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In attesa di Giustizia: tegole di vetro

La saggezza popolare ricorda che non è bene tirare sassi sul tetto del vicino se il proprio ha le tegole di vetro e, allora, anticipiamo il problema facendo autocritica in una rubrica che ha come protagonisti assoluti politici, politicanti e magistrati.

Due paroline tra il serio e il faceto a proposito di avvocati che – invece di sudare sulle carte processuali – sudano permanentemente accaldati dalle luci di scena degli studi televisivi. In effetti, di carte su cui effondere una diuturna dedizione allo studio e furore intellettuale non ce ne sono poi molte se un’indagine (al netto delle tradizionali fughe di notizie) è ancora in corso e la sensazione è che ciò che si conosce possa essere solo la punta di un iceberg. Già, perché ci sono ancora magistrati che per costituzione non comunicano se non il “minimo sindacale” dovuto per legge.

In mancanza di un’aula in cui tuonare la propria indignazione per un’accusa ingiusta ed ingiustificata cosa può fare, allora, un avvocato spaesato? Si guadagna la parcella (sperando che sia fatturata…) difendendo o aggredendo a reti unificate impiegando, più che colte citazioni in diritto, un eloquio diretto e comprensibile ad un popolo italiano di retequattristi: “indagine ridicola, tutto fumo e niente arrosto” e così tutt’altro che mutuando il proprio dire da un Demostene o un più familiare (non a loro) Calamandrei.

Le rampogne non risparmiano nessuno nei giudizi via etere e, senza peli sulla lingua, attingono uno, due, tre magistrati di diversi distretti giudiziari ipotizzando scenari planetari di malaffare con l’invio di truppe massoniche o – forse – sicari prezzolati dalla Congregazione per la Protezione della Fede ad assassinare quella che, sventurata creatura, era una poco più che studentessa ma glissano sulla mole di inquinamenti probatori inanellati per colpa e/o dolo e – perchè no? –  da una genetica incompetenza a svolgere e delegare un’indagine delicatissima su un territorio dove il crimine più efferato consisteva in un furto di uova e galline.

Poi, ahimè, ci si mettono anche i giornalisti: si intervista per l’ennesima volta la famiglia della vittima con un’operazione buona solo a riacutizzare la sofferenza.
Intanto si formano fazioni accanite di tifoserie su carta, social e tv tra colpevolisti e innocentisti ora del condannato ora dell’indagato. E poi? Si eccita, si osserva, si traggono riflessioni da quel poco che trapela da inquirenti e investigatori, e si usa un linguaggio pacato, neutro, come da codice deontologico mentre le visioni oniriche degli avvocati vengono ora eccitate ora sopite dall’intervento di autorevoli (?) esperti che, come tutti gli altri non hanno in mano uno straccio di carta dell’indagine, il che dovrebbe indurre alla prima regola del mestiere del giornalista: scrivi se hai la carta. Mentre per gli avvocati vale: parla solo se l’hai letta e soprattutto capito cosa c’è scritto.

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