Carcere

  • E’ ancora emergenza carceri

    Trentadue anni fa si è suicidato, nel carcere di San Vittore a Milano Gabriele Cagliari, uno strano suicidio con un sacchetto di plastica ed un laccio da scarpe. Quel giorno ero a San Vittore, stavo facendo, come parlamentare, una visita ad alcune carceri per segnalare al mio partito la reale situazione nei luoghi di detenzione.

    Fermo restando che a me sembrarono per lo meno strane le circostanze e le modalità della morte di Cagliari, la visita a San Vittore, ed ad altre carceri, mi confermò quello che mi era già stato segnalato e che cioè nella maggior parte dei penitenziari italiani le condizioni di vita erano inaccettabili sia per i detenuti che per le guardie carcerarie.

    A distanza di trentadue anni, dopo innumerevoli segnalazioni da diverse parti, proteste, scioperi della fame e troppi suicidi di detenuti, la situazione è ancora peggiorata.

    I governi sono cambiati ma le carceri italiane sono diventate sempre più fatiscenti e sovraffollate, nonostante alcuni magistrati abbiano una certa reticenza a mandare in carcere anche chi è stato arrestato in flagranza di reato.

    La a volte eccessiva discrezionalità del giudice, del giudizio e della pena, è un altro problema italiano.

    Pochi giorni fa Gianni Alemanno, già deputato, ministro e sindaco di Roma, attualmente a Rebibbia, ha scritto una lettera al Ministro Nordio ed al sottosegretario Del Mastro per chiedere una soluzione al sovraffollamento delle carceri, alla inadeguata assistenza sanitaria, alla presenza di detenuti molto anziani, in spregio ad una sentenza della Corte Costituzionale.

    Nella lettera è evidenziato anche l’abuso della carcerazione preventiva che ha portato lo Stato, in seguito agli accertamenti della verità, a dover pagare risarcimenti per circa 27 milioni di euro.

    Quando i problemi si vivono direttamente si comprendono anche quelli degli altri che sono nella stessa situazione.

    Forse, data l’immutabile, da decenni, negativa situazione delle carceri sarebbe utile che  tutti i membri di governo, di qualunque colore, perché l’indifferenza alla inumana situazione delle carceri è stata comune a tutti, passassero ventiquattro ore in un istituto di pena per comprendere meglio cosa va fatto e fatto subito.

    Sicuramente bisogna ricorrere meno, e solo in casi gravi, alla carcerazione preventiva, sicuramente chi è molto anziano deve ottenere gli arresti domiciliari, sicuramente i tossicodipendenti andrebbero collocati in strutture diverse ed adeguate, altrettanto sicuramente e velocemente le carceri devono essere ristrutturate in modo da garantire insieme la pena, la rieducazione e condizioni di vita che non ci facciano continuamente richiamare anche dall’Unione Europea per violazione dei diritti umani.

    Altrettanto sicuramente vanno, piaccia o non piaccia, costruite nuove carceri e rese agibili quelle già costruite e mai utilizzate.

    In molti hanno pianto la morte di Papa Francesco, ricordiamoci le sue parole anche per le carceri, per i detenuti e per la polizia penitenziaria.

  • In attesa di Giustizia: stica***

    Dal 2018 al 2024 allo Stato sono costati circa 220 milioni di euro gli indennizzi destinati ai cittadini vittime di ingiusta detenzione, cioè che sono stati arrestati salvo poi essere prosciolti o assolti: la cifra si ricava dall’ultima relazione del ministero della Giustizia sulla custodia cautelare e sulle ingiuste detenzioni in Italia…e molte vengono negate con motivazioni quantomeno fantasiose. Quello che colpisce è la distribuzione geografica delle riparazioni economiche: di questi 220 milioni, ben 78 sono stati versati in Calabria, a seguito di decisione delle competenti Corti d’appello di Catanzaro e Reggio. In altre parole, una regione che ospita soltanto 1,8 milioni di abitanti ha assorbito negli ultimi sette anni il 35% dell’intera spesa destinata a risarcire le vittime di ingiusta detenzione: tendenza stabile se, nel 2024, su quasi 27 milioni complessivi, 8,8 (e siamo al 33%) costituiscono il costo della Calabria…e forse c’è una spiegazione, sicuramente i numeri fanno riflettere.

    Non a caso si parla di un’area dominata da procure d’assalto che imbastiscono maxi operazioni contro la criminalità organizzata con decine, se non centinaia di arresti, e che molto spesso si rivelano ingiusti. Le più note – i cui effetti in termini di ricaduta sugli indennizzi diventano ora percettibili a processi conclusi – sono quelle firmate a suo tempo da Nicola Gratteri: prima a Reggio Calabria e poi a Catanzaro dove è stato Procuratore Capo dal 2016 al 2023.

