aziende

  • Nel 2019 Lavazza ha aumentato del 45% il proprio utile netto

    Il gruppo torinese del caffé Lavazza nel 2019 ha aumentato l’utile netto del 45% su base annua: 127,4 milioni, contro gli 87,9 milioni dell’anno precedente. I ricavi sono ammontati invece a 2,2 miliardi, in crescita del 18% rispetto al 2018.

    Il gruppo ha realizzato il 70% del fatturato all’estero. In particolare la crescita è riconducibile sia all’integrazione di Lavazza Professional sia alla positiva performance del business del gruppo (+3,9% a volume), che ha visto una crescita a doppia cifra in Nord America (+15,2%), Nord Europa (+13%) ed Europa dell’Est (+23%), principalmente in Russia e Polonia.

    Per quanto riguarda il 2020, “l’attuale contesto, fortemente condizionato dall’emergenza sanitaria in corso, rende difficile prevedere cosa accadrà nei prossimi mesi a livello macroeconomico”, spiega l’amministratore delegato Antonio Baravalle, sottolineando che il gruppo a seguito del diffondersi dell’epidemia di coronavirus ha “immediatamente adottato tutte le misure necessarie al fine di garantire la massima sicurezza ai nostri dipendenti, clienti, fornitori e consumatori”.  Sull’Italia lo sguardo del ceo è positivo: “Confidiamo, infine, che con contributi concreti e immediati, come quelli messi in campo dal nostro gruppo e da molti altri imprenditori e aziende italiane, si possa uscire dall’emergenza consentendo al nostro Paese di ripartire”, conclude il capo azienda.

  • Coronavirus: le imprese associate all’UPIVEB considerano la possibilità di chiudere i propri stabilimenti produttivi italiani

    Riceviamo e pubblichiamo il comunicato stampa diramato dall’Unione Produttori Italiani Viteria e Bulloneria (UPIVEB) in seguito all’emergenza causata dalla diffusione dell’epidemia di Covid-19

    Comunicato

    Emergenza Coronavirus COVID19

    Milano, 17 marzo 2020

    In questo momento di grande incertezza dovuto alla diffusione dell’epidemia di COVID‐19 in tutto il mondo, l’Unione Produttori Italiani Viteria e Bulloneria (“UPIVEB”) ritiene indispensabile far presente al mercato che le aziende associate si sono attivate per attuare le misure di sicurezza sanitaria necessarie per tutelare la salute dei propri lavoratori, in linea con quanto previsto dal DPCM dell’11 marzo 2020 (il “Decreto”) e del “Protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid19 negli ambienti di lavoro” concordato tra Governo, sindacati e parti datoriali in attuazione all’art. 1, co. 1, n. 9 del Decreto.

    La maggior parte delle imprese associate è al momento operativa e sta adottando i massimi sforzi per far fronte alle obbligazioni contrattuali verso i propri clienti, per lo più stranieri e in buona parte operanti nel settore automotive.

    Il 75% della produzione italiana di fasteners è infatti destinata all’estero, in particolare in Europa. La situazione dei contagi fuori dal confine italiano risulta essere attualmente meno grave. Non esistono, tuttavia, linee guida condivise a livello europeo riguardanti l’opportunità di mantenere attiva la produzione industriale. Ogni Paese, cliente e produttore si sta muovendo in autonomia con conseguenti e immaginabili future ripercussioni in tema di concorrenza tra imprese appartenenti a diversi Stati.

    La forte propensione all’export del settore della produzione dei fasteners si traduce nell’impossibilità per le aziende associate di assumere posizione unilaterali, le quali avrebbero un inevitabile e diretto impatto sulle attività dei rispettivi partner stranieri, causando possibili inadempimenti contrattuali, potenziali danni e connesse conseguenze legali.

    Nell’esprimere preoccupazione per l’evolversi della pandemia in Italia e nel mondo, le imprese associate UPIVEB considerano la possibilità di chiusura dei propri stabilimenti produttivi italiani una scelta altamente responsabile in funzione della gravità dell’emergenza in corso.

    Tale ipotesi, per la sua concreta attuazione, necessita di essere supportata da una forte condivisione politica e da una concreta base normativa, delle quali si auspica un rapido e comune raggiungimento sul piano europeo. 

