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In attesa di Giustizia: schizofrenia al potere

Il nostro è un paese a dichiarata vocazione manettara, non è la prima volta che questa osservazione viene svolta sulle colonne de Il Patto Sociale ed in questa rubrica dove si trattano temi legati alla giustizia, essenzialmente quella penale, estendendo lo sguardo anche alla legislazione sottostante che, quasi sempre, lascia esterrefatti per approssimazione, sciatteria, inclinazione a farsi condizionare dagli umori della piazza o ad inseguire il consenso con iniziative che vengono offerte come finalizzate a garantire maggiore sicurezza ai cittadini. Cittadini ai quali, in fondo, della giustizia – finché non finiscono nel tritacarne dei Tribunali – sembra interessare assai poco ma appaiono confortati e quasi rallegrati dal tintinnio degli schiavettoni.

Sono lontani i tempi di grandi giuristi prestati alla politica come Alfredo Rocco, dei Padri Costituenti come Piero Calamandrei, capaci di elaborare con visione lucida e una tecnica normativa raffinata testi comprensibili,  è lontano il ricordo dell’epoca in cui un’Italia che, vicina a perdere la guerra, riusciva a promulgare un codice civile ispirato al diritto romano che, con qualche aggiornamento, è ancora attuale.

La parola d’ordine, al giorno d’oggi è: certezza della pena, concetto ineccepibile e largamente condivisibile ma che è ben diverso e non va confuso con innalzamento irragionevole delle sanzioni che – tutt’al più – dovrebbe essere messo a fondamento della finalità di deterrenza del precetto penale, se necessario.

Così non è ma si continua a praticare la strada dell’estremo rigore – e, come si vedrà tra poco, irragionevole – a dispetto di inconfutabili statistiche (non solo nazionali) che registrano un livello sostanzialmente inalterato del tasso di criminalità.

Così avviene che il legislatore rimanga sordo ad un richiamo della Corte Costituzionale di due anni fa, che esaminando la questione aveva rivolto l’invito a rivedere il minimo della pena previsto per i reati, non lievi ma neppure aggravati, in materia di stupefacenti perché troppo distanti da quanto previsto per i casi di marginale rilevanza. Meno carcere? Giammai, anche se il massimo previsto sarebbe rimasto a ben trent’anni di reclusione.

Dunque, il Giudice delle Leggi è ritornato in argomento rimediando alla inerzia del legislatore e, pochi giorni addietro, ha dichiarato la incostituzionalità dell’articolo 73 del Testo Unico sugli stupefacenti perché in contrasto con i principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.) e di funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.) con riguardo alle ipotesi “di confine” tra le due categorie distinte da una differenza di molti anni di detenzione: fatti lievi e non lievi. Come darle torto?

Nel frattempo, in Parlamento veleggiano due disegni di legge presentati dagli azionisti di maggioranza del Governo: il primo della Lega si propone di eliminare qualsiasi tolleranza anche verso i reati relativi a modiche quantità di droga, innalzando le pene, il secondo – a firma di un Senatore del M5S è volto a legalizzare coltivazione, lavorazione e vendita della cannabis: quella “vera”, non la cannabis light, quella che ormai si trova anche dal tabaccaio. Insomma, non c’è solo la TAV a dividere i nostri statisti.

Da un quadro siffatto si possono trarre agevolmente delle conclusioni e augurarsi che le cose cambino. Spes ultima Dea.

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