Magistratura

  • Sentenza della Corte di Cassazione

    Tutti sappiamo, o almeno ne abbiamo sentito parlare, della saggezza di re Salomone. Costui dovendo decidere, tra due donne che ne rivendicavano entrambe la maternità, a chi affidare un bambino, propose di tagliare l’infante a metà affinché tutti fossero soddisfatti. Naturalmente la vera madre dichiarò di preferire rinunciare al figlio piuttosto che causarne la morte. Così per Salomone fu evidente da che parte stesse la verità.

    La logica che l’antico sovrano applicò fu quella che noi oggi definiamo “intelligenza parallela” e cioè, anziché ricercare una soluzione tra leggi, codici e codicilli usò il semplice buonsenso e la vera intelligenza.

    La questione sembra porsi come esempio anche nella recente sentenza della Corte di Cassazione che ha deciso che lo stato paghi un indennizzo ai migranti trattenuti per otto giorni su di una nave soccorso prima che questa ottenesse il permesso di attraccare ad un porto italiano.  Non vorrei qui, né potrei discutere nel merito strettamente giuridico della cosa, anche perché non sono a conoscenza dei dettagli della sentenza. Ciò che mi permetto, invece, di affermare è che, giuridicamente giusta o sbagliata quella sentenza, è ben difficile farla collimare con il buon senso e, a mio giudizio, con il senso ultimo della giustizia.

    Qualcuno ha recentemente ipotizzato che grazie ai progressi dell’intelligenza artificiale anche la funzione dei giudici potrebbe diventare superflua: poiché tutte le leggi sono già scritte sembrerebbe sufficiente affidare il compito di emettere sentenze ad un computer che sicuramente (?) non sbaglierebbe.

    In realtà, un computer può pure essere dotato di una inarrivabile intelligenza logica ma mai, poiché non gli sarebbe possibile, potrebbe utilizzare anche il buon senso.

    Nel caso del processo in questione credo che proprio il buon senso e una intelligenza non aritmetica ci consiglierebbe di considerare anche questi fattori:

    1 – gli emigranti in questione non erano, a stretto rigore, dei naufraghi e le loro vite non erano più in pericolo. Infatti, la nave soccorritrice aveva già provveduto a salvarli e rifocillarli. Nel momento in cui si trovavano su quella nave essi erano solamente delle persone qualunque che cercavano di entrare, senza averne ottenuto preventivamente il permesso, in un Paese straniero che non li aveva richiesti né desiderava la loro presenza.

    2 – Il vero e proprio naufragio avvenne nelle acque libiche e tutte le persone in pericolo furono salvate da un rimorchiatore, il Vos Thalassa. Ricevuto quest’ultimo l’ordine delle autorità libiche di sbarcare in un loro porto nacque una ribellione violenta a bordo, cosa che costrinse il comandante a richiedere l’aiuto della nave italiana Diciotti. Quest’ultima dovette attraversare la zona di mare di competenza maltese e chiese l’autorizzazione allo sbarco in un loro porto, sicuramente “sicuro”. Tuttavia, le autorità dell’isola rifiutarono di lasciare attraccare la nave che si indirizzò così verso l’Italia. Il ministro Salvini autorizzò lo sbarco solo a condizione che i violenti fossero sottoposti a un processo ma la sua richiesta fu rifiutata.  I minori, e altre cinque persone considerate a rischio per la loro salute furono allora autorizzate a sbarcare e il comandante della nave fu invitato dalle autorità italiane competenti ad indirizzarsi verso altra destinazione sicura. Durante i sei giorni che, disubbidendo all’invito, il comandante rimase fermo in porto, la nave avrebbe potuto raggiungere qualunque altro porto del Mediterraneo, magari più volenteroso di accoglierli.

    3 – L’allora Ministro degli Interni venne subito iscritto nel registro degli indagati per il reato di sequestro aggravato di persona insieme a Matteo Piantedosi, all’epoca suo capo di Gabinetto. Il fascicolo venne poi trasferito al Tribunale dei ministri, che però ne chiese l’archiviazione. Il tribunale ordinario tuttavia non accolse la richiesta trasmettendo l’incartamento al Senato per chiedere l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro. A febbraio 2019, la giunta per le autorizzazioni – con i voti della maggioranza Lega-M5S – respinse la richiesta bloccando di fatto l’iter giudiziario. Oggi, invece, la decisione della Cassazione di accogliere il ricorso di 41 migranti e concedere il risarcimento danni (stimato da 42.000 a 72.000 euro a persona). Se è pur vero che la magistratura resta indipendente dagli altri poteri istituzionali, è altrettanto vero che scelte strettamente politiche non dovrebbero essere sindacate dai magistrati, salvo che dalla Corte Costituzionale.

