Carcere

  • In attesa di Giustizia: la Corrida

    Chi non ricorda lo spassoso programma televisivo condotto da Corrado Mantoni in cui entusiasti improvvisatori si cimentavano nelle più disparate performances sottoponendosi al giudizio – più spesso al biasimo – del pubblico armato di pentole, fischietti ed altri originali strumenti di voto?

    Ecco, questa settimana, “In attesa di Giustizia” offre – quasi come una strenna – ai suoi lettori una carrellata di esibizioni degna de “La Corrida” se non fosse che i perfomers non sono dilettanti allo sbaraglio, forse si tratta solo di personaggi (ancora) in cerca di autore che presumono troppo. Preparate i campanacci…

    Cominciamo dai polemisti che da ogni dove hanno attaccato l’avvocato Cuccureddu (una donna, tra l’altro) per come ha condotto il controesame della ragazza che si presume abbia subito violenza da parte di Ciro Grillo e dei suoi amici; una considerazione deve premettersi a tutte le altre: come è possibile che neppure un’udienza “a porte chiuse”, cioè senza presenza di pubblico e/o cronisti proprio per la delicatezza degli argomenti e tutelare al meglio la riservatezza dei protagonisti, risulti così facilmente permeabile e la sostanza dei verbali diventi immediatamente di condiviso dominio di quotidiani e telegiornali?

    “Vegogna, domande da Medioevo, patriarcato! (che è il più recente degli insulti)”… alte si levano le voci degli indignati dalla circostanza che un difensore abbia fatto il suo mestiere che, nei casi in cui tutto si gioca sulla parola di uno contro quella dell’altro, consiste nella verifica della attendibilità dei testimoni e non può essere affidata ad altro che ad un rigoroso interrogatorio, magari sgradevole anche per chi lo fa: però anche essere sotto processo per violenza sessuale è sgradevole: in quello a carico di William Kennedy Smith, nipote del senatore Ted, il solo P.M. incalzò per ben undici ore la denunciante la cui partecipazione emotiva fu così coinvolgente che alcuni giurati svennero. Ma quello era il P.M., erano altri anni, accadeva lontano da noi e nessuno se ne lamentò. Il giovane fu, comunque, assolto.

    Per restare in tema di violenza di genere, è Interessante anche la proposta di Mauro Corona, scudiero da anni di Bianca Berlinguer, il quale interpellato per ottenere una illuminante soluzione alla piaga sociale dei femminicidi ha suggerito come deterrente una modifica del codice penale che richiama quello meno recente di Hammurabi (circa trentotto secoli) e che consiste nel mettere il presunto autore a disposizione dei famigliari della vittima per una settimana, chiusi in una stanza e se ne esce vivo buon per lui. Certo che, se la legge del taglione è la più quotata, non ci si deve stupire se una duplice e due volte inutile riforma ha provocato solo pericoloso smarrimento tra legittima difesa ed autorizzazione alla vendetta sociale, tra Far West e Stato di diritto. Ed anche a questo proposito il bestiario degli insegnamenti a reti unificate è stato ricco e vario.

    Il gran finale di questa puntatona della Corrida non poteva che riservarsi a lui: Piercamillo Davigo, in evidente calo di popolarità al punto che pur di ottenere un’ennesima ospitata – rigorosamente in solitario (guai a mettergli in studio un contraddittore) – si è reso disponibile a partecipare ad una puntata de “Il Muschio Selvaggio”.  Intervistato da Federico Leonardo Lucia è riuscito a sgomentare persino lui che, di sicuro, non è un raffinato giurista.

    L’ineffabile Dottor Sottile, richiesto da Fedez di manifestare il proprio pensiero rispetto alla problematica dei suicidi in carcere, non ha saputo dire di meglio che è davvero un peccato che i detenuti si tolgano la vita perché così vanno disperse possibili fonti di informazione.

    Non pago, a proposito della vicenda che ha portato alla sua condanna a quindici mesi di reclusione, non ha saputo offrire di meglio agli ascoltatori che la lapidaria affermazione “Io non ho commesso reati ma, visto che a Brescia le cose non sempre le capiscono mi hanno condannato”.

    Gioco, partita, incontro: sebbene debba annotarsi che l’ultimo palcoscenico dell’ex stratega di Mani Pulite denoti che sia stato, ormai, relegato ad un ruolo di macchietta. Esattamente come il buon selvaggio di Carta Bianca.