    Ricordiamone alcune: quella contro la ’ndrangheta del 2003, nella Locride, con 125 misure di custodia cautelare (solo in otto vennero condannati e per gli arresti preventivi è necessaria una valutazione degli indizi con prognosi di “elevata probabilità di condanna”); l’operazione “Circolo formato” del 2011, quaranta persone arrestate tra cui il sindaco di Marina di Gioiosa Ionica e diversi assessori, in esito alla quale gli amministratori locali poi vennero assolti; l’ancora più nota operazione “Rinascita-Scott”, nel 2019: 334 persone mandate in carcere ed in primo grado ne sono state assolte 131, praticamente una su tre; buon ultima – ma non esaurisce l’elenco – l’inchiesta del 2018 che sconvolse la politica calabrese, con le accuse di corruzione e abuso d’ufficio contro l’allora Presidente della regione, Mario Oliverio, poi assolto.

    Stiamo parlando di Gratteri che ha sempre sostenuto che i risarcimenti per ingiusta detenzione erano riferibili agli anni prima del suo arrivo a Catanzaro ma adesso che la Corte d’Appello sta trattando proprio gli anni della sua gestione i numeri, anziché diminuire, sembra che aumentino.

    In effetti, nel 2024 il maggior numero di ordinanze di indennizzo per ingiusta detenzione è stato emesso proprio dalla Corte d’Appello di Catanzaro: 110 sulle 552 di tutto il territorio nazionale ed in taluni casi era stata già la Corte di Cassazione a definire le indagini di Gratteri come improntate ad un chiaro pregiudizio accusatorio; e non stati solo decine di cittadini ad avere la vita distrutta ma anche aziende finite ingiustamente nel tritacarne che sono state condotte all’inesorabile fallimento da inette amministrazioni giudiziarie.

    E’ il metodo calabrese: si getta la rete e si pesca a strascico: qualcosa resta sempre impigliato nella rete ma non è certo una pesca miracolosa: stica***… Piuttosto costosa per le casse pubbliche e prima ancora per la vita degli innocenti.

  • In attesa di Giustizia: vergogniamoci per lui

    Chi ricorda il settimanale satirico Cuore? Tra le tante, spassosissime, c’era una rubrica: “Vergogniamoci per loro: servizio di pubblica utilità per chi non è in grado di farlo da solo”.

    Ecco, talvolta, mi illudo che questa rubrica sia capace di riproporne l’impostazione senza far ridere ma – piuttosto – riflettere.

    Orbene, uno che ha urgente bisogno di aiuto per recuperare il senso della vergogna è Piercamillo Davigo del quale vale la pena richiamare alcune delle prodezze dialettiche, senza pretesa di enumerarle tutte, prima di offrire ai lettori l’ultima perla…ma solo in termini di tempo: c’è da temere perché l’uomo si è talmente calato nella parte del fustigatore di costumi da essersi trasformato in una maschera, smarrendo il senso dell’umanità e traboccante di boriosa presunzione sin dai tempi in cui affermava che “i magistrati sono il meglio della società ed i P.M. il meglio del meglio del meglio” e che, in tale veste, avrebbero “rivoltato l’Italia come un calzino”. Immaginate, se non avete mai letto una sentenza scritta da lui, l’equilibrio che può aver mostrato quando passò alle funzioni giudicanti diventando il manifesto della opportuna separazione delle carriere.

    Uno dei suoi palcoscenici preferiti, a parte talk show dove si presenta esclusivamente se gli permettono di cantare e di ballarsela da solo, sono diventati gli eventi e feste del Fatto Quotidiano del quale è un editorialista di punta: in una di queste occasioni, parlando dei femminicidi ha detto – tutto divertito – che costano meno tempo e pena di un divorzio. Se voleva essere una battuta, non fa ridere: senonchè, dopo questa uscita ha registrato altre spiritosaggini in un’intervista che si può rivedere su Youtube facendo conti grossolanamente sbagliati sulla pena irrisoria che rischierebbe un uxoricida in base a riferimenti normativi volutamente piegati alla sua interpretazione con abile ed ingannevole travisamento che, però, il cittadino comune non è in grado di svelare, anzi, ci crede…quello è il Dottor Sottile di Mani Pulite!

    Più recente ed ampiamente nota è l’intemerata conclusa con l’affermazione che “un innocente è solo un colpevole che l’ha fatta franca” e chissà cosa avrebbe dovuto pensare di se stesso se a Brescia lo avessero assolto…

    Tuttavia, a parte i settori della informazione e della comunicazione vicini a Travaglio, più in generale alla comunità manettara, sembra che il suo appeal sia in calo tanto che, per avere un po’ di spazio si è dovuto accomodare nel salotto di Federico Lucia lasciando allibito persino lui quando ha sostenuto che i suicidi in carcere sono una tragedia perché privano i P.M. di possibili fonti informative.

