astiosi.

    In questi giorni si celebra – si fa per dire – il trentennale di “Mani Pulite” che, probabilmente, sarebbe meglio definire “Indagini opache”, l’inizio della fine del giusto processo, e c’è da sperare che la vigorosa sollecitazione del Presidente della Repubblica, con attenzioni rivolte sul versante non solo di chi amministra la amministrazione della giustizia ma di chi ne subisce la preponderante forza, non resti un sussulto isolato.

    C’è da sperare, più che nel Parlamento attuale – infestato da Cinque Stelle cadenti – in quello che verrà, che queste, come in una celebre canzone di Mina, non restino parole, parole, parole, soltanto parole…

  • In attesa di Giustizia: il derby

    Il C.S.M., nel giro di pochi giorni dall’annullamento delle nomine del Primo Presidente e del Presidente Aggiunto della Cassazione, con tempestività ed efficienza fuori dal comune, ha rinominato in quelle funzioni i medesimi Magistrati che il Consiglio di Stato aveva appena ritenuto non disporre di titoli sufficienti rispetto ad altri candidati. Si è così salvata l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario che compete giustappunto al Primo Presidente della Corte (che ha ri-giurato nel ri-prendere le funzioni proprio pochi minuti prima della cerimonia)…la faccia è un’altra cosa.

    Detto questo per dare un seguito (forse non un happy end) all’articolo della settimana precedente, un approccio bipartisan ai temi della Giustizia non può evitarsi parlando di avvocati che, diversamente dai Magistrati – perennemente insufficienti dal punto di vista della copertura dei posti – in Italia, sono in deciso sovrannumero rispetto alle “esigenze di mercato”: basti dire che sono circa il quintuplo di quelli che esercitano in Francia che ha una popolazione più o meno analoga alla nostra. Solo a Milano sono circa 24.000 a fronte di circa 1.300.000 abitanti censiti: a Monza, Lodi, Pavia, Busto Arsizio, Como – per citare le città più vicine – ci sono altri Tribunali ed altri Ordini Forensi con migliaia di iscritti.

    Discende la constatazione che quella dell’avvocato sia una professione “immergente”: tanto è vero che sono aumentate le cancellazioni dagli Albi, diminuite le iscrizioni a Giurisprudenza e alla pratica forense dei neolaureati e non pochi hanno approfittato della possibilità di partecipare al concorso per funzionario di cancelleria o altri possibili. Ovvio che il biennio di pandemia, per evidenti  ragioni, non abbia fatto altro che aggravare la preesistente crisi di settore.

    Crisi non solo economica ma anche culturale e – in non pochi casi – morale. La mancanza di lavoro, infatti, ha portato a sacrificare la preparazione, lo studio, la specializzazione in favore dell’accaparramento indiscriminato di clientela e di casi per cui non si ha alcuna competenza effettiva: le violazioni del codice deontologico sono divenute tristemente all’ordine del giorno.

    In un simile contesto spicca (ma, a parere di chi scrive, certamente non brilla) l’iniziativa di due giovani avvocatesse di Torino – iscritte all’Albo solo da pochi anni – che hanno dato vita ad una pagina Instagram dal nome – francamente poco professionale – dc_legalshow dove “dc” sono le iniziale dei loro cognomi.

    Chi avesse la curiosità – interesse sembra una parola grossa – di andare a vedere, scoprirà che i contenuti si allineano perfettamente alla denominazione della pagina sebbene tradisca l’intenzione dichiarata di pubblicare contenuti di natura giuridica: infatti niente giurisprudenza, legislazione o dottrina che cedono il passo a immagini esclusivamente glamour del duo impegnato non tanto in asperrime battaglie legali quanto in aperitivi, cene in ristoranti stellati, visite alle terme, autentiche sfilate in abiti ed accessori griffatissimi che di show hanno molto e di legal molto poco.

    L’Ordine degli Avvocati di Torino si è subito mobilitato discutendo se si sia in presenza di comportamenti contrari al dovere di dignità e decoro imposti dall’etica professionale e la cui violazione determina sanzioni disciplinari; forse sì, forse no ma un’unica certezza si può ricavare da questo tentativo di emulazione dei Ferragnez: il buon gusto è un perfetto sconosciuto. Trascurando l’evidenza secondo cui le due giovanotte sembrano trascorrere più tempo nelle SPA che in studio, il momento di grande crisi imporrebbe probabilmente un rigoroso understanding nel rispetto di quelle decine di migliaia di colleghi, più o meno giovani, che faticano a pagare le bollette. Opinione personale è che non ne esca una gran bella figura della classe forense: forse siamo in presenza di un derby con la magistratura.