    3 – il fenomeno dei flussi migratori verso l’Europa è indubbiamente un fenomeno epocale ma è chiaro a tutti che immigrazioni incontrollate e abusive sono foriere di forti disagi, se non peggio, per le popolazioni autoctone. È quindi facilmente intuibile il perché la maggioranza dei popoli europei cerchi di scoraggiarle. La scelta del governo italiano di impedire o almeno ritardare l’attracco di una nave con migranti clandestini a bordo fu una scelta politica con finalità deterrente. Tra l’altro, una scelta condivisa dalla stragrande maggioranza dei cittadini che, a suo tempo, avevano scelto i politici autori di quelle scelte.

    4 – Come ha correttamente detto la Presidente del Consiglio Meloni una sentenza come quella recentemente emessa dalla Cassazione costituisce un precedente che potrebbe portare migliaia di altri immigrati clandestini ad avanzare la stessa richiesta di indennizzo causando così un pesante potenziale grave vulnus ai bilanci dello Stato. Non va sottovalutato l’effetto di incoraggiamento che tale sentenza potrebbe costituire per altri milioni di persone che ambirebbero ad entrare in Italia, e quindi in Europa, senza averne alcun titolo o diritto.

    Non sono un giurista e quindi, come già detto, non intendo entrare nel merito legale ma se l’avvenimento riguardante Salomone, mito o realtà che fosse, un insegnamento doveva darci, sembra proprio che i giudici della Corte di Cassazione non ne abbiano tenuto conto.

    Purtroppo, mi nasce uno spiacevole sospetto: che la scelta fatta da quei magistrati rientri nel filone della guerra che il potere giudiziario ha intrapreso contro quello politico per la decisione di quest’ultimo (a mio avviso necessaria) di separare le carriere dei magistrati giudici da quelli inquirenti.

  • Presentato a Milano ‘Meglio separate’ di Gaetano Bono, il libro sulla separazione delle carriere in magistratura

    Presentato a Milano, lo scorso 6 marzo, il libro Meglio separate. Un’inedita prospettiva sulla separazione delle carriere in magistratura, del dott. Gaetano Bono, Sostituto Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Caltanissetta, incentrato sulla divisione delle carriere dei Magistrati. Ad ascoltare Bono, attualmente il più giovane sostituto procuratore generale in servizio, una platea di avvocati e magistrati ,che ha affollato la Biblioteca “Avv. Giorgio Ambrosoli” al Palazzo di Giustizia di Milano, interessata ad un argomento sul quale, da trent’anni circa, si dibatte con pareri contrastanti. Bono, infatti, ha affrontato la questione, sia nel libro, sia durante la presentazione, senza pregiudizi, mostrando i punti di forza, le criticità e le possibili soluzioni. Criticità che portano la magistratura, come è emerso anche durante l’incontro, a contrastare e criticare la proposta, non ravvisando alcuna contrapposizione dei ruoli se non, piuttosto, un limite professionale e di ruolo. Punti di forza colti, invece, dagli avvocati. Il dibattito ha permesso di focalizzare l’attenzione anche sullo stato attuale della giustizia italiana, sui processi dilatati nel tempo e su quelli mediatici, sulle fughe di notizie, sulle difficoltà che sta affrontando il settore penale. E non poteva mancare un riferimento a Giovanni Falcone, la cui morte ha fatto scattare nell’autore, a oli 9 anni, il desiderio di diventare da grande sostituto procuratore.

    Introdotto dall’Avv. Daniele Terranova, Commissione Giustizia Tributaria dell’Ordine Avvocati Milano e moderato dall’Avv. Alessandro Mezzanotte, Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Milano, l’incontro ha visto la partecipazione del Dott. Fabio Roia, Presidente del Tribunale di Milano, del Dott. Marcello Viola, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, dell’Avv. Valentina Alberta, Presidente Camera Penale di Milano, del Dott. Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, dell’Avv. Giovanni Briola, Consigliere Tesoriere dell’Ordine degli Avvocati di Milano.

  • Meglio separate

    Meglio separate – Un’inedita prospettiva sulla separazione delle carriere in magistratura”, è un libro scritto da Gaetano Bono – Sostituto Procuratore presso la Procura Generale di Caltanissetta – pubblicato alla fine di ottobre 2023, che affronta senza pregiudizi la questione, mostrando i punti di forza e le criticità delle contrapposte tesi che, da almeno trent’anni, si fronteggiano, e che pongono la magistratura da sempre in posizione di unanime contrasto, quantomeno nel pubblico dibattito.

    Eppure l’autore, da magistrato, mostra che è possibile realizzare una separazione delle carriere non solo tale da fugare i pericoli prospettati dalla magistratura, ma anche da apportare notevoli miglioramenti all’efficienza degli uffici giudiziari.

    Questo libro, difatti, non si limita a parlare della separazione delle carriere, anzi essa funge da spunto per offrire uno spaccato sulla situazione della giustizia italiana, sulle ragioni della sua crisi e sulle possibili soluzioni (non solo nel settore penale).