    Daje, Camillino, sparane un’altra perché al peggio non c’è limite e lui non se lo è fatto ripetere. Alla prima occasione, cioè intervenendo nel dibattito aperto dal “decreto carceri” (obiettivamente non un capolavoro di tecnica normativa e diritto) ha condiviso l’ipotesi che si tratti di un provvedimento “salva colletti bianchi” ed, a proposito della annotazione che nei nostri istituti i detenuti in attesa di giudizio sono in una percentuale, cioè stanno in carcere dei presunti innocenti (una parolaccia che Davigo ha orrore solo a pensare di pronunciare) ha detto che tutto dipende solo da quella bassa dei detenuti in espiazione di una pena definitiva. Insomma, si dovrebbe essere contenti di stare in galera da innocente o presunto tale perché in fondo sono pochi i colpevoli conclamati…e non solo soccorre un implicito richiamo alla sua teoria dei colpevoli che la fanno franca ma equivale a dire che in guerra non è grave bombardare i civili se scarseggiano gli obiettivi militari.

    Vergogniamoci per lui: che resti fulgido esempio di ciò che ogni buon magistrato non deve mai essere. Non seguire i suoi insegnamenti è il migliore omaggio ai tanti giudici e pubblici ministeri che hanno sacrificato la propria vita senza sparare stupidaggini buone solo ad alimentare a dismisura il proprio ego e una vuota smania di protagonismo.

  • In attesa di Giustizia: morire di burocrazia

    In carcere si muore, non solo dandosi la morte da sé: si muore anche di burocrazia, di udienze che vengono rinviate perché manca una notifica, si muore perché il servizio sanitario è lento in maniera esponenziale a soddisfare le esigenze terapeutiche dei detenuti: lo è per coloro che sono liberi, figuratevi per quella popolazione carceraria che viene sempre più vista come semplice carne da cannone.

    Scrivo solo poche righe questa settimana, il resto del lo lascio ad un avvocato che ha scritto una lettera struggente ad un suo assistito morto in detenzione domiciliare perché l’evidenza di un male inesorabile non è stata sufficiente per sospendere l’esecuzione ed avere trattamenti più adeguati e continui. Ma forse è stato meglio così, ora quell’uomo è finalmente libero.

    Un orologio.

    Me lo hai donato una settimana fa.

    Ho fatto in tempo a salutarti.

    A vedere un uomo di 72 anni divorato da quello che, per pudore, paura o vigliaccheria, non si vuol chiamare un cancro di merda.

    Un orologio ha segnato la tua fine. Oggi.

    48 chili. Quasi non ti avevo riconosciuto.

    Ma Claudio, che ormai la privacy può fottersi, oltre che un essere umano, era un mio assistito.

    Claudio che 10 anni fa, al primo colloquio in carcere, mi disse “ma te sei un regazzino!”

    E forse lo ero pure sette giorni fa. Per quell’uomo che ha trascorso quasi 30 anni senza libertà: la metà della vita.

    Claudio sbattuto tra carcere e casa. Ma non ancora libero. Ora forse sì.

    Claudio, una scuola di diritto.

    Uno sguardo verso quel mondo che questo ragazzino ha imparato anche grazie a lui.

    Claudio, che il carcere lo conosceva.

    Che conosceva anche quel mondo fuori dalle regole.

    Che non riconosceva i “delinquenti de oggi, senza valori. Che ammazzeno in quattro un regazzino. Non avranno vita semplice in carcere”.

    Claudio che a ‘sto regazzino, lo ha sempre rispettato per l’avvocato che sono.

    Che quando esagerava, chiedeva subito scusa.

    Claudio che scorsa settimana si chiedeva come poteva succedere che con 48 chili avesse ancora la detenzione domiciliare.

    Ed io a quei giudici, un paio di giorni prima lo dissi. Per beccarmi un rinvio a ottobre. Con cui ormai farò poco.

    Claudio che voleva morire libero.

    E gli volevo bene a quell’uomo d’altri tempi.

    A quel romano che sembrava uscito da una poesia di Trilussa.

    Che metteva le “e” nei verbi, come i vecchi romani.

    Conserverò quel dono con il ricordo di un uomo, in fondo, buono.  Perché lo era. Che non aveva mai ucciso o fatto male a nessuno.

    Sono triste, ma sereno che almeno ora é libero.

    Da una giustizia a tratti farraginosa. Da un male bastardo.

    Ciao Claudio.

    T’ho voluto bene. Ora posso dirlo.

    Riposa in pace.

    Ivan. Il regazzino. Il tuo Avvocato.

    In queste righe, in queste parole c’è tutta l’empatia di cui sa essere portatore chi non si limita a fare la professione di avvocato ma è Difensore nel profondo: nel profondo di un animo sensibile e tormentato perché la vita lo ha sottoposto a prove durissime come quello di Ivan Vaccari che deve essere un esempio perchè sa mettere in primo piano quell’essere fragile e tragico che è l’uomo, che difende l’uomo e non il reato che gli viene attribuito; Ivan Vaccari che è capace di provare e di trasferire quella pietas che esprime l’insieme dei doveri che si hanno verso gli altri uomini ma troppo spesso è dimenticata per quegli ultimi che sono solo “carne da cannone”.