  • In attesa di Giustizia: vieni avanti, cretino!

    Il 1982 non fu solo l’anno dell’indimenticabile “Mundial” di Spagna ma anche quello di uscita di una spassosissima commedia intrepretata da Lino Banfi per la regia di Luciano Salce: “Vieni avanti cretino”.

    La trama parlava dei tentativi di un ex detenuto, appena uscito dal carcere, che tenta senza fortuna di reinserirsi nella società con l’aiuto di un parente impiegato presso un ufficio di collocamento dando origine ad una serie di spassosissime gag.

    Il nostro articolo, invece, tratta un argomento molto meno divertente, anzi, ed è una vera e propria carica di cretini.

    Mentre la Guardasigilli Cartabia, con il contributo delle Commissioni istituite presso il Ministero della Giustizia e pur tra infinte polemiche, tenta di dare respiro al sistema giudiziario con riforme che valgono – tra l’altro – l’erogazione di fondi del PNRR, si è tenuto il concorso per 310 posti di magistrato ordinario.

    Posti destinati in parte a rimpinguare l’organico ed in altra a bilanciare i pensionamenti e, di questi tempi, anche arresti e destituzioni disciplinari dall’ordine giudiziario che stanno falcidiando la pianta organica.

    310, in fondo, non sono nemmeno molti ma, ahinoi, si devono sempre fare i conti con le esauste casse dello Stato che dovrebbero provvedere a pagarne poi gli stipendi e – più o meno – ogni anno quelli sono i posti messi a concorso: all’ultimo hanno partecipato quasi seimila candidati ed i lettori penseranno che sia un numero straordinariamente in eccesso ma non è così.

    Infatti, solo 3.797 hanno completato le tre prove scritte, gli altri hanno abbandonato prima di consegnare l’ultimo elaborato perché evidentemente non si sentivano sicuri del proprio lavoro e in tal modo hanno evitato di “bruciarsi” uno dei tre tentativi che al massimo sono concessi per partecipare a questo concorso.

    Fuori un terzo dei partecipanti, ce ne sarebbero stati comunque a sufficienza e quei quasi quattromila aspiranti  hanno portato a termine le prove, pur consapevoli della difficoltà (legata anche al voto assegnato) perché si sentivano  ragionevolmente certi di avere delle chances di entrare in graduatoria.

    Ebbene, la prova è stata superata solo da 88 di loro e sono tutti soggetti  non solo laureati in giurisprudenza ma già qualificati dall’avere superato altra selezione: il concorso in magistratura è, infatti, “di secondo grado” e come tale prevede un percorso professionale precedente (avvocato, docente universitario, dirigente di ente pubblico…).

    Qualche migliaio di emuli di Davigo – e questo già fa paura – tornerà (per fortuna?), almeno per un po’, ad occuparsi di ciò che facevano prima e – quindi – sono fatti salvi i livelli occupazionali. Bene ma non benissimo perché questa strage di candidati non è frutto di un eccessivo rigore della commissione esaminatrice o di prove di concorso di difficoltà pari alla scienza missilistica necessaria per mandare l’uomo su Marte: i problemi sono stati l’approssimativa conoscenza della lingua italiana, di grammatica e sintassi e certamente non saranno mancati grossolani svarioni in diritto. Insomma, siamo al cospetto di un autentico cimitero culturale.

    Spontanea sorge la domanda: come hanno fatto costoro, non tanto a prendere una prima abilitazione e neppure la laurea ma, ancor prima, a superare l’esame di terza media inferiore? Da domani, tuttavia ve li ritroverete tutti al loro posto: avvocati, ma anche magistrati onorari, dottori di ricerca, funzionari di Polizia.

    E’ il fallimento di una scuola massacrata da riforme idiote e di un’università diventata semplice esamificio.

    Ora siamo di fronte ad una vera e propria carica di cavalleria di cretini per di più patentati perché abilitati a svolgere altre mansioni, altre professioni, tutte delicate e che cercano di conquistare il diritto alla più complessa di tutte tra quelle umanistiche; qualcuno c’è anche il rischio che prima o poi ce la faccia e – a giudicare di ciò che si vede in giro – è già successo, senza indulgere a criticare quell’anima bella di Antonio Di Pietro perché sbagliava (e sbaglia tuttora) i congiuntivi ma, al confronto è meritevole di Presidenza della Accademia della Crusca.