    Buon Natale a tutti voi e..meditate gente, meditate.

  • In attesa di Giustizia: il carcere è anche questo

    Con queste parole, la voce incrinata, il Direttore di San Vittore, meritatamente insignito dell’Ambrogino d’oro, ha congedato il pubblico esterno e i detenuti presenti per la tradizionale proiezione della Prima della Scala nella Rotonda dell’istituto penitenziario interrotta durante il secondo atto: un’impiccagione nel quinto reparto e chi conosce un po’ i movimenti del carcere aveva già capito l’allarme, le corse, l’agitazione.

    Un ennesimo suicidio che come ognuno ha ragioni proprie e va rispettato in quanto dramma unico e l’aggettivo “ennesimo” vale solo a sottolineare uno sgomentevole dato quantitativo: sessantasei da inizio anno, ma che contribuisce a farci sentire tutto il peso della attuale situazione delle carceri. Lo aveva detto proprio il Direttore parlando di una situazione drammatica con oltre mille detenuti che non rallentano l’impegno per andare avanti, continuando a credere in un lavoro di grande sacrificio e, ovviamente, nella necessità di portare dentro al carcere la società per momenti di riflessione. Un contributo in tal senso lo diede prima della pandemia proprio il Gruppo Toghe & Teglie, che cura in queste pagine la rubrica di cucina, con due cene aperte ad un pubblico esterno, nel giardino della sezione femminile, eventi dal titolo simbolico “A Tavola con la Speranza”.

    La contraddizione è esplosa in occasione di una ricorrenza in cui va tutto bene, o si finge che così sia, pur consapevoli – e soprattutto noi avvocati lo siamo – che dietro alle cancellate dei reparti ci sono  disperazione,  sovraffollamento,  materassi per dormire per terra, i blindi chiusi, la carenza di igiene, una vita invivibile che aggiungono pene a quella della privazione della libertà andando in senso opposto al progetto di rieducazione dei condannati che dovrebbe essere coltivato nell’interesse comune, nell’ottica di un recupero non solo di esseri umani ma di quella sicurezza che – a parole – sembra stare a cuore a tutti.

    Sessantasei vite umane, un atroce conteggio che non può essere liquidato come un arido bilancio consuntivo di fine anno quando è in conto l’esistenza di persone affidate alla cura di uno Stato che dovrebbe restituirle migliori alla collettività: un elenco che si allunga inesorabilmente, nell’indifferenza di governi che guardano al pianeta carcere con cinica indifferenza, spesso utilizzandolo come emblema di una recuperata incolumità dei cittadini nella salvifica funzione di discarica sociale meramente afflittiva.

    Ora vi è solo da augurarsi che questo evento drammatico, verificatosi in un momento particolare, sia in grado di scuotere le coscienze di chi continua a credere che le carceri possano essere stipate all’inverosimile, e non solo nell’interesse della popolazione detenuta in senso stretto.

    Infatti, oltre ai carcerati non si deve dimenticare tutto il personale, civile ed in divisa, tutti quelli che entrano in carcere anche solo per dare una mano, e che fanno sì che San Vittore – e come San Vittore tutti gli altri Istituti non uno escluso – ogni giorno stia in piedi, nonostante un destino avverso. La cosiddetta società civile dovrebbe mobilitarsi ed esserci, fare proposte in ogni occasione in cui si parli dei progetti positivi che in carcere malgrado tutto esistono, evitando che i penitenziari restino invisibili ai più: strutture lontane dagli occhi e dal pensiero di chi non se ne vuole occupare.

    Ed è a costoro che si deve ricordare che una detenzione dignitosa è un diritto e che devono essere attivati gli strumenti affinché condizioni disumane cessino e prima ancora che sia definitivamente abbandonata la visione carcerocentrica di una giustizia penale che guarda poco o nulla alla effettiva dissuasione e meno ancora al fattore rieducativo della pena proseguendo nello sterile percorso di affrontare ogni emergenza con l’introduzione di nuovi reati o inasprendo le pene per quelli già previsti mentre non si può continuare a fare finta di niente, non più.

  • In attesa di Giustizia: ICAM

    ICAM…che sarà mai, forse parliamo di un talento calcistico proveniente da qualche terra esotica? Nossignore, è  l’ acronimo che sta per Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute: in due parole un segnale di civiltà nei riguardi della popolazione delle carceri che ricomprende le gestanti o le madri detenute, appunto, per le quali è previsto che tengano con sé – in cella, o camera di detenzione come viene eufemisticamente definita – la prole di età inferiore a tre anni.