    Merita di essere evidenziato il registro linguistico adottato, che rende la lettura scorrevole, e consente di rivolgere il libro anche a coloro che non hanno dimestichezza con il mondo giudiziario. In un certo modo, anzi, l’autore sembra avere voluto rivolgersi al cittadino medio che, preso dalla miriade di faccende quotidiane, potrebbe essere indotto a considerare la questione della separazione come un qualcosa che riguarda solo tribunali e avvocati. Mentre invece è in gioco, in ultima analisi, la libertà dei cittadini, che verrebbe meno se non venisse loro assicurata una effettiva tutela giurisdizionale. E se la riforma della Giustizia fosse realizzata male – avverte Bono nel libro – a farne le spese sarebbero soprattutto i cittadini, che perderebbero la possibilità di contare su una magistratura autonoma e indipendente, sia che fossero coinvolti in una vicenda giudiziaria come autori del reato, sia come persone offese.

    L’autore – in coerenza con il metodo che dichiara di adottare, ossia quello di rifiutare qualsivoglia imposizione dogmatica e di svolgere un’analisi scevra da pregiudizi – cerca di mettere il lettore nelle condizioni di farsi una propria idea in maniera consapevole, poiché gli illustra, passo dopo passo, il fondamento delle sue tesi e – forte della sua esperienza professionale di pubblico ministero – si spinge a disvelare i meccanismi di funzionamento degli uffici giudiziari, specialmente degli uffici di procura e dei rapporti tra PM e polizia giudiziaria.

    Dunque parlare di separazione delle carriere dei magistrati, nonostante a prima vista possa sembrare un argomento settoriale, significa trattare di un tema centrale per la nostra democrazia e per la vita quotidiana dei cittadini.

    Acquisire consapevolezza dei pericoli di una separazione fatta male e, nel contempo, dei vantaggi di una riforma ben realizzata, diviene dunque essenziale per potere valutare le proposte di legge che, di volta in volta, vengono presentate in Parlamento. È da sottolineare, infatti, che il libro è stato scritto guardando ai valori e ai principi costituzionali, senza cristallizzarsi su uno specifico testo di legge e ciò lo rende unico nel panorama editoriale, poiché gli altri testi similari partono tutti da specifici riferimenti ed esauriscono la loro proiezione nell’analisi degli stessi; mentre, invece, “Meglio separate” può essere utilizzato sia oggi, sia nel futuro, come uno strumento per valutare se una certa ipotesi di separazione metta a rischio la democrazia, potendo portare alla sottomissione del pubblico ministero al potere politico e mettendo a repentaglio il delicato equilibrio nella distribuzione dei poteri dello Stato.  Ciò, però, non vuol dire che si tratti di un testo astratto, anzi l’autore ha pure analizzato l’attuale riforma in discussione in Parlamento.

    In definitiva, perché leggere “Meglio separate”? Per acquisire maggiore consapevolezza sulle implicazioni della riforma e sulle priorità per migliorare realmente il sistema giustizia, in quanto la separazione – afferma Bono – può rappresentare un’opportunità di miglioramento solo se la si accompagnasse a una maggiore specializzazione dei magistrati, alla riduzione del numero di procedimenti civili e penali, all’accorpamento delle procure piccole in uffici più grandi ed efficienti, all’informatizzazione, alla digitalizzazione, alla diminuzione dei tempi dei processi, e se si rispettassero le condizioni poste nel testo.

  • In attesa di Giustizia: chicchi di veleno

    Pierfrancesco Pacini Battaglia, “Chicchi” per gli amici…e chi sarà mai? Pochi lo ricordano e probabilmente c’è chi si allieta se questo protagonista della stagione di Mani Pulite sia stato dimenticato e poi se ne sia andato in silenzio, a 89 anni, sebbene quella del silenzio non sia stata per lui una regola sempre rigorosamente rispettata: la sua scomparsa non ha interessato granché le cronache, con l’eccezione inziale – per lui, pisano –   delle testate della Nazione e del Tirreno.

    Certamente fu piuttosto loquace nel 1993 con i magistrati del Pool di Milano ai quali riferì di movimentazioni di denaro degne della finanziaria di uno Stato sovrano effettuate tramite la Karfinco, un istituto di credito ginevrino di sua creazione specializzatosi nel deposito ed amministrazione di fondi neri e mazzette.

    Chicchi Pacini Battaglia, nonostante abbia ricoperto un ruolo di cruciale importanza nel sistema tangentizio, evaporò tanto rapidamente quanto in maniera misteriosa dalla Tangentopoli lombarda, pulito come il sederino di un bimbo e senza neppure subire l’onta di San Vittore, dopo essersi presentato spontaneamente in Procura dove fu trattato in guanti bianchi anche per le condizioni di salute rese critiche da un cuore malandato. “Noi, per farlo parlare mica potevamo picchiarlo” disse poi Davigo di cui è, peraltro, nota preferenza per la moral suasion assicurata dalla galera. Del resto, a quei tempi, confessare era la parola d’ordine per chi sceglieva di avventurarsi con le sue gambe al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano.