    Ufficio Stampa
    UPIVEB, Unione Produttori Italiani Viteria e Bulloneria
    Piazza della Repubblica, 10 ‐ I ‐ 20121 Milano
    Tel. +39 (0)2 6575295 ‐ Fax +39 (0)2 6572897
    www.upiveb.org ‐ info@upiveb.org

  • Rivalutazione dei beni di impresa, qualche riflessione

    La legge di bilancio 2020 (L. 160/2019) ha riproposto la rivalutazione dei beni di impresa. Un’interessante opportunità che negli ultimi anni è stata più volte rivisitata, pur rifacendosi, in sostanza, al provvedimento originario del 2000 (L. 342/2000).

    La normativa si rivolge a tutte le società di capitali, alle società di persone a carattere commerciale, alle imprese individuali, alle società cooperative agli non commerciali, per i beni riconducibili all’attività di impresa e ai soggetti non residenti con stabili organizzazioni in Italia.

    Sono rivalutabili i beni risultanti dal bilancio al 31/12/2018 e deve effettuarsi nel bilancio dell’esercizio successivo (31/12/2019) di prossima approvazione. Ancora pochi giorni, quindi, per gli amministratori per valutare il provvedimento e, eventualmente, effettuare le opportune variazioni nel progetto di bilancio in fase di definizione.

    Potrà trattarsi di beni materiali o immateriali (con l‘eccezione dei meri costi pluriennali) e delle partecipazioni in società controllate e collegate, purché iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie. Sono esclusi i beni al cui scambio o alla cui produzione è diretta l’attività di impresa (cosiddetti beni merce). La rivalutazione non può prescindere dalla corretta classificazione dei beni in categorie omogenee dovendo necessariamente riferirsi a tutti i beni appartenenti alla medesima categoria (unica eccezione per i beni immateriali che potrà riferirsi al singolo bene). Quest’ultima attività è tutt’altro che banale e va compiuta con estremo rigore e precisione potendo inficiare, a posteriori, la validità della rivalutazione stessa.

    Alla rivalutazione consegue il pagamento di un’imposta sostitutiva pari al 10% o al 12% dei maggiori valori, rispettivamente per i beni non ammortizzabili o per quelli ammortizzabili. Anche in questo caso, la suddivisione apparentemente semplice, è tutt’altro che banale soprattutto con riferimento ai fabbricati poiché, i nuovi principi contabili, non prevedono che gli stessi siano esclusi dal processo di ammortamento. A rigor di logica, i beni immobili patrimonio, essendo soggetti a limiti di indeducibilità dei costi anche con riferimento alle quote di ammortamento, dovrebbero essere ricompresi nella fascia con aliquota più bassa. Maggiori certezze si hanno invece con riferimento ai terreni esclusi per definizione dal processo di ammortamento.

    La norma non impone la redazione di perizie che sono tuttavia assolutamente consigliabili per contrastare rilievi futuri anche in considerazione del fatto che non si possono eccedere i valori correnti. Non è prevista la possibilità di dare valenza fiscale ad eventuali svalutazioni, nonostante il periodo storico di riferimento meriterebbe attenzione al fenomeno.

    A fronte dei maggiori valori va iscritta in bilancio una riserva “in sospensione di imposta” che può essere liberata dal vincolo con il versamento di un ulteriore 10%, portando il costo complessivo dell’operazione al 20% o al 22% rispetto al 27,9% della tassazione ordinaria. Nonostante le aliquote delle imposte sostitutive siano scese rispetto a quelle dell’ultimo provvedimento analogo, comportano comunque un costo complessivo non trascurabile, soprattutto in caso di affrancamento della riserva. Opzione, quest’ultima, che andrà attentamente ponderata in funzione dei piani aziendali prospettici disponibili.

    I maggiori valori acquistano valenza fiscale dal terzo anno successivo (2022) con riguardo alla deducibilità degli ammortamenti e alla disciplina sulle società di comodo, mentre dal quarto anno successivo per la determinazione di plusvalenze e minusvalenze. In caso di cessione nel periodo di sorveglianza, si terranno in considerazione i valori ante rivalutazione, emergerà un credito di imposta per il contribuente e si liberà la riserva in sospensione.