  • In attesa di Giustizia: un bel tacer…

    I lettori di questa rubrica saranno, forse, stupiti di non avere ancora letto un commento sulla vicenda giudiziaria del Governatore della Liguria che tiene banco da settimane: in effetti, stimoli ce ne sono stati tanti e c’era anche pronto un titolo per l’articolo: “la legge non è uguale per Toti” e nel corpo del pezzo il suggerimento al legislatore di varare una modifica della Costituzione prevedendo che “è attribuito alla Procura della Repubblica competente per territorio il potere di scioglimento delle giunte comunali e regionali e la facoltà di indicare la data delle elezioni amministrative”. Ma poi ho pensato che già molti hanno scritto in proposito ed, inoltre, la conoscenza degli atti di indagine è molto limitata per poter esprimere una opinione ragionata. Titolo e suggerimento di legge costituzionale possono però tenersi buoni per il futuro.

    La scelta è, invece, ricaduta sulla permanente criticità di condizioni della popolazione carceraria che tende a diminuire solo a causa dei continui suicidi: un dramma che questo, come altri governi, dimostra di essere del tutto inetto ad affrontare mentre da qualcuno vengono offerte indicazioni, che vorrebbero essere giustificazioni, in un’ottica geometrica di superfici fruibili, magari considerando anche le parti comuni di una galera (cortili adibiti al parcheggio dei blindati compresi) come se si trattasse di un condominio e sulle quali ogni parere è ammesso.

    Tutto dipende dall’idea che si ha del valore delle vite umane e della dignità dell’uomo: anche del peggior criminale: nelle navi negriere, per esempio, i corpi degli schiavi venivano ammassati uno sull’altro perché le perdite calcolate – con cibo e viveri al limite della sussistenza – si aggiravano intorno ad un 12% che garantiva comunque lauti profitti: un po’ quello che fanno le catene della grande distribuzione nel prezzare i prodotti messi in vendita tenuto conto dell’incidenza dei furti e del deperimento degli alimentari invenduti.

    Ebbene, se l’uomo è considerato alla stregua di merce di scambio tutto è possibile in termini di valutazione del problema.

    Ecco allora che il dibattito sul sovraffollamento carcerario tende a ripetersi, a riproporsi inesorabilmente a distanza di pochi anni dall’ultima soluzione tampone adottata confermando che chi dovrebbe occuparsi del problema non se ne occupa affatto e lo fa con dilettantesca approssimazione solo quando si perviene ad un punto di non ritorno.

    In questa cornice di solerte inattività si inserisce il pensiero di illustri giuristi come Marco Travaglio che è stato capace di scrivere che la questione dovrebbe essere posta al contrario perché in Italia i detenuti non sono affatto troppi rispetto al numero di reati e di delinquenti, sono se mai troppo pochi.

    Certo, tutto torna se si prende per buona la teoria del suo autorevole editorialista, il pregiudicato Piercamillo Davigo, secondo il quale non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca.

    Ma c’è qualcosa che, invece, stona nel Travaglio pensiero che prevede anche lo zero nel rating del rispetto dovuto ai propri simili e farebbe meglio a tacere, perché tenendo conto delle linee di tendenza dei fenomeni (ed i numeri non mentono) si rileva che nel nostro Paese i reati sono in diminuzione da qualche anno mentre il numero dei detenuti continua a crescere ed una percentuale elevata, come noto, è di imputati in attesa di giudizio e non definitivamente condannati.

    E qui viene da ripensare che un carcere disumano non è fonte di sicurezza per i cittadini perché coloro che lo hanno subito non solo non ne usciranno migliori ma saranno ancora più inclini alla recidiva, un po’ per mancanza di alternative e non poco per un senso di rivalsa verso una società che li ha emarginati in moderne (ma non troppo) triremi evocando scenari di un carcere duro come medicina per la devianza, lontano dai nostri riferimenti costituzionali, dalle migliori tradizioni del pensiero illuministico, quel pensiero che non illumina certo le menti grette che popolano talune redazioni ma – per fortuna – non  quella de Il Patto Sociale che a chi scrive offre sempre uno spazio per parlare di attesa di giustizia, quella giustizia che è  insita anche in pene irrogate al termine di un equo processo ed in grado di proporre ai condannati un percorso di riabilitazione e non soltanto retributivo.