    Tra le tante cose dette da Pacini Battaglia, che non esitò a scaricare su chiunque altro la colpa per ogni malefatta riconducibile alla gestione della sua banca, permangono inquietanti un paio di affermazioni successive: “si è pagato per uscire da Tangentopoli” e “Di Pietro e Lucibello (l’avvocato, notoriamente molto amico del P.M., da cui fu difeso) mi hanno sbancato…”; nessuno, opportunamente, gli ha mai chiesto conto, di dare una spiegazione a queste frasi e l’argomento è stato trattato alla stregua di una leggenda metropolitana da destinare ad un più rassicurante oblio.

    Voci dal sen fuggite, chicchi di veleno distribuiti in dosi non letali da colui che fu definito “il banchiere che stava un gradino sotto Dio” e che alcuni anni dopo fu arrestato nell’ambito di un’indagine spezzina insieme a Lorenzo Necci, ex A.D. delle Ferrovie dello Stato, ed all’ex parlamentare Danesi: niente indulgenza plenaria e quella volta fu condannato a sei anni di reclusione in parte minima scontati in carcere, graziato nuovamente dalle sue patologie cardiache.

    Ci fu solo un irriducibile segugio, il decano dei cronisti giudiziari milanesi Frank Cimini, il quale ebbe l’ardire di scrivere che Pacini Battaglia, con il suo silenzio a corrente alternata su come erano andati realmente i fatti in quelle indagini, salvò l’immagine della magistratura.

    La madre di tutte le tangenti, così Antonio Di Pietro descrisse in maniera pittoresca la vicenda Enimont nel corso del processo a Sergio Cusani ma, a distanza di trent’anni, l’unica definizione che ragionatamente si può dare è proprio quella di Mani Pulite come la Mater Lacunosa di tutte le inchieste per tutto ciò che ha comportato come conseguenza delle forzature probatorie – non di rado un po’ grossier –  in virtù della supplenza del codice con il cosiddetto “rito ambrosiano” a tacere dello stravolgimento dell’equilibrio tra poteri dello Stato con la subalternità della politica alla magistratura, ai silenzi imbarazzati ed ai mea culpa postumi di alcuni ex P.M., per non parlare dei troppi misteri che accompagnarono quella stagione: dalla pistola con cui Raul Gardini si sarebbe suicidato per poi riporla ordinatamente sul comodino ai presunti conti cifrati in Austria di Di Pietro, al  fascicolo  “Mario Chiesa + Altri” che divenne una specie di contenitore dell’indifferenziata in cui, in maniera volutamente confusa, vennero per anni riversate tutte le investigazioni su oltre 4.500 indagati creando non pochi problemi di accesso agli atti nell’esercizio del diritto di difesa.

    Non c’è stato solo Enzo Tortora a testimoniare in questo Paese più che l’attesa il crepuscolo della Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: la dolce vita

    Lo stupore non è mai troppo e non ha mai fine: con il passare del tempo ed il succedersi degli eventi che, all’atto pratico, ne svelano le caratteristiche, la Riforma della Giustizia “Cartabia” si propone come una delle più “bizzarre” (diciamo così) tra quelle cui una legislazione sistematicamente sciatta ed approssimativa ci ha abituato da decenni. Queste le ultime due perle.

    Il Ministro brasiliano della Cultura, una distinta signora, si è recata in visita ufficiale alla biennale di architettura di Venezia: volendo visitare la città, apprezzandone da vicino tutte le caratteristiche, ha scelto di muoversi a piedi ed in vaporetto come una turista qualsiasi. E come una turista qualsiasi è stata borseggiata.

    Recatasi in Questura per fare la denuncia si è sentita rispondere che non era possibile poiché è una cittadina straniera non residente in Italia: come tale, non in grado di assicurare la sua presenza all’eventuale processo a carico dei presunti colpevoli se mai verranno individuati. Dunque niente denuncia, niente indagini neppure di facciata tra le centinaia di borseggi che ogni giorno vengono commessi. Evviva! La Patria è salva, l’Unione ha plaudito alla riforma e versato i fondi del PNNR; gioiscono soprattutto i borseggiatori che – da sempre – si garantiscono la maggiore fonte di guadagno proprio nelle città più apprezzate dai turisti stranieri come Venezia, Firenze e Roma mentre tanto tempo viene risparmiato da Questure e Procure tra scartoffie ed indagini evitate e udienze non celebrate.

    Dolce la vita per i taccheggiatori: impunità per tutti, per legge. Fare di peggio era molto difficile.

    Il secondo “capitolo” riguarda la riforma che, nella parte dedicata all’Ordinamento Giudiziario, contrasta con autentico calvinismo il fenomeno delle “porte girevoli”: con ciò intendendosi la transumanza dei magistrati dall’Ordine Giudiziario alla politica e ritorno.