  • In attesa di Giustizia: i coinvolti

    Qualche mese dopo la  vicenda del Giudice Scroccone che non pagava i conti dei ristoranti abitualmente frequentati, storia  dal retrogusto acre del “regolamento di conti” a mezzo stampa dopo una soffiata (come si dice in gergo poliziesco), eccone un’altra con protagonista una toga buongustaia che – però – ha ottenuto rarefatta mediatica, tranne che dalla stampa piemontese: forse perché ci sono altri problemi di cui occuparsi, oppure per non infierire sulle spoglie di una magistratura ormai destituita di autorevolezza e credibilità con grave pregiudizio dei molti che lavorano alacremente e con onestà non solo intellettuale.

    Insomma, i motivi possono essere molti non ultimo quello che il Dottor Andrea Padalino, oggi giudice a Vercelli, ha dei trascorsi come GIP di Mani Pulite e proprio la Procura di Milano ha appena chiesto tre anni di reclusione per lui, accusato di corruzione in cambio di pranzi, cene e pernottamenti nella amena location gestita da Antonino Cannavacciuolo.

    E’ l’ennesimo sintomo  del malessere – che non sembra destinato ad esaurirsi – da cui è affetto l’Ordine Giudiziario riflettendosi inesorabilmente sulla fiducia che l’opinione pubblica ripone nell’amministrazione della Giustizia; i cittadini, tra l’altro, non hanno potuto assistere al giudizio poiché questo processo si sta celebrando con rito abbreviato e perciò senza udienza pubblica; allora, forse, sarebbe stato più corretto (in questo come in altri casi) dare l’informazione dopo una sentenza.

    Ma noi siamo fatti così, inguaribili garantisti e, fatta la premessa che il giudice Padalino ha vivacemente contestato le accuse, siamo molto lontani dal pensiero della buon’anima del Procuratore di Milano Francesco Borrelli che, in un carteggio del 1993 con l’allora Guardasigilli Flick, scriveva che quando vi è una confessione appare persino un po’ farisaico che per prendere atto della realtà si debbano attendere le sentenze: quasi che nel nostro ordinamento non sia previsto che anche la confessione vada verificata per scongiurare il rischio che sia commesso il reato di auto calunnia che – a sua volta – può avere infinite motivazioni. Basti come esempio quello dello “Zio Michele” nel famoso processo per l’uccisione di una adolescente ad Avetrana.

    Esigenze di “cassetta”, prossimità politiche e vere e proprie forme si sottocultura fanno invece sì che la gogna mediatica costituisca regola di base della cronaca giudiziaria sino al punto da creare un nuovo soggetto processuale sconosciuto ai codici: il coinvolto.

    Non può sorprendere che tutto ciò sia opera della creativa redazione de Il Fatto Quotidiano che, commentando la formazione della nuova Giunta Comunale romana, ha stigmatizzato la circostanza che il Gualtieri abbia chiamato ad assisterlo nientemeno che tre persone “sfiorate dall’inchiesta sul Mondo di Mezzo” e cioè quella cosiddetta “Mafia Capitale”. Ma cosa vorrà mai significare “sfiorato”? Si tratta di coloro che non sono mai stati neppure interrogati e le relative posizioni sono state rapidamente archiviate per radicale mancanza di elementi di prova che potessero giustificare anche solo il rinvio a giudizio.

    Eccoli: i coinvolti, quelli di cui nessuno probabilmente aveva mai saputo nulla ma che vengono serenamente sputtanati con nome, cognome ed incarico assegnato dal Sindaco, in un articolo a cinque colonne, accomunati ad un quarto personaggio, nominato City Manager, tutt’ora indagato per un presunto abuso di ufficio (reato già modificato e parzialmente abrogato per legge) basato su elementi così fragili che in oltre quattro anni non hanno portato nemmeno alla chiusura delle indagini.

    Nulla, invece, si troverà tra quelle pagine a proposito della decina di condanne per diffamazione – sia in sede penale che civile – divenute definitive a carico di Marco Travaglio, vedovo Conte. Forse sarà una banale dimenticanza o – chissà – magari si tacciono per non intaccare il dogma della infallibilità dei giudici reclamando il diritto di cronaca e la funzione di super eroe del Direttore chiamato alla missione di punire i malvagi e redimere una Nazione.

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