  • In attesa di Giustizia: quinto grado

    Non bastano programmi televisivi che si arrogano il diritto di svolgere vere e proprie indagini parallele sui fatti di cronaca nera senza evitare di esprimere giudizi, generalmente di colpevolezza perché al pubblico piace sapere che il bene vince sempre ed i cattivi hanno una punizione segnata nel destino: per chi si perdesse qualche puntata, ci pensa la carta stampata a celebrare un quinto grado di giudizio alimentando la fame di gogna di quel popolo italiano nel cui nome – lo abbiamo ricordato molte volte – è amministrata la giustizia e dovrebbe, pertanto, ricevere un’informazione corretta in proposito stimolando la funzione di controllo di una comunità che aspiri ad essere democratica a tutela dei diritti del cittadino dinanzi alle prevaricazioni del potere

    Un’ennesima e recente esperienza dimostra – invece – che la cronaca giudiziaria, più che ad una doverosa e corretta informazione, sia intesa a sollecitare indignazione fomentando una pericolosa deriva illiberale che Tribunali e legislatore sono facilmente disposti ad assecondare: basti pensare al vergognoso sit in organizzato a Genova contro il Governatore agli arresti con provvedimenti in cui il Ministro della Giustizia ha affermato di far fatica a comprendere cosa ci sia scritto.

    Questa volta parliamo della concessione degli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico, ad uno dei due ragazzi americani accusati per l’uccisione del Vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello, avvenuta nel luglio 2019 a Roma.

    Nessuno tra i cronisti ha ritenuto opportuno mettere in evidenza che si tratta di un imputato sotto processo (non ancora concluso) che ha già sofferto cinque anni di carcerazione preventiva e la cui pena, dopo l’annullamento da parte della Corte di Cassazione, è stata dimezzata per una ragione giuridicamente ineccepibile: il suo ruolo è risultato essere quello del concorrente anomalo nell’omicidio. Il che, tradotto, significa che ha partecipato all’aggressione nei confronti del sottufficiale dell’Arma ma senza l’intenzione di uccidere. Una differenza non banale rispetto all’omicidio volontario tutt’ora contestato al suo coimputato, colpevole materiale di quella morte.

    La detenzione domiciliare con un dispositivo elettronico di controllo è – dunque – coerente con il tipo di responsabilità attribuita e proporzionata bilanciando la pena residua con quella già espiata in attesa di giudizio ed è stata disposta  presso l’unico domicilio disponibile in Italia, quello dei nonni che non hanno colpa se risiedono a Fregene: tutto ciò è diventato ghiotto pretesto per sollecitare su alcuni quotidiani sentimenti di rabbia e rancore, come si trattasse di un crimine impunito, con titoli del tipo “Il killer del carabiniere va ai domiciliari al mare”. Ovviamente silenzio circa su quella dinamica processuale che, come altre anche questa volta, la nostra rubrica cerca di rendere comprensibile anche a lettori non tecnici.

    Altrettanto ovviamente nessuno ha inteso ricordare l’immagine di questo giovane fotografato all’interno di una caserma che veniva predisposto all’interrogatorio del P.M. bendato e con le mani legate dietro la schiena con un garbato metodo di persuasione in salsa magiara.

    Ecco allora che altri titoli come Cerciello: un killer ai domiciliari. La moglie: giustizia al contrario ed a seguire un articolo che trasuda in alternativa malafede o ignoranza dei fatti e del diritto (forse entrambe), scegliete voi, parla di un’informazione disinteressata alla comprensione dei fatti che, però, possono esercitare una pressione indebita sui giudici, anche compromettendo la loro indipendenza e imparzialità, generando sfiducia nelle istituzioni e promuovendo sentimenti di vendetta piuttosto che di giustizia.

  • Caso Salis: dati a confronto

    Per ogni cittadino italiano è doveroso portare rispetto al Capo dello Stato poiché rappresenta l’Italia e tutti gli italiani. Inoltre, la sua funzione non è solo al di sopra delle parti ma anche degli altri poteri istituzionali: il legislativo (può sciogliere le Camere e non controfirmare le leggi), l’esecutivo (è lui a nominare i ministri) e il giudiziario (è Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura). Naturalmente tale rispetto è giustamente dovuto anche all’attuale Presidente, l’On. Sergio Mattarella che, prima di diventare Deputato, ministro e Presidente della Repubblica, fu perfino docente di diritto presso l’Università di Palermo.

    È proprio per queste sue indiscutibili competenze ed esperienze che stupisce quanto, a detta del sig. Salis, gli abbia espresso nella telefonata in risposta alla lettera di quest’ultimo e cioè una particolare solidarietà per il caso di sua figlia che sembrerebbe essersi recata in Ungheria con l’innocente scopo di picchiare dei locali manifestanti. La cosa più strana è che il nostro Presidente avrebbe pure affermato che la differenza tra il nostro sistema giudiziario e quello ungherese stia nel fatto che il nostro si ispira a “valori europei” mentre quello magiaro non si sa. Purtroppo, credo che il nostro rispettato Capo dello Stato sia stato vittima di alcune spiacevoli dimenticanze che, proprio in quanto Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, avrebbe dovuto ricordare.

    Vediamo di ricordarglielo noi.