    Vorrei sollecitare nei destinatari del provvedimento alcuni ragionamenti per consentire una scelta consapevole.

    I maggiori valori acquisiranno rilevanza per il superamento del test di operatività ai sensi della normativa sulle società di comodo (art. 30 legge n. 724 del 1994) con impatti a volte complicati soprattutto se riferiti alle società operanti nel mercato immobiliare.

    Effettuare la rivalutazione senza affrancare la riserva implica un elevato costo futuro in caso di successiva distribuzione della stessa, occorrerà quindi aver ben presenti i piani prospettici dell’azienda, la politica dei dividendi nonché la redditività futura. In periodi di crisi, la rivalutazione dei maggiori valori latenti può contribuire a patrimonializzare l’azienda aumentandone la capacità di sopportare perdite future. Se questo fosse l’orizzonte, potrebbe risultare superfluo affrancare la riserva emergente. Analoghe conclusioni potrebbero essere tratte in caso di una politica di forte reinvestimento in azienda degli utili realizzati.

    Un’ultima questione sulle riserve in sospensione di imposta generatesi a seguito di precedenti rivalutazioni. Ci si potrebbe chiedere se fosse possibile affrancarle sfruttando il provvedimento legislativo odierno pagando l’imposta sostitutiva del 10%. Ebbene il testo normativa sembra far esplicito riferimento alla possibilità di affrancare esclusivamente la riserva generatasi in occasione della presente rivalutazione e in tal senso si era espressa l’Agenzia nel 2006 e nel 2013 con riferimento ai rispettivi provvedimenti normativi.

  • Nomina dell’organo di controllo nelle srl, proroga a tempo scaduto

    Il codice della crisi e dell’insolvenza è stato varato a gennaio 2019 (Dlgs. 14/2019) in attuazione della legge 19 ottobre 2017 n. 155. Diciamo, quindi, con una gestazione discretamente lunga.

    Una parte delle norme è entrata in vigore decorsi trenta giorni dalla pubblicazione in gazzetta ufficiale, una parte sarebbe invece entrata in vigore diciotto mesi dopo. Tra queste ultime, l’obbligo di nomina dell’organo di controllo o del revisore nelle srl che negli ultimi due esercizi avessero superato almeno uno dei seguenti parametri: quattro milioni di euro di attivo, quattro milioni di euro di ricavi, venti dipendenti in media occupati nell’anno. Anche sulle soglie di cui all’art. 2477 del codice civile, si è assistito ad un susseguirsi di balzelli che hanno dapprima ridotto le soglie per poi aumentarle ai limiti attuali.

    Pertanto, dal 14 febbraio 2019, le società hanno avuto dieci mesi di tempo (nove dalla data di pubblicazione) per adeguare i propri statuti, laddove necessario, e nominare il revisore o il sindaco unico o, ancora, il collegio sindacale.

    I più virtuosi hanno nominato l’organo di controllo o il revisore con l’approvazione del bilancio relativo all’esercizio 2018.

    Alla spicciolata si sono aggiunte nei mesi seguenti una parte delle società che hanno superato i parametri previsti negli esercizi 2017 e 2018, esortate ad adempiere dalla stampa specializzata e dai propri consulenti che hanno fatto una diffusa opera di informazione e sollecitazione alla compliance con la nuova normativa.

    Chiaramente sulle società è impattato un nuovo costo, quello del revisore, percepito, peraltro, quale figura di controllo e di ingerenza negli “affari” sociali. Molti imprenditori delle piccole imprese italiane soggette ai nuovi obblighi, in effetti, non sono preparati per questa rivoluzione epocale che necessita di un cambio di passo culturale di non poco conto. L’impresa dovrà essere adeguatamente strutturata e l’imprenditore non potrà accentrare il ruolo gestorio e quello di controllo che dovrà essere necessariamente affidato a soggetti terzi adeguatamente preparati.

    Non voglio entrare, in questa sede, nel merito dei compiti del revisore e della sua attività, ma ritengo necessario precisare che un valido revisore non sarà solo un costo sterile per l’azienda e, più in generale, per l’imprenditore, ma un valido supporto con cui confrontarsi anche al fine di cogliere tempestivamente segnali di crisi con l’obiettivo di adottare i correttivi necessari.