    Non è difficile immaginare quali siano le condizioni in cui un bambino possa vivere e crescere nei primi anni della sua esistenza se ciò avviene rigorosamente dietro le sbarre di un carcere.

    Ecco, allora che, già nel 2006, a Milano, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria nella persona dell’illuminato Dott. Luigi Pagano, d’intesa con la Magistratura di Sorveglianza, istituì un tavolo di concertazione cui parteciparono il Ministro della Giustizia Castelli, il Ministro dell’Istruzione Moratti, il Presidente della Regione Formigoni, il Presidente della Provincia Penati ed il Sindaco di Milano Albertini; all’esito dei lavori vi fu la firma di un protocollo d’intesa per la creazione dell’ICAM: per esternalizzare dal carcere l’asilo nido esistente a San Vittore.

    L’immobile fu messo a disposizione dalla Provincia, con l’interessamento dell’assessore Francesca Corso, e colà vennero alloggiate le donne detenute con i loro bambini.

    Una realtà diversa rispetto al carcere, non l’ideale ma un segnale anche simbolico per dimostrare che le cose se si vuole, si possono fare, rispettando la legge.

    Una battaglia di civiltà, come la definì il giornalista ed ex atleta Candido Cannavò che fu uno strenuo difensore del progetto.

    La Milano delle innovazioni e della cultura liberale precedette di qualche anno una legge che era in lenta gestazione (senza che vi venisse riconosciuto particolare interesse) e nella quale, comunque, veniva riposto grande affidamento.

    Passarono gli anni, l’ICAM di Milano funzionava perfettamente e rappresentava un’eccellenza ed un esempio nel settore della Amministrazione Penitenziaria. Infine, la normativa che avrebbe dovuto offrire respiro nazionale all’iniziativa fu varata nel 2011 ma con grave approssimazione, stravolgendo in negativo il progetto “milanese” (niente di nuovo sotto il sole) e ripristinando gli asili nido all’interno delle carceri.

    All’ICAM ci si sarebbe andati “eventualmente”…

    Che la disciplina fosse un pateracchio che nulla di buono aveva ereditato dalla esperienza lombarda fu subito chiaro – chissà perché subito dopo e non subito prima di approvare il testo – e da allora diversi Governi si sono alternanti e ogni Ministro ha promesso “mai più bambini in carcere”.

    Si è giunti così fino ai giorni nostri e nelle settimane scorse si è assistito ad uno scontro durissimo in Commissione Giustizia sull’ennesimo tentativo di regolamentare adeguatamente la materia delle madri detenute con i figli: il disegno di legge portava la firma di parlamentari del PD ma è stato ritirato sostenendo che il centrodestra lo voleva stravolgere.

    Sembra che le forze di maggioranza, tra le altre cose, volessero mettere dei paletti di accesso agli Istituti di Custodia Attenuata per le detenute recidive: in fondo nient’altro che una riproposizione di quanto previsto nell’Antico Testamento riguardo alle colpe degli ascendenti ricadenti sui figli.

    23 marzo 2023: Governi e Ministri sono passati ed i bambini sono rimasti in carcere. Anche loro, che sono sicuramente innocenti – checchè ne possa pensare Piercamillo Davigo – restano in attesa di Giustizia.

  • 41 bis per tutti per garantire i cittadini e rendere giustizia alle vittime

    Inutile che una parte del personale politico si impanchi in più o meno pretestuose polemiche, la verità incontrovertibile è che lo Stato, per garantire i cittadini e rendere giustizia alle troppe vittime, non può che applicare il 41 bis per tutti i crimini per i quali è contemplato.

    Tutto il resto è ininfluente.

  • In attesa di Giustizia: mani pulite in salsa belga

    Non è vero che mettiamo in carcere gli indagati per farli confessare, è vero – però – che li scarceriamo quando confessano”. Così parlò, ai tempi di Mani Pulite, il Procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli.

    Ebbene, gli obbrobri e le forzature della legge nella gestione di quella indagine (che, forse, sarebbe più corretto denominare “mani ammanettate”), di cui scontiamo tutt’ora le conseguenze, sembrano aver trovato degli emulatori esteri.