    Il primo a sperimentare il rigore della “Cartabia” è stato, proprio in questi giorni, Cosimo Ferri: uno che negli ultimi diciassette anni ha fatto il magistrato solo per tre passando dalla poltrona al CSM a una di deputato e da qui a quella di sottosegretario alla Giustizia, poi ancora alla Camera (attraversando anche quasi tutto l’arco costituzionale: dal PdL a Forza Italia, da qui al PD e infine a Italia Viva) per poi dimettersi all’improvviso circa un anno fa e candidarsi come sindaco a Carrara (amoreggiando con la Lega). Nel frattempo era assurto agli onori della cronaca per il coinvolgimento nell’affaire Palamara che gli è già costato una (modesta) sanzione disciplinare.

    La carica di primo cittadino è stata mancata ma un seggio come consigliere comunale è sufficiente per rientrare nel nuovo regime perché l’elezione è stata successiva alla entrata in vigore del nuovo Ordinamento Giudiziario: ora il Dott. Ferri si è dimesso anche dal Consiglio Comunale facendo richiesta di rientrare in ruolo ma – come se non lo sapesse – il Consiglio Superiore gli ha opposto il divieto previsto dalla “Cartabia”.

    Perché mai, e ora cosa farà? In questi casi la riforma prevede che il magistrato ex politico venga messo fuori ruolo per il resto della sua vita (!) con assegnazione al Ministero di appartenenza, mantenendo il trattamento economico maturato in base al grado a cui si aggiunge un piccolo contributo di 5.000 euro netti al mese come argent de poche per la nuova e prestigiosa funzione assunta.

    Già, ma quale funzione andrà a ricoprire un magistrato destinato a restare tutta la vita all’interno del Ministero? Non c’è che l’imbarazzo della scelta: da Capo di Gabinetto del Ministro a Direttore Generale degli Affari Penali (posto che fu di Giovanni Falcone), oppure Capo Dipartimento dell’Ufficio Legislativo…. ma ci sono anche posticini come Vice capo Dipartimento o semplice componente.

    Il posto più ambito (e per un condannato all’ “ergastolo del Ministero” prima o poi può arrivare) è quello di Capo Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria il quale, in quanto Capo anche di una Forza di Polizia (la Penitenziaria, appunto), e pur non sapendo nulla della gestione di una struttura militarizzata, ha un trattamento aggiuntivo equiparato a quello degli altri Comandanti di Forze dell’Ordine: 320.000 euro all’anno che una generosa normativa gli fa conservare una volta cessata la funzione ed incidendo sul trattamento pensionistico finchè morte non li separi ma con garanzia di reversibilità.

    Dolce la vita anche per i magistrati eternamente fuori ruolo.

  • Le istituzioni più forti della delinquenza

    Il 16 gennaio, con la cattura di Messina Denaro, segna la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra che tutti vogliamo sia quella del rafforzamento dello Stato, della Giustizia e della sconfitta della criminalità organizzata, sotto qualunque nome operi o si nasconda.

    Il grande lavoro di tutte le forze di sicurezza, l’abnegazione e spesso il sacrificio hanno permesso di dimostrare che le istituzioni sono più forti della delinquenza e del terrorismo partendo proprio da quanto fece il Generale Dalla Chiesa per arrivare ai giorni nostri.

    Mentre rivolgiamo il nostro ringraziamento ai Carabinieri ed alla magistratura ricordiamo a noi stessi, in questa giornata di vittoria contro la criminalità, tutte le vittime, tutti coloro che con il loro sacrificio hanno difeso la nostra libertà.

    La loro memoria è onorata dalla cattura di colui che era considerato nel mondo uno dei 10 più importanti latitanti, e continuerà ad essere onorata se tutti, dal primo all’ultimo cittadino, sapremo, a fianco di coloro che sono al servizio dello Stato, rispettare le leggi e combattere qualsiasi infiltrazione.

  • In attesa di Giustizia: comici involontari

    Uno dei più subdoli principi su cui fondare la responsabilità degli accusati fu teorizzato ai tempi di Mani Pulite e da allora largamente condiviso e applicato: soprattutto in presenza di qualcuno da condannare a tutti i costi pur senza avere uno straccio di prova.

    Qualcosa, tuttavia, sembra stia cambiando: la Procura di Latina indaga sulle presunte malefatte di una cooperativa i cui amministratori avrebbero malversato fondi pubblici, golosamente intascati invece di distribuirli come salario ai dipendenti ed impiegarli a vario titolo per la corretta gestione della attività. Del dovuto riserbo e del rispetto del segreto istruttorio neanche a parlarne, e fin qui niente di nuovo: di questo aspetto dovremo riparlare.

    La grande novità cui si deve plaudire è  proprio il superamento in questo caso del principio del “non poteva non sapere” a vantaggio di uno stivalato difensore dei braccianti, dei poveri e degli oppressi sebbene sia legato da strettissimi vincoli con le indagate principali che, non solo lo lascia indenne da informazioni di garanzia (e di ciò, nel rispetto delle regole, vi è da compiacersi), ma provoca alternati sussulti di inatteso garantismo da parte di quella sinistra che vi aveva abdicato ab immemorabile. Bene ma non benissimo posto che l’autodifesa – di avvocati per ora sembra non esserci bisogno – non si è basata sulla strenua negazione dell’illegalità ma sulla assoluta inconsapevolezza di quanto pare accadesse all’interno dei componenti dello stato di famiglia ed è culminata con la illustrazione di un diritto che, sino ad ora, non risulta canonizzato né da codici né da pensatori illuminati e progressisti come – tanto per citarne uno –  Martin Luther King: il diritto all’eleganza. Insomma, la moglie di Cesare è un modello al di sopra di ogni sospetto che non conosce oblio e c’è chi tra lacrimevoli sfoghi riesce a regalare momenti di involontaria comicità.