    Ciò premesso, il lavoro di revisione va adeguatamente programmato e non si esaurisce in pochi giorni. Da qui, giunti a ridosso della fatidica scadenza del 16 dicembre e resosi conto che molte aziende chiamate non avevano ancora proceduto alle nomine, sono iniziati i primi rumors incentrati sul fatto che i revisori nominati a dicembre non avrebbero avuto modo di svolgere adeguatamente il proprio lavoro. Si sono affacciate timide interpretazioni che avrebbero voluto la nomina del revisore nei termini ma con decorrenza 2020 nonché richieste di proroghe avanzate da più fronti.

    Fatto sta che la normativa non è stata modificata e il 16 dicembre è arrivato, molte società si sono attrezzate, ma altrettante e forse più, non hanno provveduto.

    Le camere di commercio, deputate al controllo, avrebbero inviato richieste di spiegazioni in merito alla mancata nomina. A fronte di ulteriore inerzia sarebbe scattata la segnalazione al tribunale che avrebbe provveduto d’Ufficio, con notevole imbarazzo, aggiungo io, sia per la società che per il revisore vista la delicatezza della funzione.

    Ancora il 5 febbraio 2020, il Ministro dello Sviluppo Economico, a seguito di interrogazione parlamentare, aveva escluso eventuali proroghe stante l’evidente “iniquità sotto il profilo concorrenziale delle imprese che hanno rispettato il termine di adempimento rispetto a quelle che, invece lo hanno disatteso”.

    Ed in effetti, così è: se esiste una legge va rispettata da tutti pena discriminazioni e distorsioni nel sistema della concorrenza.

    Ma l’Italia è il Paese delle proroghe, basti pensare che tutti gli anni il Governo vara un decreto chiamato “milleproroghe”, e così, a tempo scaduto, l’art 6 bis del citato decreto prevederebbe lo slittamento della nomina dell’organo di controllo o del revisore alla data di approvazione del bilancio 2019.

    Esclusa qualsiasi presunzione di sindacare il fatto che la proroga fosse giusta o sbagliata, sicuramente ciò che è censurabile è il metodo. Uno dei punti cardine di qualsiasi Paese è la certezza del diritto che da noi, troppo spesso, è diventato incerto comportando plurimi effetti negativi.

    Per favorire gli inadempienti, si è finiti nuovamente per penalizzare gli imprenditori in regola, che per tempo hanno studiato la normativa, hanno modificato i propri assetti organizzativi e hanno nominato il revisore o l’organo di controllo, sopportandone, almeno inizialmente, esclusivamente il relativo costo posto che i benefici saranno attesi in futuro. Ora cosa si inventeranno per premiare questi virtuosi? Che di virtuoso, per altro, poco avrebbero, posto l’esistente obbligo normativo artatamente disatteso a posteriori dallo stesso legislatore. Un contributo per le spese di adeguamento sostenute sarebbe auspicabile e potrebbe essere previsto contestualmente alla proroga.

    A coloro in regola, infine, mi rivolgo, invitandoli a non farsi prendere dallo scoramento, a non percorrere strade che porterebbero alla revoca del revisore (non del sindaco unico) per cessazione dell’obbligo normativo, posto che fra poco più di due mesi si troverebbero punto a capo, a meno che, cambiando gli esercizi monitorati si venga esclusi dall’adempimento. Ipotesi, questa, da verificare con riferimento al testo normativo in fase di approvazione.

    Certo è che, troppo spesso, si interviene a ridosso delle scadenze o, peggio ancora, a tempo scaduto, come nel presente caso. Così facendo si minano le fondamenta del sistema Italia che senza certezze non ripartirà mai: gli investitori stranieri saranno sempre più restii ad entrarvi stabilmente e i cittadini saranno sempre più incentivati ad arrangiarsi alla giornata, rimandando qualsiasi intervento trincerandosi dietro all’assioma che tanto, prima o poi, qualcuno ci metterà una pezza.