    O, forse, sarà  in ossequio ai principi che regolano i rapporti tra le diverse Autorità Giudiziarie dell’UE, basati sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni che trova il suo fondamento nella reciproca fiducia che ogni Stato dell’Unione può riporre nella legislazione degli altri partner: fatto sta che Pubblici Ministeri e Giudici Istruttori belgi stanno dimostrando di avere imparato la lezione di Davigo e Di Pietro;  ovvero, se preferite, di Alberto Sordi nei panni del magistrato Annibale Salvemini nel predittivo film “Tutti dentro” del 1984, che oggi  fa amaramente sorridere.

    Stiamo parlando, ovviamente, dell’inchiesta soprannominata “Qatargate” della quale molto si parla e molto altro si ignora o – comunque – è blandamente evidenziato dalle cronache.

    Sappiamo, per esempio, che l’ex europarlamentare Antonio Panzeri ha scelto di confessare (anche, presunte, altrui malefatte: altrimenti la confessione vale poco…) e ciò gli vale un liberatorio patteggiamento alla pena di un anno, che nemmeno sconterà, per reati che in Italia ne valgono una decina malcontati e – questo sì –  la confisca di una considerevole somma di denaro…magari una quota sacrificabile del totale.

    Sembrerebbe, dunque, che la lectio magistralis impartita dal Procuratore di Milano negli anni ’90, richiamata all’inizio, sia stata seguita con la dovuta attenzione, soprattutto per quello che andremo subito ad illustrare.

    Tra le cose di cui si tratta meno, infatti, c’è che alla ex vice presidente dell’Europarlamento Eva Kaili dopo ben ventotto giorni di detenzione è stato consentito di trascorrere un paio d’ore con la figlioletta di soli venti mesi (il cui padre, pure, è detenuto), rigorosamente in carcere neanche fosse una madre che debba rispondere di avere trucidato il fratellino o che vi sia il fondato sospetto che la bimba sia una pericolosa complice da istruire per inquinare le prove.

    La netta sensazione è che – insieme alla privazione della libertà – sia questo un metodo per effettuare pressioni e conquistare l’agognata ammissione di responsabilità…possibilmente condita da qualche accusa nei confronti di altri compartecipi.

    Il termine da utilizzare, di fronte a ciò è uno solo: vergogna. Allora, tanto valeva rinchiudere questa indagata in una vergine Norimberga o strapparle le unghie per vedere se confessava invece di paludarsi da Stato di diritto quando dello Stato di diritto vengono ignorate o infrante regole fondamentali; allora è fuor di luogo puntare l’indice proprio contro il Qatar perché laggiù non vi sarebbe rispetto dei diritti umani.

    Ebbene, sì: par proprio che una identità culturale ed una tradizione giuridica comune tra Italia e Belgio si possano riconoscere traendo spunto da un caso come questo.

    Questa è l’Europa dalle comuni radici cristiane, dell’agognato ravvicinamento dei sistemi penali dei Paesi Membri, la Mani Pulite in salsa belga.

  • Lo stragista norvegese Breivik resta in carcere: «Potrebbe colpire ancora»

    Per chiedere la libertà condizionata, 10 anni dopo aver commesso la più sanguinosa strage in Norvegia dalla Seconda guerra mondiale, si era presentato ai giudici con la testa rasata, il braccio teso nel saluto nazista e nessun segno di rimorso per le 77 persone uccise tra Oslo e l’isola di Utoya, dove si erano riuniti decine di giovani laburisti. In carcere da allora, Anders Behring Breivik dovrà restarci ancora a lungo. “C’è un rischio evidente che ripeta i comportamenti che hanno portato agli attacchi terroristici del 22 luglio 2011”, ha spiegato il tribunale di Telemark, nel sud-est del Paese scandinavo.

    Una decisione in linea con la richiesta della procura e sostanzialmente attesa alla luce della perizia della psichiatra che per anni lo ha osservato in detenzione, Randi Rosenqvist. “Credo che la diagnosi per Breivik rimanga la stessa. Il rischio di futuri atti violenti non è cambiato rispetto al 2012 e al 2013, quando ho scritto la mia prima valutazione”, ha dichiarato l’esperta, secondo cui il terrorista di estrema destra soffre di disturbi della personalità “asociali, istrionici e narcisisti”.