    -L’Italia, così come l’Ungheria, ha aderito alla Convenzione di Roma del 1950 che impone la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali verso tutti. Tuttavia, tra il 1959 e il 2021 il nostro Paese è stato condannato ben 2466 volte per aver violato i principi di quella Convenzione ponendosi, tra i firmatari, al terzo posto dopo Turchia e Russia. L’Ungheria ha subito 614 condanne*.

    -Per nove volte l’Italia è stata condannata per torture. L’Ungheria mai.

    -Come tutti gli italiani sanno, la nostra magistratura non brilla per velocità e la Corte di Strasburgo l’ha condannata per questa ragione ben 1203 volte. L’Ungheria ha subito la stessa sorte 344 volte.

    -A proposito di “giusto processo”, noi abbiamo subito 297 condanne per non averlo rispettato. L’Ungheria ha subito “solo” 33 condanne.

    -Da noi più di un detenuto su tre è imprigionato per oltre sei mesi in attesa di giudizio.

    – Gli italiani attualmente detenuti in Stati esteri sono circa 2600 e molti di loro stanno al di fuori dell’Unione Europea. In Ungheria ce ne sono 32 di cui 12 in attesa di giudizio come la signorina Salis accusata di terrorismo. Anche i parenti di costoro scriveranno al Presidente e riceveranno la sua telefonata di risposta?

    -Dal 1991 al 2022 sono stati appurati da noi circa 30.000 casi di errori giudiziari e sembrerebbe che, in media, ogni anno si scopre che almeno 961 cittadini sono incarcerati e poi giudicati innocenti.

    -È meglio non fare paragoni tra le nostre carceri e quelle ungheresi poiché quasi la metà delle nostre non dispone di acqua calda per le docce e i suicidi tra i detenuti nel 2022 sono stati 85. Non risulta che sia lo stesso in Ungheria.

    -Si accusava il Paese magiaro di non rispettare l’indipendenza della magistratura ma il Presidente avrebbe annunciato di chiedere al nostro Governo che si interessi presso il Governo di Budapest affinché intervenga nel processo a favore della nostra connazionale? Pretendiamo una magistratura indipendente e poi vogliamo un’interferenza del loro esecutivo?

    Ho dovuto citare tutti questi dati anche perché sappiamo che il nostro amato Presidente è dichiaratamente un cristiano osservante e quindi conscio del detto evangelico che invita a non guardare la pagliuzza negli occhi altrui se i nostri bulbi ospitano addirittura una trave.

    *Tutte le cifre citate sono contenute in una lettera aperta che Augusto Sinagra ha inviato al Presidente basandosi su una accurata ricerca effettuata dal generale Raimondo Caria.

  • In attesa di Giustizia: la Corrida

    Chi non ricorda lo spassoso programma televisivo condotto da Corrado Mantoni in cui entusiasti improvvisatori si cimentavano nelle più disparate performances sottoponendosi al giudizio – più spesso al biasimo – del pubblico armato di pentole, fischietti ed altri originali strumenti di voto?

    Ecco, questa settimana, “In attesa di Giustizia” offre – quasi come una strenna – ai suoi lettori una carrellata di esibizioni degna de “La Corrida” se non fosse che i perfomers non sono dilettanti allo sbaraglio, forse si tratta solo di personaggi (ancora) in cerca di autore che presumono troppo. Preparate i campanacci…

    Cominciamo dai polemisti che da ogni dove hanno attaccato l’avvocato Cuccureddu (una donna, tra l’altro) per come ha condotto il controesame della ragazza che si presume abbia subito violenza da parte di Ciro Grillo e dei suoi amici; una considerazione deve premettersi a tutte le altre: come è possibile che neppure un’udienza “a porte chiuse”, cioè senza presenza di pubblico e/o cronisti proprio per la delicatezza degli argomenti e tutelare al meglio la riservatezza dei protagonisti, risulti così facilmente permeabile e la sostanza dei verbali diventi immediatamente di condiviso dominio di quotidiani e telegiornali?

    “Vegogna, domande da Medioevo, patriarcato! (che è il più recente degli insulti)”… alte si levano le voci degli indignati dalla circostanza che un difensore abbia fatto il suo mestiere che, nei casi in cui tutto si gioca sulla parola di uno contro quella dell’altro, consiste nella verifica della attendibilità dei testimoni e non può essere affidata ad altro che ad un rigoroso interrogatorio, magari sgradevole anche per chi lo fa: però anche essere sotto processo per violenza sessuale è sgradevole: in quello a carico di William Kennedy Smith, nipote del senatore Ted, il solo P.M. incalzò per ben undici ore la denunciante la cui partecipazione emotiva fu così coinvolgente che alcuni giurati svennero. Ma quello era il P.M., erano altri anni, accadeva lontano da noi e nessuno se ne lamentò. Il giovane fu, comunque, assolto.