  • Italia prima nella Ue per finanziamenti dalla Bei

    L’Italia è di gran lunga il primo beneficiario della finanza Bei, la banca europea degli investimenti: 11 miliardi nel 2019 con un +14% rispetto al 2018 per 34 miliardi di investimenti sostenuti. Nel dettaglio si tratta di 9,7 miliardi di prestiti e 1,4 miliardi di equity e garanzie, questi ultimi attraverso il Fondo Europeo degli investimenti presieduto dall’italiano Dario Scannapieco che è vice presidente della Banca europea degli investimenti.

    Nella sostanza al nostro Paese che l’anno scorso si divideva il podio con la Spagna è andato il 17,3% dei 72,2 miliardi di finanziamenti della Bei l’anno scorso (+12,5%), spalmati su 143 operazioni domestiche. Mentre negli ultimi 10 anni, tra prestiti e investimenti, sono arrivati all’Italia 102 miliardi di nuova finanza per 277 miliardi di progetti. Grande sostegno alle Pmi con 41 miliardi dal 2010 ad oggi. Alle piccole e medie imprese italiane è andato il 18% del totale Bei nel settore. Nel 2019 le Pmi finanziate ammontano a 44.600 per 735mila posti di lavoro sostenuti. Nel decennio sono state oltre 309 mila per 6,5 milioni posti di lavoro.

    Bei ha inoltre proseguito l’impegno per i grandi gruppi con un nuovo target relativo alle imprese più piccole e più innovative come De Cecco a cui sono andati 13 milioni per migliorare la capacità produttiva o Molmed che ha ricevuto 15 per la ricerca e sviluppo nelle terapie geniche anticancro e contro malattie rare.

    Grande attenzione poi alla sostenibilità con una la Bei sempre più impegnata in progetti green la cui quota di finanziamenti salirà a livello continentale al 50% nel 2025 (dal 31% del 2019) Nel 2019 in Italia, nell’ambito di partnership con il sistema bancario sono stati finanziati 640 milioni per combattere il cambiamento climatico, 250 milioni per l’economia circolare e 400 milioni per l’agrieconomy. Grande attenzione anche alla Pubblica amministrazione e ai cittadini. Tra gli interventi messi in atto su tutti il piano scuola con 1,2 miliardi per gli edifici.

    L’Italia è infine il secondo Paese in Europa a beneficiare degli investimenti del Piano Juncker con il 15,2% del totale. Dal 2015 al 2019 sono stati attivati 458 miliardi di investimenti su 500 miliardi previsti in tutta Europa pari al 92% del totale. All’Italia sono stati erogati 11,3 miliardi di euro di finanziamenti. Il totale degli investimenti sostenuti nel periodo è pari a 69,7 miliardi.

     

  • Gli appalti si complicano, parola d’ordine semplificare

    L’Italia muore di burocrazia, questo il risultato che trova conferma anche nella ricerca della CGIA pubblicata a gennaio 2019, su dati della Commissione europea riferiti al 2017.

    Peggio di noi, in Europa, solo la Grecia e questo, visti i trascorsi , dovrebbe allarmare più che mai.

    Il coordinatore dell’Ufficio Studi Paolo Zabeo, in un’intervista pubblicata da ADNKRONOS il 12 gennaio 2019, segnalava come “il livello medio complessivo sia preoccupante. L’incomunicabilità, la mancanza di trasparenza, l’incertezza giuridica e gli adempimenti troppo onerosi hanno generato una profonda incrinatura, soprattutto nei rapporti tra le imprese e i pubblici uffici, che ha provocato l’allontanamento di molti operatori stranieri che, purtroppo, non vogliono più investire in Italia anche per l’eccessiva ridondanza del nostro sistema burocratico”.

    Le aziende e i professionisti che le assistono devono confrontarsi quotidianamente con adempimenti vari, comunicazione di dati, procedure in deroga e chi più ne ha più ne metta. Reverse charge, split payment sono ormai termini di uso comune, non solo per gli addetti ai lavori, che identificano situazioni in cui gli adempimenti sono traslati a carico di soggetti cui, in realtà non competerebbero. Questo sacrificio viene richiesto, ancora una volta, per arginare frodi in ambito iva o, comunque, cercare di ridurre il “vat gap” che ci vede primeggiare in Europa.

    Analoghi modus operandi sono stati adottati, già in passato, nel campo delle ritenute fiscali e previdenziali per limitare il fenomeno dei mancati versamenti.