    Condannato nel 2012 a 21 anni di carcere, il massimo della pena prevista dal sistema norvegese, che potrebbe però essere prorogata se alla sua scadenza il condannato venisse ancora ritenuto socialmente pericoloso, Breivik aveva sfruttato l’occasione fornitagli dalla legge per tornare a sciorinare in pubblico i suoi deliri neonazisti. Dalla palestra del carcere di Skien, in cui è detenuto e dove per ragioni di sicurezza si era tenuta l’udienza, il suo folle show si era svolto esponendo tre cartelli – in mano, sulla giacca del completo e su una 24 ore – con la stessa scritta in inglese: “Cessate il vostro genocidio conto le nostre nazioni bianche”.

    Un’ennesima dimostrazione di assenza di rimorso e mancata riabilitazione. Eppure, ha spiegato il suo legale Oystein Storrvik, è intenzionato a fare ricorso per chiedere nuovamente di essere messo in libertà e a presentarne un altro contro le sue condizioni di detenzione in quasi totale isolamento.

    Era il 22 luglio 2011 quando Breivik fece prima esplodere un ordigno vicino alla sede del governo a Oslo, uccidendo otto persone, e poi ne sterminò altre 69, per lo più adolescenti, aprendo il fuoco travestito da agente di polizia sul campo estivo dei giovani laburisti sull’isola di Utoya, colpevoli nella sua visione distorta di aver abbracciato il multiculturalismo. Lo stragista, oggi 42enne, non si è mai pentito, pur sostenendo che la violenza farebbe ormai parte del suo passato. Dalla prigione, dove vive in tre celle con tv e dvd, videogiochi e una macchina da scrivere, nel corso degli anni ha ammesso soltanto di essersi fatto “radicalizzare” da terzi e di essere stato un burattino nelle mani del movimento neonazi Sangue & Onore, cui ha imputato la reale responsabilità degli attacchi.

    Se le chance di un suo rilascio sono sempre apparse scarse, sopravvissuti e familiari delle vittime avevano espresso timori di nuove provocazioni, che si sono puntualmente verificate, stigmatizzando l’attenzione mediatica attirata da ogni sua apparizione. “Breivik non dovrebbe andare in tv non perché sia scandaloso o doloroso, ma perché è il simbolo di un’estrema destra che ha già ispirato diverse altre uccisioni di massa”, aveva scritto su Twitter la sopravvissuta Elin L’Estrange. Un rischio di emulazione testimoniato dal caso dell’attentatore di Christchurch, in Nuova Zelanda, Brenton Tarrant, che il 15 marzo 2019 uccise 51 persone sparando all’impazzata in una moschea e un centro islamico durante il venerdì di preghiera dei musulmani, dicendo poi di essersi in parte ispirato proprio all’autore della strage di Utoya.

  • In attesa di Giustizia: Beccaria, chi era costui?

    Il ‘700, il secolo dei lumi, è lontano: eppure gli insegnamenti, il frutto del pensiero di un’epoca straordinaria di rinascita intellettuale, rimangono attualissimi. Basta pensare all’eredità lasciata dalle grandi rivoluzioni: quella francese e l’americana, al pensiero di Rousseau (che si rivolta nella tomba per l’accostamento del suo cognome con la nota piattaforma a firma Casaleggio & Associati), Montesquieu, Newton, Hegel  e – naturalmente – Cesare Beccaria: un visionario che credeva nella funzione rieducativa della pena e che il diritto penale avesse una mera  funzione sussidiaria come strumento di controllo sociale.

    Tuttavia, seguendo l’insegnamento di improbabili maestri del calibro di Marco Travaglio, Alfonso Bonafede, Nicola Morra (non propriamente definibili come raffinati cultori di teoremi giuridici) e di furbastri agit prop come Piercamillo Davigo e Nicola Gratteri, l’opinione pubblica  – e non solo quella – sembra allinearsi alla corrente di pensiero che segna il primato della querela e dei ceppi ai polsi sulla ragione in un mondo che è ideale solo se carcerocentrico e – quindi – molto distante dalla Città del Sole di Tommaso Campanella.

    Su queste premesse si è già acceso lo scontro dialettico sul controllo del green pass che in molti vorrebbero (ed altrettanti temono) suscettibile di severe verifiche da parte di baristi e camerieri, come per incanto trasformati in ausiliari delle Forze dell’Ordine ma – ahimè – sforniti di poteri sanzionatori.