    Per restare in tema di violenza di genere, è Interessante anche la proposta di Mauro Corona, scudiero da anni di Bianca Berlinguer, il quale interpellato per ottenere una illuminante soluzione alla piaga sociale dei femminicidi ha suggerito come deterrente una modifica del codice penale che richiama quello meno recente di Hammurabi (circa trentotto secoli) e che consiste nel mettere il presunto autore a disposizione dei famigliari della vittima per una settimana, chiusi in una stanza e se ne esce vivo buon per lui. Certo che, se la legge del taglione è la più quotata, non ci si deve stupire se una duplice e due volte inutile riforma ha provocato solo pericoloso smarrimento tra legittima difesa ed autorizzazione alla vendetta sociale, tra Far West e Stato di diritto. Ed anche a questo proposito il bestiario degli insegnamenti a reti unificate è stato ricco e vario.

    Il gran finale di questa puntatona della Corrida non poteva che riservarsi a lui: Piercamillo Davigo, in evidente calo di popolarità al punto che pur di ottenere un’ennesima ospitata – rigorosamente in solitario (guai a mettergli in studio un contraddittore) – si è reso disponibile a partecipare ad una puntata de “Il Muschio Selvaggio”.  Intervistato da Federico Leonardo Lucia è riuscito a sgomentare persino lui che, di sicuro, non è un raffinato giurista.

    L’ineffabile Dottor Sottile, richiesto da Fedez di manifestare il proprio pensiero rispetto alla problematica dei suicidi in carcere, non ha saputo dire di meglio che è davvero un peccato che i detenuti si tolgano la vita perché così vanno disperse possibili fonti di informazione.

    Non pago, a proposito della vicenda che ha portato alla sua condanna a quindici mesi di reclusione, non ha saputo offrire di meglio agli ascoltatori che la lapidaria affermazione “Io non ho commesso reati ma, visto che a Brescia le cose non sempre le capiscono mi hanno condannato”.

    Gioco, partita, incontro: sebbene debba annotarsi che l’ultimo palcoscenico dell’ex stratega di Mani Pulite denoti che sia stato, ormai, relegato ad un ruolo di macchietta. Esattamente come il buon selvaggio di Carta Bianca.

    Buon Natale a tutti voi e..meditate gente, meditate.

  • In attesa di Giustizia: il carcere è anche questo

    Con queste parole, la voce incrinata, il Direttore di San Vittore, meritatamente insignito dell’Ambrogino d’oro, ha congedato il pubblico esterno e i detenuti presenti per la tradizionale proiezione della Prima della Scala nella Rotonda dell’istituto penitenziario interrotta durante il secondo atto: un’impiccagione nel quinto reparto e chi conosce un po’ i movimenti del carcere aveva già capito l’allarme, le corse, l’agitazione.

    Un ennesimo suicidio che come ognuno ha ragioni proprie e va rispettato in quanto dramma unico e l’aggettivo “ennesimo” vale solo a sottolineare uno sgomentevole dato quantitativo: sessantasei da inizio anno, ma che contribuisce a farci sentire tutto il peso della attuale situazione delle carceri. Lo aveva detto proprio il Direttore parlando di una situazione drammatica con oltre mille detenuti che non rallentano l’impegno per andare avanti, continuando a credere in un lavoro di grande sacrificio e, ovviamente, nella necessità di portare dentro al carcere la società per momenti di riflessione. Un contributo in tal senso lo diede prima della pandemia proprio il Gruppo Toghe & Teglie, che cura in queste pagine la rubrica di cucina, con due cene aperte ad un pubblico esterno, nel giardino della sezione femminile, eventi dal titolo simbolico “A Tavola con la Speranza”.

    La contraddizione è esplosa in occasione di una ricorrenza in cui va tutto bene, o si finge che così sia, pur consapevoli – e soprattutto noi avvocati lo siamo – che dietro alle cancellate dei reparti ci sono  disperazione,  sovraffollamento,  materassi per dormire per terra, i blindi chiusi, la carenza di igiene, una vita invivibile che aggiungono pene a quella della privazione della libertà andando in senso opposto al progetto di rieducazione dei condannati che dovrebbe essere coltivato nell’interesse comune, nell’ottica di un recupero non solo di esseri umani ma di quella sicurezza che – a parole – sembra stare a cuore a tutti.

    Sessantasei vite umane, un atroce conteggio che non può essere liquidato come un arido bilancio consuntivo di fine anno quando è in conto l’esistenza di persone affidate alla cura di uno Stato che dovrebbe restituirle migliori alla collettività: un elenco che si allunga inesorabilmente, nell’indifferenza di governi che guardano al pianeta carcere con cinica indifferenza, spesso utilizzandolo come emblema di una recuperata incolumità dei cittadini nella salvifica funzione di discarica sociale meramente afflittiva.

    Ora vi è solo da augurarsi che questo evento drammatico, verificatosi in un momento particolare, sia in grado di scuotere le coscienze di chi continua a credere che le carceri possano essere stipate all’inverosimile, e non solo nell’interesse della popolazione detenuta in senso stretto.