    Ricordo che la ratio di effettuare le ritenute (previdenziali o fiscali) e rimettere il relativo versamento in capo al committente si basa sull’assunto del contrasto di interessi per cui, sottraendo l’adempimento alla “discrezionalità” del soggetto inciso si avrebbe maggior certezza che lo stesso venga effettuato correttamente.

    Apparentemente nemmeno questo meccanismo è ormai sufficiente in Italia per cui siamo costretti ad andare ancora a monte. Tant’è che il Dl 124/2019, all’art. 4, trasferisce in capo al committente (purché sostitutivo di imposta e residente in Italia), l’obbligo di versare le ritenute sui redditi di lavoro dipendente e assimilati operate dall’impresa appaltatrice, affidataria o subappaltatrice.

    E’ chiaro che il traslare questo tipo di adempimenti comporta un maggior aggravio burocratico in un sistema che invece dovrebbe essere notevolmente semplificato per riacquistare appeal e efficienza. L’adempimento è, tra l’altro, oltremodo macchinoso comportando che l’impresa appaltatrice fornisca al committente l’elenco nominativo dei soggetti con le relative ritenute operate, dimenticando che un medesimo lavoratore potrebbe aver lavorato presso più committenti con difficoltà quindi di ripartire e riattribuire l’onere sugli stessi.

    La novella prevede ancora che l’appaltatrice fornisca al committente la provvista in denari per effettuare il versamento, privando pertanto il contribuente di effettuare il versamento in compensazione con eventuali crediti tributari dallo stesso vantati.

    Unico modo, ad oggi, per sottrarsi all’inversione del soggetto incaricato ad effettuare il versamento delle ritenute è quello di operare con società appaltatrici che siano in esercizio da almeno cinque anni ovvero abbia eseguito nei due anni precedenti versamenti complessivi registrati nel conto fiscale per un importo superiore a 2 milioni di euro nonché non abbiano pendenze con l’amministrazione finanziaria per importi superiori a cinquantamila euro.

    Emerge chiaramente come una simile condizione falsi la concorrenza penalizzando aziende di recente costituzione che, non solo verranno discriminate dai committenti che preferiranno evitare tutta la complessità burocratica descritta, ma anche laddove riuscissero a lavorare, non potranno usufruire legittimamente della compensazione di eventuali crediti vantati.

    Le intenzioni di fondo del legislatore saranno pur legittime e condivisibili, ma forse andrebbero perseguite con modalità differenti, senza aggravi burocratici e senza discriminazioni.

    Mi interrogo, infine, sulla tenuta del sistema e sui suoi fondamentali posto che servono continue deroghe. Deroghe che spesso e volentieri complicano la vita dei cittadini, ingenerano incertezza e accrescono il rischio di essere sanzionati. Tutto questo in un apparato che è già di per sé farraginoso e complicato e, come anticipato in premessa, andrebbe semplificato e non burocratizzato.

  • Il reddito di cittadinanza lascia le imprese prive di maestranze

    Qualcuno del M5s magari adesso le farà chiudere come l’Ilva di Taranto, così da poter dire che il reddito di cittadinanza è utile. Fatto sta che le imprese italiane soffrono di un gap di manodopera, soprattutto per quello che attiene personale con competenze digitali e ingegneri. L’anno scorso, secondo quanto segnala Confartigianato in un rapporto presentato alla Convention dei Giovani Imprenditori a Roma, le imprese italiane hanno registrato difficoltà di reperimento per 1.198.680 persone, pari al 26,3% delle entrate previste, a causa vuoi della scarsità dei candidati vuoi della loro inadeguatezza rispetto alle mansioni da svolgere.

    L’allarme relativo alla carenza di manodopera riguarda anche i giovani under 30: lo scorso anno le imprese non hanno potuto assumerne 352.420, pari al 27,8% del fabbisogno. Il problema di trovare personale, sottolinea il Rapporto, peggiora per le piccole imprese che nel 2018 non hanno potuto mettere sotto contratto 836.740 persone, di cui 245.380 sono giovani under 30.