    Perché, in fondo sempre lì si va a parare: una punizione purchessia per garantire l’ordine costituito. Sul punto, la Ministra competente (?) per materia è ondivaga nel chiarire le regole lasciando i cittadini nella spasmodica attesa di qualche circolare esplicativa che, verosimilmente, sarà partorita con la chiarezza di un testo redatto in lineare B di Cnosso.

    E c’è pure chi vorrebbe che anche i lavoratori sprovvisti di passaporto vaccinale siano passibili di sanzioni alta levando l’invocazione: crucifige, crucifige! sebbene la contestazione disciplinare appaia incompatibile con un obbligo, quello della vaccinazione, che dal punto di vista giuridico non esiste.

    Ma tant’è: in un Paese popolato da aspiranti sceriffi e punitori, quanto a distanza dal pensiero illuminista ed illuminato di Cesare Beccaria si continua a vedere di molto peggio, a conferma di quanto si è osservato sulla tendenza ad un sistema carcerocentrico anziché sulla  attuazione al canone costituzionale che affida finalità rieducative alla espiazione della pena. E non parliamo, non necessariamente, di redattori, editorialisti ed abbonati al Fatto Quotidiano.

    Infatti, qualche mese fa – tanto per fare un primo esempio – ad un detenuto in regime di carcere duro  (il famigerato 41bis) dal Magistrato di Sorveglianza di Viterbo è stata negata la possibilità di acquistare e leggere un libro di Marta Cartabia perché visto come un privilegio e le conoscenze che ne avrebbe tratto ne avrebbero aumentato il carisma criminale.

    Peggio ancora – al peggio, si sa, non c’è limite – ha saputo fare il Tribunale di Sorveglianza di Bologna negando la detenzione domiciliare a un condannato che, in regime di carcerazione, ha conseguito una laurea in economia, una in giurisprudenza ed anche un master. Scrivono questi fenomeni dell’oscurantismo giudiziario che “le lauree e la frequentazione di un master per giurista di impresa si ritiene che possano affinare le indiscusse capacità del condannato e, dunque, gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico”.

    E, allora, perché non buttare via la chiave, già che ci siamo? Altrimenti prima o poi quest’uomo uscirà e sarà pericolosissimo.

    Anche Beccaria, come Rousseau, si rivolta nella tomba…già, Cesare Beccaria, chi era costui?

  • Terrorista islamico arrestato a Salerno

    Era stato in Siria nel 2012 e si era arruolato nelle file di al-Nusra, braccio armato di al-Qaeda, poi quando il Califfato aveva preso terreno sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi, aveva deciso di continuare a combattere per lo Stato islamico, di cui era diventato uno dei capi militari. Afia Abderrahman, più noto tra i foreign fighter con il nome di battaglia di Abu al-Bara, 29 anni, marocchino, è stato catturato dalla polizia a Lago, in provincia di Salerno. Su di lui, fanno sapere le autorità, pendono le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla preparazione e alla commissione di atti di terrorismo, detenzione illegale di armi da fuoco, attività collettiva avente fine di attentare all’ordine pubblico e raccogliere fondi per il finanziamento di atti di terrorismo. A firmare il mandato d’arresto è stato il procuratore generale presso la Corte di appello di Rabat, in Marocco, il 28 giugno scorso. La misura è poi stata estesa a livello internazionale l’8 luglio.

    La cattura dell’ex foreign fighter è avvenuta grazie alla collaborazione tra l’intelligence italiana, marocchina e l’Interpol, che attraverso una minuziosa attività di osservazione, controllo e pedinamento, grazie anche all’uso di tecnologie all’avanguardia, sono riusciti a localizzare l’uomo vicino a un bar in Campania, mentre si trovava lì con altri cittadini extracomunitari. A quel punto è scattata l’operazione che ha portato all’arresto del 29enne, a carico del quale risultano segnalazioni nella banca dati Schengen inserite da Spagna e Francia. L’uomo era inoltre già emerso all’attenzione del Comparto sicurezza nel 2018, in quanto segnalato dall’intelligence come combattente jihadista. Adesso è detenuto nel carcere di Salerno, a disposizione dell’autorità giudiziaria in attesa del perfezionamento della procedura per l’estradizione.

  • In attesa di Giustizia: la Costituzione tradita

    I lettori diversamente giovani sicuramente ricordano la figura del Generale Alfredo Stroessner, dal 1954 al 1989 dittatore del Paraguay, Paese caratterizzato – nel ventesimo secolo – da condizioni di arretratezza socio economica e da un elevato tasso di povertà nonostante la crescita intervenuta verso la fine del millennio e proseguita in modo altalenante sino ai giorni nostri.