    Questa settimana, poi, il Ministro della Giustizia ha osato preannunciare lo stimolo ad alcune riforme di matrice apertamente liberale subito intese come una dichiarazione di guerra alla magistratura, risultando in particolare intollerabili le affermazioni a proposito di separazione delle carriere tra giudicanti ed inquirenti e buon governo dello strumento delle intercettazioni.

    L’indomita reazione è stata affidata – tra i primi – al Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati il quale ha pianto per le bestemmie alla Costituzione uscite dalla bocca del Guardasigilli, dimenticando che – sia pure timidamente ma in maniera chiara – la nostra Carta fondamentale all’articolo 107 già delinea la netta distinzione tra Giudici e P.M.;  per non farsi mancare nulla, a proposito di intercettazioni, ha ricordato che una legge intesa a regolarne la pubblicità e punire chi ne fa oggetto di indebita divulgazione. Peccato che abbia omesso di rilevare che i casi di indagine e condanna per questo illecito uso di materiale investigativo siano statisticamente irrilevanti: un’altra pièce comica che si risolve in straordinario assist per un finale da avanspettacolo con Macario affidato al Direttore del quotidiano che, non a caso, ha come azionisti di riferimento proprio un comico in pensione oltra ad un impomatato leguleio.

    Tuona Marco Travaglio, dalle colonne de Il Fatto Quotidiano, chiama alle armi il popolo dei giusti e degli onesti per fronteggiare con adeguata durezza e la proverbiale profondità di pensiero qualsivoglia iniziativa intesa a stravolgere le riforme volute dal migliore Ministro della Giustizia degli ultimi trent’anni nei cui confronti si è consumato l’estremo oltraggio…e chi sarà mai? Claudio Martelli, Giovanni Conso? Nossignori: Alfonsino Bonafede, e non siamo su scherzi a parte.

    Con ciò, il buonumore accompagnerà tutti nelle prossime Festività.

  • In attesa di Giustizia: accadde diciotto anni fa

    E’ molto interessante una recentissima sentenza della Corte Costituzionale (l’ultima pronunciata sotto la Presidenza di Giuliano Amato) che ha riconosciuto un perimetro più ampio ai danni risarcibili come conseguenza di quella responsabilità civile dei magistrati che è  già molto parsimoniosamente riconosciuta.

    Evitando ai lettori i dettagli tecnici, la Corte ha stabilito che le vittime di un ingiusto processo o di una ingiusta indagine hanno diritto, oltre che al risarcimento dei danni patrimoniali, a quello dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di fondamentali diritti della persona diversi – ecco la novità – dal diritto alla libertà personale. In sostanza, la decisione rileva che un cittadino “messo alla gogna” da una accusa ingiusta, anche se non arrestato, subisce egualmente la compressione di diritti non meno importanti quali quello alla dignità, alla reputazione personale e professionale ed alla salute fisica e mentale.

    Vediamo cosa è successo partendo dal presupposto che la Corte Costituzionale, generalmente, si pronuncia sulla costituzionalità di una legge laddove un’Autorità Giudiziaria abbia sollevato la questione durante un processo…e la legge in discussione è una delle meno applicate e meno ancora “digerite” dalla magistratura italiana. Scritta (malissimo) nella originaria versione da Giuliano Vassalli dopo il vergognoso massacro giudiziario di Enzo Tortora ed il conseguente referendum, fu poi blandamente rafforzata nel 2015.

