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In attesa di giustizia: un verdetto evitabile?

In Israele è tempo di pesanti contestazioni per la riforma della Giustizia proposta dal Premier Netanyahu e questa settimana, subito dopo la Pasqua, può essere stimolante ed originale trattare proprio del più famoso e controverso processo mai celebrato in Israele, quello a carico di Yehoshua ben Yosef (Gesù figlio di Giuseppe) e della sua condanna a morte: un argomento che costituisce ancor oggi terreno di scontro tra diverse culture.

Chi fu l’artefice di quella condanna?

A chi ascrivere il “peso” di una sentenza finale percepita ancora come massimamente ingiusta?

Non esiste una risposta univoca e gli stessi Evangelisti diversificano molto il giudizio.

Matteo, giudeo che scriveva per i giudei, non esita a responsabilizzare in modo diretto non solo il Sinedrio ma tutto il popolo ebraico, reo di aver chiesto che si versasse il sangue del Cristo; Giovanni, invece, offre una rilettura di Pilato in chiave quasi assolutoria tramandando la famosa risposta che Gesù gli diede negli ultimi momenti del loro faccia a faccia: “…chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande”.

La materia è da trattare con grande prudenza, senza dimenticare che un’interpretazione distorta è stata presa a pretesto per la persecuzione di un intero popolo: ma è un ambito in cui le omissioni potrebbero essere esse stesse una colpa.

Il sistema giudiziario giudaico nel 30/36 d.C. non prevedeva l’esecuzione della pena capitale. O, meglio, il potere di infliggere la pena di morte era riservato alla sola autorità romana, quale forza occupante.

Conosciamo storicamente l’uso della lapidazione, ma a quei tempi era piuttosto una reazione immediata della gente in caso di flagranza di “delitti religiosi” quali la bestemmia e l’adulterio.

Gesù, invece, doveva essere innanzitutto processato attesa la mancata flagranza, e l’eventuale condanna capitale non poteva che essere deliberata ed eseguita dall’autorità romana. Su questo non c’è dubbio.

La richiesta di condanna a morte, tuttavia, giunse – senza un vero e proprio processo – dalla folla che fronteggiava Pilato nel pretorio, chiedendo il rilascio di Barabba e gridando con forza, riferita al Cristo, “crucifige!”.

Certo, non fu tutta Gerusalemme ma coloro che accolsero il prevedibile invito di Caifa e degli altri notabili del Sinedrio: diversamente non si capirebbe come una intera città che, appena una settimana prima, aveva osannato Gesù mentre percorreva le strade a dorso di mulo gli si fosse rivoltata contro volendolo morto.

Fatta questa puntualizzazione occorrerà chiedersi se il Governatore romano avrebbe potuto salvare la vita dell’imputato eccellente. In teoria sì, In pratica no.

Leggendo i Vangeli, si ricava che Pilato tentò sicuramente di “allungare il brodo” (come diremmo oggi). Temporeggiò, trattò, lusingò e l’invio del prigioniero da Erode Antipa fu sicuramente un tentativo di aggirare la caparbietà del Sinedrio. Ma il punto di non ritorno, più che il “crucifige!”, fu costituito dalla frase che la folla gli urlò contro: “Se liberi costui non sei amico di Cesare!”.

Immaginiamo la situazione: Ponzio Pilato, incaricato dall’imperatore Tiberio (Cesare, appunto) come Autorità Territoriale della Giudea, che viene sostanzialmente minacciato dal popolo di accusarlo per alto tradimento se si ostinerà a difendere un “bestemmiatore” sconosciuto.

Davanti a tali argomenti e prospettive nulla avrebbe potuto fare Pilato, nulla di diverso da quello che fece.

Ma Gesù avrebbe potuto veramente salvarsi? La risposta corretta a tale domanda sembra essere negativa.

Gesù avrebbe potuto salvarsi solo a condizione che “il calice gli fosse passato davanti” senza essere bevuto. Ma quell’amaro calice da bere era il prezzo per il riscatto dell’intera umanità e andava bevuto.

E questo è, forse, il punto: l’obbedienza di Gesù alla volontà del Padre era un cardine ineludibile. I comportamenti degli uomini furono sicuramente importanti, perché nulla opposero con il loro libero arbitrio, eppure, al contempo, consequenziali segmenti di un piano che trascendeva il loro potere.

Ognuno tragga le proprie conclusioni sulle responsabilità dei protagonisti che abbiamo ricordato ma, forse, una sola è la certezza: se il verdetto era evitabile, tuttavia Gesù doveva morire.

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