    Stroessner, uno dei più longevi golpisti della storia, riuscì a creare un regime dall’apparenza democratica: teneva, per esempio, elezioni presidenziali ogni cinque anni vincendole sistematicamente con risultati superiori al 90%: forse perché le urne erano all’aperto e sotto controllo della polizia, con l’impossibilità di garantire la segretezza del voto.

    Stroessner  poi, appena assunto il potere, dichiarò lo stato di emergenza che la Costituzione consentiva solo per novanta giorni e, rispettandola, gli bastò rinnovarlo ogni tre mesi per una trentina d’anni.

    Nel piccolo Paraguay, destinazione prediletta di gerarchi nazisti in fuga, torture, sparizioni degli oppositori del regime e omicidi politici appartenevano al quotidiano e la brutalità si poteva sfogare, assistita dalla formale discrezione,  anche negli oltre venti campi di concentramento del Paese.

    Ma quello era il Paraguay e tutti – per primi i suoi cittadini – avevano ben chiaro quale fosse il vero volto dell’Amministrazione.

    Il paragone può sembrare eccessivo ma le esagerazioni aiutano a comprendere: in questo caso è con la gravità di quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e di cui si è avuta ampia e desolante cronaca negli ultimi giorni in seguito all’arresto di numerosi agenti in servizio ed alla diffusione di intercettazioni telefoniche e filmati delle telecamere di sorveglianza che documentano violenze di ogni genere nei confronti dei detenuti che avevano osato ribellarsi alle condizioni della struttura che non garantivano la benchè minima prevenzione dal diffondersi del Covid-19. I fatti risalgono all’anno scorso, qualcosa era subito trapelato anche all’esterno, ma solo la svolta nelle indagini della Procura hanno definito i contorni di una vicenda riferendosi alla quale il Ministro della Giustizia ha parlato di Costituzione tradita.

    Sì, perché la nostra Carta Fondamentale, ispirata al pensiero di Cesare Beccaria, assegna alla pena una funzione rieducativa: il carcere dovrebbe essere luogo di recupero, paradossalmente di speranza, chi ne esce dopo avere pagato il suo debito dovrebbe essere un uomo migliore, un pericolo neutralizzato o quantomeno ridotto per la società. Vigilando Redimere, questo era l’emblematico motto del Corpo degli Agenti di Custodia che dal 1990 è diventato Polizia Penitenziaria e che dovrebbe avere competenze specifiche anche allo scopo di perseguire le finalità della Costituzione: per ottenere questo risultato i mezzi e le risorse non possono certamente essere squadracce di picchiatori in odore di impunità garantita loro da qualcuno; tutto troppo grave e palese perché il sospetto non sia più che fondato.

    Già, perché l’orrore da dittatura sudamericana di altri tempi di cui oggi abbiamo contezza sembra che fosse noto in ogni dettaglio già al tempo in cui ebbe a verificarsi; ma dal ministero della Giustizia tutto fu minimizzato, non fu neppure ritenuta necessaria una ispezione: eppure, si dice, il Ministro sapeva.

    Trattandosi, in allora, del ridente Alfonso Bonafede che – tra l’altro – amava paludarsi proprio con i giubbini della Polizia Penitenziaria vi è, tuttavia, da domandarsi non tanto se sapeva ma se aveva capito.

    Certamente, come con la Magistratura affetta da costante perdita di prestigio, credibilità ed autorevolezza, non si deve generalizzare la critica nei confronti di tutti gli appartenenti alla Amministrazione Penitenziaria la gran parte dei quali opera con scrupolo, sacrificio e professionalità.

    Resta il fatto che tra indagini insabbiate, mercato degli incarichi giudiziari ed ora – e, tristemente non è il primo caso – violenze gratuite delle Forze dell’Ordine l’immagine della Giustizia ne esce devastata ogni giorno di più.

    Benvenuti in Paraguay.

  • In attesa di Giustizia: vergogniamoci per loro

    “Vergogniamoci per loro: servizio di pubblica utilità per chi non è capace di vergognarsi da solo”. Così si intitolava una rubrica di “Cuore”, settimanale satirico diretto da Michele Serra; questo articolo ne mutua il titolo ma, francamente, per quello che si andrà a illustrare, c’è poco da ridere.

