In attesa di Giustizia: galera? tranquilli, ce n’è per tutti…
Il nostro, si sa, è un Paese dove in molti si allietano con l’allegro clangore delle manette: indignati in servizio permanente effettivo, forcaioli più o meno politicamente impegnati e – naturalmente – magistrati orfani del sistema inquisitorio la cui apologia può rinvenirsi in un libro di alcuni anni fa di Marcello Maddalena (allora Procuratore della Repubblica di Torino) dal titolo “Meno grazia e più giustizia”, una conversazione con Marco Travaglio e prefazione di Piercamillo Davigo: et de hoc, satis.
Quella di cui andremo ad occuparci oggi è una incredibile storia di manette che, però, trae probabilmente origine da sbadataggine piuttosto che da furori cautelari: il che non è detto che sia meno peggio.
Deve premettersi che nel nostro sistema giudiziario, salvo i casi di arresto in flagranza da parte delle Forze dell’Ordine, la privazione della libertà personale può avvenire solo con provvedimento motivato di un giudice su richiesta del pubblico ministero: se non vi è quest’ultima, il giudice non può autonomamente disporre la cattura di nessuno. Ma a Napoli, pochi giorni fa, le cose sono andate diversamente: è accaduto, infatti, che un G.I.P. abbia arrestato dieci persone mentre il pubblico ministero aveva chiesto la cattura solo di sette; in soldoni, sono finiti in carcere dei cittadini nei confronti dei quali non vi erano gravi indizi di colpevolezza ed esigenze di tutela della collettività o delle indagini che sono i presupposti di un’ordinanza di custodia.
L’equivoco – chiamiamolo così – si è risolto in una mezza giornata con la scarcerazione dei tre indagati in eccedenza ma non per questo l’accaduto è meno grave essendo espressivo di un livello di attenzione molto basso, inaccettabile da parte di chi svolge funzioni tanto delicate risultando paradigmatico di un approccio sciatto a temi con alto livello di criticità per chi ne è interessato e che non dovrebbe realizzarsi mai.
Si dirà che è un caso isolato. Purtroppo non è così: è solo uno che è emerso; motivi di spazio impediscono di elencare con opportuna dovizia ulteriori esempi che sarebbero disponibili: per garantire alcuni momenti di amaro buonumore basterà qui ricordarne un paio, tra quelli recentemente e personalmente testati prendendo le mosse dalla sentenza di un giudice monocratico di Roma che scrive la motivazione di una sentenza con un linguaggio sincopato (xchè al posto di “perché”, 1 al posto di “uno” e numerose altre simili perle) sebbene sarebbe giusto aspettarsi che i provvedimenti giudiziari siano scritti in lingua italiana e non come un sms: il che denota frettolosità non coerente con le funzioni. E qualcuno finisce in carcere.
Proseguiamo con un altro monocratico, questa volta di Catania, che nel corpo di una decisione, dopo aver preannunziato l’analisi di intercettazioni telefoniche prosegue con quella che è – evidentemente – una lettera destinata alla fidanzata: duole sapere che un certo Pippo si è intromesso tra i due e che il magistrato da un anno insegue le capriole di umore della beneamata in cambio di sporadici sorrisi; dopo un paio di pagine si riprende con l’analisi delle prove e sebbene la vicenda sentimentale sia dolorosa e la poetica struggente ciò che inquieta è che un giudice pensava ai casi suoi (e, probabilmente teneva aperti due files sul computer incappando, poi, in un copia e incolla…)mentre decideva il destino di cittadini; che non abbia riletto la sentenza prima di depositarla in cancelleria è pacifico. Altra galera dispensata.
Il GIP che ha arrestato più persone di quante richieste, nel frattempo, è stato trasferito al civile (dove, pare, aveva già richiesto di andare) e sembra sia sotto procedimento disciplinare, nulla – invece – sappiamo circa gli sviluppi della melanconica storia d’amore catanese e neppure se il magistrato romano si sia iscritto a dei corsi serali di italiano. Per fortuna non sono tutti così, anzi…ma anche questa è giustizia (“g” rigorosamente minuscola).