    A scarseggiare sul mercato del lavoro sono soprattutto le professionalità dell’ambito digitale e dell’Ict: in questi settori nel 2018 le imprese richiedevano 48.800 giovani persone, ma quasi la metà (48,1%), pari a 23.450, sono considerate di difficile reperimento. Dal rapporto emerge che mancano all’appello soprattutto i giovani analisti e progettisti di software (difficile da trovare il 71,3% del personale richiesto dalle imprese, pari a 6.720 unità), e i tecnici programmatori (il 64,2%, pari a 6.990 unità, è di difficile reperimento). Le competenze digitali, al di là delle mansioni svolte anche le più tradizionali, sono richieste da quasi il 60% delle imprese. Ma questo requisito è difficile da soddisfare e lascia scoperti 236.830 posti di lavoro per giovani under 30.

    A livello regionale, la situazione più critica per assumere giovani under 30 si registra in Friuli-Venezia Giulia con il 37,1% dei posti di lavoro di difficile reperimento, Trentino-Alto Adige (34,2%), Umbria (31,6%), Veneto (31,6%) e Emilia-Romagna (30,5%). Il rapporto di Confartigianato mette in evidenza anche la difficoltà a trovare professionalità con titolo di studio adeguato alle esigenze delle imprese. In testa i laureati in ingegneria industriale: 55,5%, pari a 5.750 persone difficili da reperire, seguiti dai laureati in indirizzo scientifico, matematico e fisico (54,7%, pari a 3.370 persone introvabili sul mercato del lavoro), ingegneri elettronici e dell’informazione (52,4%, pari a 7.480 unità) e i diplomati in informatica e telecomunicazioni (50,4%, pari a 9.930 unità).

  • Aumentano le aziende che accumulano ritardi oltre i 90 giorni nei pagamenti dovuti

    Secondo lo Studio Pagamenti svolto da CRIBIS, società del gruppo CRIF specializzata nella business information, il numero di imprese che paga i propri fornitori con più di 30 giorni di ritardo a settembre è cresciuto in quasi tutte le regioni italiane, con variazioni più elevate in Valle d’Aosta (+2,7 punti percentuali), Calabria (+1,9%) e Sardegna (+0,9%). Rispetto al 30 settembre del 2018, quest’anno la percentuale di imprese valdostane che salda i propri impegni con un ritardo superiore al mese è passato dall’8,4% all’11,1% mentre in Calabria la percentuale si è attestata al 22,8% rispetto al 20,9% del settembre dello scorso anno. In Sardegna i pagamenti con gravi ritardi sono aumentati dal 15,9% al 16,8%. Nel settembre di quest’anno CRIBIS ha rilevato un incremento dei pagamenti con ritardi superiori ai 30 giorni anche in Sicilia (+0,6 punti percentuali) da 21,9% a 22,5%, Basilicata (+0,5%) che sale a quota 15,3% e Veneto (+0,5%), dove il 7,2% delle imprese adempie ai propri obblighi economici verso i fornitori oltre un mese dopo la scadenza pattuita. In Piemonte questa percentuale è aumentata di appena 0,4 punti (9,1% delle aziende) così come in Friuli Venezia Giulia (8,7%). Rispetto allo scorso anno la situazione è sostanzialmente stabile in Lombardia (7% delle aziende con ritardi superiori a 30 giorni), Toscana (11,7%), Lazio (16,2%) e Campania, dove i ritardi gravi sono passati dal 20,1% al 20,2%.

    «È in controtendenza – spiega Marco Preti, amministratore delegato CRIBIS – il dato di Abruzzo (-1,6%), Molise (-1,1%) e Liguria (-0,9%), dove le imprese che pagano con ritardi superiori al mese sono diminuite molto più che in Puglia e Marche (-0,3% ciascuna) mentre sostanzialmente invariata (appena -0,1 punti percentuali) è la situazione riscontrata in Umbria, Trentino Alto Adige e Marche. Complessivamente il Nord-Est si conferma l’area più affidabile, con il 42,9% dei pagamenti regolari, mentre le imprese meridionali mostrano un comportamento più problematico con solo il 21,9% di aziende puntuali. Quasi speculare all’incremento dei pagamenti con ritardi gravi – aggiunge Preti – è stata la riduzione delle imprese che paga puntualmente alla scadenza, con cali più vistosi in Valle d’Aosta (-4,7 punti percentuali), Veneto (-3,5%) e Friuli Venezia Giulia (-2,9%). Per quel che concerne i settori produttivi, il commercio al dettaglio presenta la quota maggiore di imprese che assolve ai propri impegni con forti ritardi (17,6%), seguito dall’agricoltura caccia e pesca (11,6%) e da quelli minerario e dei servizi (10,1%)».