    Cominciamo dall’ineffabile legislatore la cui mente confusa ha partorito la bestialità del giudizio di appello a fasce, un po’ come le regioni colorate. Senza addentrarsi in dettagli, che al lettore atecnico risulterebbero meno interessanti e che all’operatore del diritto provocano emicranie ed altri malori assortiti allo stomaco, basti dire che – modificando il testo di un decreto legge “ristori” –  ha dettato nuove regole che prevedono  modalità differenziate di celebrazione dei processi a seconda che essi si celebrino (od, ormai, si siano celebrati) dal 9 al 23 novembre 2020, dal 25 novembre al 9 dicembre 2020 e – infine – dal 10 dicembre 2020 al 31 gennaio 2021. E dal primo febbraio? Chi lo sa? In Italia, del resto, come ricordava Giuseppe Prezzolini, non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo. E, soprattutto, c’è il nulla, il vuoto torricelliano al Ministero della Giustizia. Vergogna.

    Continuiamo con un altro accadimento degli ultimi giorni che fa quasi rimpiangere di non avere Kim Jong – un al potere: se non altro si saprebbe con certezza ed in anticipo di essere spiati in ogni momento della vita senza paludare il sistema di norme garantiste che vengono sistematicamente eluse e la cui elusione trova sempre qualcuno pronto a giustificarla.

    Dunque, un avvocato (non è l’unico caso, solo il più recente noto) ha ritrovato tra gli atti di un processo la trascrizione di alcune sue conversazioni telefoniche con un cliente. La legge vieta di intercettare le comunicazioni con il difensore, e se ciò accade per un caso fortuito il contenuto è inutilizzabile.

    Ebbene, in questo ultimo caso – però – l’assistito era detenuto e telefonava al suo difensore dal carcere il che non avviene mediante comode cabine telefoniche o apparecchi installati nelle confortevoli camere di detenzione (così si chiamano tecnicamente le celle) bensì attraverso un centralino che contatta il numero desiderato ed è ben noto chi sia il destinatario della chiamata perché l’autorizzazione alle telefonate viene concessa dalla Autorità Giudiziaria con rigorosa individuazione delle utenze raggiungibili. Dunque si sapeva benissimo in anticipo con chi sarebbe intervenuto il colloquio ma si è origliato lo stesso.

    Vergogniamoci per chi eventualmente abbia autorizzato questa violazione gravissima delle regole, oppure per chi si è disinteressato di un divieto espresso, per chi è rimasto curiosamente in ascolto invece che disinserire subito la intercettazione, per chi ha trascritto il tutto. Insomma c’è l’imbarazzo della scelta.

    Gran finale con Piercamillo Davigo il quale, dopo essersi visto rifiutare la permanenza al C.S.M. sebbene pensionato ed esposto ad una miserevole figura facendosi dichiarare inammissibile il ricorso contro tale decisione per aver sbagliato a quale Autorità Giudiziaria rivolgersi, invece che godersi il meritato riposo dopo una vita laboriosamente spesa ad inchiavardare manette si è trovato una occupazione diversa rispetto a fare le parole crociate al parco.

    Infatti, prontamente, la Direzione de Il Fatto Quotidiano gli ha offerto un ruolo di opinionista: e delle sue opinioni non ha esitato a fare mistero con un primo editoriale nel quale illustra che quanto sostenuto circa il sovraffollamento carcerario siano fake news volte a giustificare incomprensibili scarcerazioni determinate dalla emergenza sanitaria.

    Sostiene, tra l’altro, l’ineffabile “Dottor Sottile” che in Italia ad ogni detenuto sono garantiti spazi vitali pari a nove metri quadri che si abbassano a cinque nel caso che in cella – pardon, camera di detenzione – gli ospiti siano due: “lo stesso spazio per cui viene concessa l’abitabilità” tuona indignato l’ex P.M. Non è vero niente, ma che importa?

    Vergogniamoci, dunque, anche per lui, per Marco Travaglio, per chi legge Il Fatto Quotidiano credendo a qualcosa di quello che c’è scritto e che vada oltre la sede della redazione.

    Vergogniamoci anche per chi vede in personaggi come questi esempi da emulare, figure immortali nella storia patria ed a questo punto, parafrasando un po’ Brecht, sfortunata è la terra se ha bisogno di simili eroi.

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