    Il caso in questione ha una particolarità: la vittima della ingiusta ed infamante inchiesta giudiziaria all’origine della causa di responsabilità è a sua volta un magistrato. La vicenda origina in Calabria ed ha come protagonista negativo, l’allora PM Luigi De Magistris – meglio noto come Gigi Flop per il miserevole score delle sue indagini – in buona compagnia con il Procuratore Capo Mariano Lombardi di Catanzaro ed al collega di Ufficio, Mario Spagnuolo: alle 5 di mattina del lontano 11 novembre 2004 costoro mandano la Guardia di Finanza a perquisire l’abitazione del dott. P.A.B., magistrato di origini calabresi in servizio presso la Corte di Cassazione con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa; il magistrato non riuscì nemmeno a comprendere il senso della incolpazione provvisoria confusamente descritta nel decreto di perquisizione e sequestro e non solo perché scioccato visto che l’estensore era De Magistris, noto altresì come “Il Pubblico Mistero”, uomo aduso a formulare ipotesi delittuose che forse lui stesso faticava a comprendere. Dopo questa incursione, tranne lo sputtanamento, non accadde più nulla: nemmeno una convocazione per essere interrogato. Nulla di nulla, e siamo sempre nell’ambito di diffusi (mal)costumi giudiziari di questo Paese, e di alcune sue Procure in particolare. Quando finalmente, dopo due anni, la posizione di questo sventurato venne trasmessa all’Autorità competente (già: erano anche territorialmente incompetenti), cioè la Procura di Roma, chi lesse le fumisterie incomprensibili della imputazione provvisoria  richiese subito, ottenendola, l’archiviazione e il dott. P.A.B. diede avvio al giudizio nei confronti dello Stato per la sua responsabilità sussidiaria ed ottenendo la liquidazione dei danni patrimoniali, ma non quelli morali perché il dott. P.A.B. non era stato arrestato. Si va avanti ed infine la terza sezione civile della Cassazione ritiene di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale: ora la vittima di quella ingiustizia avrà diritto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali.

    Tuttavia mi sembra di sentire che ciascuno di voi, letta questa storia, si stia chiedendo: ma se la vittima non fosse stato un magistrato, sarebbe andata nello stesso modo? La stessa domanda che mi stavo ponendo anche io, al netto dei diciotto anni di attesa di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: standard italiani 2

    Ancora un femminicidio brutale, quello di Alessandra Matteuzzi, a Bologna, per mano del suo ex compagno: è la cronaca di una morte annunciata…ma non per tutti, come vedremo.

    Secondo copione, abbiamo una relazione  – a cui la donna aveva deciso di porre termine – caratterizzata da  atti persecutori ininterrotti per mesi sino a determinare il deposito di una denuncia per stalking alla Procura della Repubblica di Bologna dove, ora, la Ministra Cartabia ha inviato gli Ispettori per capire cosa sia successo, o meglio, cosa non sia successo.

    Infatti, la legge che – mutuando la denominazione per le urgenze impiegata nel Pronto Soccorso – è stata   soprannominata “Codice Rosso” sembra non aver funzionato e non per inadeguatezza della norma che prevede una tempistica molto stringente volta proprio a mettere con rapidità in sicurezza le vittime di violenza di genere prevenendo quelle escalations che, come questa volta, possono risultare fatali.

    In particolare, è previsto che le Forze dell’Ordine, una volta ricevuta la denuncia, ne riferiscano immediatamente al Procuratore il quale, a sua volta, entro tre giorni deve dare avvio alle indagini, disporre l’audizione della persona offesa e di eventuali testimoni adottando con tempestività e laddove necessario cautele idonee ad impedire i contatti e l’avvicinamento del persecutore alla sua vittima: misure che possono estendersi sino all’arresto. Nel caso di Alessandra Matteuzzi, fatta salva la prima comunicazione dei Militari dell’Arma al P.M., nulla di tutto ciò è stato fatto e vi è da temere una dipendenza da sopore feriale: donde l’avvio di una ispezione.

    La denuncia, invero, reca la data del 29 luglio: tre giorni prima del fatidico inizio del mese di agosto.  A fronte delle prime contestazioni di inerzia, fonti vicine alla Procura hanno sostenuto che sarebbe stato impossibile sentire i testimoni perché erano in vacanza: una pezza peggiore del buco perché la prima persona da ascoltare sarebbe stata proprio Alessandra che in ferie non era, come dimostra la tragica circostanza di essere stata uccisa sotto casa sua. Quanto ad altre persone informate dei fatti, salvo che non fossero in crociera nell’arcipelago di Vanuatu (tanto per dirne una) imponendo una complicata rogatoria internazionale, sarebbe bastata – come spesso si fa – una delega per farle interrogare dai Carabinieri del luogo ove si trovavano.

    Oppure…non sarà che in ferie è andato il P.M. incaricato ed il suo sostituto non si è raccapezzato tra fascicoli che non conosceva? A pensar male si fa peccato ma spesso non si sbaglia.

    Il Procuratore Capo di Bologna, in seguito e un po’ in affanno, ha difeso l’operato del suo Ufficio  affermando che, sia pure dopo mesi di appostamenti sotto casa, violazioni della posta elettronica e dei social networks, danneggiamenti dell’auto ed altro ancora, non vi erano elementi da cui dedurre l’attualità di un pericolo e non sarebbe stato possibile richiedere un provvedimento restrittivo di alcun genere – neppure un divieto di avvicinamento? – perché, a tal fine, sarebbe stato previamente indispensabile ottenere riscontri a quanto esposto per evitare di incarcerare una persona che, a seguire, potrebbe risultare innocente: apprezzabile quanto insolito conato di garantismo che confligge con l’evidenza che se le indagini non si fanno appare improbabile che i fatti vengano chiariti ed i riscontri si rinvengano per virtuoso intervento dello Spirito Santo.