    Infatti, oltre ai carcerati non si deve dimenticare tutto il personale, civile ed in divisa, tutti quelli che entrano in carcere anche solo per dare una mano, e che fanno sì che San Vittore – e come San Vittore tutti gli altri Istituti non uno escluso – ogni giorno stia in piedi, nonostante un destino avverso. La cosiddetta società civile dovrebbe mobilitarsi ed esserci, fare proposte in ogni occasione in cui si parli dei progetti positivi che in carcere malgrado tutto esistono, evitando che i penitenziari restino invisibili ai più: strutture lontane dagli occhi e dal pensiero di chi non se ne vuole occupare.

    Ed è a costoro che si deve ricordare che una detenzione dignitosa è un diritto e che devono essere attivati gli strumenti affinché condizioni disumane cessino e prima ancora che sia definitivamente abbandonata la visione carcerocentrica di una giustizia penale che guarda poco o nulla alla effettiva dissuasione e meno ancora al fattore rieducativo della pena proseguendo nello sterile percorso di affrontare ogni emergenza con l’introduzione di nuovi reati o inasprendo le pene per quelli già previsti mentre non si può continuare a fare finta di niente, non più.

  • In attesa di Giustizia: ICAM

    ICAM…che sarà mai, forse parliamo di un talento calcistico proveniente da qualche terra esotica? Nossignore, è  l’ acronimo che sta per Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute: in due parole un segnale di civiltà nei riguardi della popolazione delle carceri che ricomprende le gestanti o le madri detenute, appunto, per le quali è previsto che tengano con sé – in cella, o camera di detenzione come viene eufemisticamente definita – la prole di età inferiore a tre anni.

    Non è difficile immaginare quali siano le condizioni in cui un bambino possa vivere e crescere nei primi anni della sua esistenza se ciò avviene rigorosamente dietro le sbarre di un carcere.

    Ecco, allora che, già nel 2006, a Milano, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria nella persona dell’illuminato Dott. Luigi Pagano, d’intesa con la Magistratura di Sorveglianza, istituì un tavolo di concertazione cui parteciparono il Ministro della Giustizia Castelli, il Ministro dell’Istruzione Moratti, il Presidente della Regione Formigoni, il Presidente della Provincia Penati ed il Sindaco di Milano Albertini; all’esito dei lavori vi fu la firma di un protocollo d’intesa per la creazione dell’ICAM: per esternalizzare dal carcere l’asilo nido esistente a San Vittore.

    L’immobile fu messo a disposizione dalla Provincia, con l’interessamento dell’assessore Francesca Corso, e colà vennero alloggiate le donne detenute con i loro bambini.

    Una realtà diversa rispetto al carcere, non l’ideale ma un segnale anche simbolico per dimostrare che le cose se si vuole, si possono fare, rispettando la legge.

    Una battaglia di civiltà, come la definì il giornalista ed ex atleta Candido Cannavò che fu uno strenuo difensore del progetto.

    La Milano delle innovazioni e della cultura liberale precedette di qualche anno una legge che era in lenta gestazione (senza che vi venisse riconosciuto particolare interesse) e nella quale, comunque, veniva riposto grande affidamento.

    Passarono gli anni, l’ICAM di Milano funzionava perfettamente e rappresentava un’eccellenza ed un esempio nel settore della Amministrazione Penitenziaria. Infine, la normativa che avrebbe dovuto offrire respiro nazionale all’iniziativa fu varata nel 2011 ma con grave approssimazione, stravolgendo in negativo il progetto “milanese” (niente di nuovo sotto il sole) e ripristinando gli asili nido all’interno delle carceri.

    All’ICAM ci si sarebbe andati “eventualmente”…

    Che la disciplina fosse un pateracchio che nulla di buono aveva ereditato dalla esperienza lombarda fu subito chiaro – chissà perché subito dopo e non subito prima di approvare il testo – e da allora diversi Governi si sono alternanti e ogni Ministro ha promesso “mai più bambini in carcere”.

    Si è giunti così fino ai giorni nostri e nelle settimane scorse si è assistito ad uno scontro durissimo in Commissione Giustizia sull’ennesimo tentativo di regolamentare adeguatamente la materia delle madri detenute con i figli: il disegno di legge portava la firma di parlamentari del PD ma è stato ritirato sostenendo che il centrodestra lo voleva stravolgere.

    Sembra che le forze di maggioranza, tra le altre cose, volessero mettere dei paletti di accesso agli Istituti di Custodia Attenuata per le detenute recidive: in fondo nient’altro che una riproposizione di quanto previsto nell’Antico Testamento riguardo alle colpe degli ascendenti ricadenti sui figli.

    23 marzo 2023: Governi e Ministri sono passati ed i bambini sono rimasti in carcere. Anche loro, che sono sicuramente innocenti – checchè ne possa pensare Piercamillo Davigo – restano in attesa di Giustizia.

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