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In attesa di Giustizia: lesa maestà

Ci sono vicende che rendono emblematico il nome che si è dato a questa rubrica: come quella di Beniamino Zuncheddu di cui – bontà loro – si sono occupati recentemente anche rappresentanti della “buona stampa” sia pure senza andare molto oltre i titoli ad effetto.

La storia è quella di un uomo per il quale sedici mesi sono stati sufficienti per svolgere indagini e celebrare il giudizio di primo grado e quello di appello, conclusi con una condanna all’ergastolo, devastandone la vita; poi sono serviti 32 anni per restituirgli la libertà, l’onore, l’affetto della famiglia.

Beniamino Zuncheddu entrò in carcere che aveva ventisette anni e ne è appena uscito, alla soglia dei sessanta, liberato in attesa di una decisione, che appare scontata, sulla richiesta di revisione del processo di cui si sta occupando la Corte d’Appello di Roma cui è stata data una netta accelerazione successiva ad una fase iniziale scandita da udienze a distanza di sei/sette mesi una dall’altra anche perché è intervenuto il Garante dei Detenuti della Sardegna organizzando – con il contributo e la perseveranza dei Radicali – sit in davanti ai Tribunali di Roma e di Cagliari ed in questo modo dell’ “affaire Zuncheddu” si è iniziato a parlare.

Quest’uomo, dunque, fu arrestato nel febbraio del 1991, accusato del triplice omicidio di alcuni pastori ed il ferimento di un quarto. Stiamo, dunque, parlando di un regolamento di conti asseritamente determinato da sconfinamenti di pascolo del bestiame, un movente debole ed un’unica prova debolissima a carico di Zuncheddu: la testimonianza più che ambigua di un sopravvissuto alla strage che in un primo momento disse di non avere riconosciuto nessuno ma in seguito identificò Zuncheddu (sembrerebbe dietro suggerimento di un poliziotto condizionato a sua volta da fonti confidenziali, che gliene sottopose una fotografia) e non senza modificare più volte la propria versione nelle diverse occasioni in cui fu sentito…soprattutto allorchè si avvide che non poteva avere riconosciuto un uomo che – a suo stesso dire – era con il volto travisato.

Il riconoscimento di attendibilità ad una simile deposizione  non può che essere frutto di quella giustizia miope e impregnata di cascami inquisitori che impone di trovare un colpevole purchessia, che si arresta di fronte alla prima evidenza ancorchè improbabile e che – mutuando un esempio dal tiro a segno – prima spara il colpo e poi vi disegna intorno il bersaglio per dimostrare che è stato fatto centro pieno: quella giustizia per la quale due piatti della bilancia sono insufficienti perché non ci sono solo il torto e la ragione ma ci sono anche il cuore, la follia, il dolore, l’ingenuità, il sogno, l’utopia.

Un uomo è marcito in carcere per gran parte della sua vita adulta sebbene fosse emerso sin da subito – a prescindere dalla testimonianza oculare ad assetto variabile – che l’autore di quell’eccidio fosse una persona avvezza all’uso delle armi con le quali Beniamino Zancheddu non aveva nessuna dimestichezza, senza contare che, con una spalla fuori uso sin dalla nascita, non avrebbe neppure potuto imbracciare un fucile con la rapidità e sicurezza necessarie per portare a termine un’operazione che le Corti di Assise hanno definito come di livello organizzativo paramilitare e  non alla portata di tutti.

Prima di Natale è attesa la sentenza che dovrebbe porre termine a questa via crucis e non è fuor di luogo evidenziare che la richiesta di revisione fu sottoscritta oltre che dal difensore di Zancheddu anche dall’allora Procuratore Generale di Cagliari, Francesca Nanni, la stessa che – ora Procuratore Generale a Milano – ha ritenuto di segnalare disciplinarmente al C.S.M. il suo sostituto, Cuno Tarfusser, reo di averne presentata una in proprio per la strage di Erba senza “chiederle il permesso”: probabilmente in qualche comma semi sconosciuto dell’Ordinamento Giudiziario sarà anche scritto che si deve far così così e, forse, Tarfusser nel suo procedere ha saltato questo passaggio meramente formale ma viene da chiedersi se il rispetto della legge, la ricerca della verità, debbano essere vincolati all’ossequio di scale gerarchiche.

Sono, piuttosto, i lustri ed i decenni in attesa che sia ristabilito il vero ad integrare il crimine di lesa maestà: quella della Giustizia.

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