    La verità potrebbe davvero essere un’altra ed ancora una volta insita negli immutabili ed intoccabili standard italiani: le vacanze d’agosto, caschi il mondo, non si toccano mentre proprio il resto del mondo le fa scaglionate.

    In una vicenda come questa, poi, nel “rispetto” di un altro modello di diffusa sottocultura non poteva mancare una voce stonata: quella del Direttore Generale della Croce Bianca della Emilia Romagna, tal Donatello Alberti – verrebbe da definirlo un ennesimo esempio di pezzente morale – il quale non ha mancato di osservare come l’abbigliamento della sventurata (che, tra l’altro, lavorava nel settore della moda) fosse da  donna scostumata e provocante e, quindi, non c’è da sorprendersi se è stata aggredita dopo aver fatto ingelosire un povero ragazzo.

    Nel frattempo, quando ormai è troppo tardi, l’assassino è stato arrestato ma non può certo dirsi che l’attesa di giustizia ne sia soddisfatta: le cautele si sarebbero potute e dovute adottare un istante prima…ma prima di tutto negli standard italici viene il meritato riposo agostano.

  • In attesa di Giustizia: correnti e spifferi

    Il Presidente Mattarella ha indetto per il 18 e 19 settembre le elezioni per il rinnovo del C.S.M.: un Consiglio che arriva faticosamente al suo termine naturale dopo essere stato investito dalle conseguenze dell’”affaire Palamara” che ha determinato – tra l’altro – la necessità di elezioni suppletive causate dalle dimissioni di alcuni componenti che ne erano stati coinvolti, dalle polemiche per la gestione anomala di verbali secretati della Procura di Milano da parte di Piercamillo Davigo, dalla ostinata resistenza di costui alla cessazione della funzione consiliare dopo il pensionamento. Queste, solo per citare alcune delle criticità che hanno interessato il quadriennio più tribolato dell’organo di autogoverno della magistratura che, a memoria d’uomo, si ricordi tra spifferate editoriali sulle modalità di affidamento degli incarichi più prestigiosi e crisi delle correnti (largamente politicizzate) alle quali appartiene la gran parte dei circa 9.600 magistrati ordinari in servizio. Per non parlare della gestione delle indagini contro l’avversario di turno del partito di riferimento, a prescindere dalla fondatezza.

    E se il Consiglio Superiore, anche in passato non ha dato prova del dovuto rigore – in sede disciplinare e non solo – non altrettanto può dirsi delle correnti: lo dimostra la recente pubblicazione su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica, di interessanti documenti relativi al caso Tortora che attestano quanto dura sia stata in allora la presa di posizione di MD nei confronti sia dei magistrati responsabili di quella sciagurata indagine, sia della decisione del CSM di archiviare ogni procedimento disciplinare sui medesimi. Una presa di posizione pubblica di una tale durezza che portò addirittura alla crisi della Giunta di A.N.M., che dovette dimettersi.

    Con questa pubblicazione e il richiamo ad una storia remota ma non dimenticata si rivendica una precisa identità culturale e politica di quella parte della magistratura italiana, proprio in relazione al caso simbolo della malagiustizia italiana. Come dire (e da sempre su queste colonne condividiamo il concetto) che la magistratura italiana non è (o non è stata?) una indistinta espressione di desolanti riflessi corporativi. E le correnti, intese come espressione di pensiero e culture differenti all’interno della giurisdizione, sono (o sono state?) occasione di confronto, di crescita civile, di ricchezza culturale.

    Marzo del 1989, all’indomani della definitiva assoluzione di Enzo Tortora: la denuncia contro gli uffici giudiziari napoletani viene estesa anche alla oscura gestione dell’inchiesta sull’omicidio del giovane giornalista Siani e  MD chiede con determinazione che il CSM dia seguito a severi provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati responsabili “del più dirompente caso della vita politico-istituzionale italiana”. Denunciano l’assurdità che uno di essi, il dott. Felice di Persia, sia stato nel frattempo eletto proprio al CSM. Tutto inutile, il CSM archivierà ogni accusa e Magistratura Democratica non mancò di registrare che “la logica corporativa non tollera che dall’interno della magistratura vengano critiche alla gestione degli uffici giudiziari o allo stesso CSM”.

    C’è, dunque, anche nobiltà della storia del correntismo all’interno della magistratura, ma ciò che dobbiamo domandarci oggi è cosa sia rimasto di quelle spinte ideali, di quella indipendenza di pensiero, e soprattutto di quella attenzione alle garanzie ed ai diritti nei processi; e semmai, come poterli recuperare. Il Paese ha attraversato anni di drammatica alterazione degli equilibri costituzionali, con una esondazione catastrofica del potere giudiziario in danno del potere politico e la superfetazione del potere  incontrollato delle Procure. Vi è da sperare che almeno una parte della magistratura italiana sia  attraversata da una riflessione critica ed autocritica su questi temi? O quella bella pagina “napoletana”, tra spifferi e correnti,  resterà solo un lontano  ricordo, da guardare con malinconica trepidazione, come si fa con gli album di famiglia?

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