    In Italia, fanno notare da CRIBIS, le imprese che saldano i propri pagamenti con ritardi superiori ai 30 giorni sono l’11,5% (era l’11,3% nel settembre 2018) mentre sono più di un terzo (34,9%) quelle che rispettano i termini pattuiti, seppur in diminuzione rispetto al settembre dello scorso anno (36,3%).

  • Magneti Marelli: dalla possibile quotazione alla cassa integrazione

    A soli dieci mesi dalla vendita  della Magneti Marelli ceduta ad una società giapponese dalla galassia del gruppo Agnelli, ecco partire la cassa integrazione per 910 dipendenti, compresi anche i centri di sviluppo in Italia che avrebbero dovuto rappresentare la garanzia di evoluzione dell’azienda stessa.

    L’allora amministratore delegato del gruppo Marchionne aveva indicato nella quotazione la via migliore per mantenere l’azienda in costante e continuo sviluppo all’interno di un perimetro dell’Automotive in forte e continuo sviluppo. Purtroppo la sua visione è risultata assolutamente disattesa ed inascoltata ed il gruppo torinese con sede legale in Olanda e fiscale a Londra ha ceduto l’azienda  al colosso giapponese Calsonic Kansei .

    Questa operazione ha portato alle casse della Holding Agnelli oltre due miliardi di extra dividendo e conferma ancora una volta il trend degli ultimi vent’anni che ha visto una diminuzione della capacità produttiva della famiglia torinese nel settore auto al 50% ed una diminuzione dei dipendenti del 40%.

    Molto spesso, e a ragione, si attribuiscono le responsabilità del declino economico del nostro paese ad una classe politica incapace di avere una visione futura di sviluppo strategico in ambito economico. Questa deficienza strategica purtroppo nello specifico è attribuibile anche alla classe imprenditoriale italiana (o meglio ad una sua parte, per fortuna) la quale perde il ruolo di traino all’interno del contesto italiano e preferisce accodarsi alla politica delle dismissioni, parallela manifestazione in ambito economico del declino culturale (https://www.ilpattosociale.it/2018/10/24/1987-common-rail-2018-magneti-marelli-le-pericolose-similitudini/).

    Esattamente come avvenne con il common rail (invenzione e relativo brevetto nati in casa Fiat), destinato a rivoluzionare il motore a gasolio e che avrebbe potuto portare il gruppo torinese ai vertici mondiali, così anche in quel caso si preferì la cessione al gruppo Bosch al fine di capitalizzare immediatamente il valore dell’Innovazione. Con questa decisione si persero in un colpo solo il fattore moltiplicatore economico ed occupazionale che tale innovazione avrebbe potuto avere in ambito italiano ma anche il possibile ruolo guida che una società di imprenditori potrebbe e dovrebbe esprimere all’interno del proprio Paese.

    Mai come adesso questa tipologia di imprenditoria italiana rappresenta una delle cause del nostro declino economico.

  • Federchimica invoca la crescita tramite una politica chiara per l’industria

    Negli ultimi quattro mesi 2019 la chimica italiana, secondo i dati diffusi in occasione dell’Assemblea annuale di Federchimica, ha visto la produzione restare ferma sui livelli dell’anno scorso e a inizio 2019, ed il presidente dell’associazione delle imprese di categoria (affiliata a Confindustria), Paolo Lamberti, ha richiamato tutti gli associati, e non solo loro, osservando che «è imperativo tornare a crescere».

    La chimica ‘paga’ contrazione del settore automotive, ma non solo quello; tirano infatti soltanto i consumi non durevoli delle famiglie, come cosmetica, detergenza e chimica destinata all’alimentare. E la flessione non riguarda soltanto il mercato italiano, ma anche l’export (-0,3% in valore nel primo trimestre, -0,6% nel solo mercato europeo che pesa circa per il 60% sulle esportazioni della chimica tricolore)

    «Negli anni recenti la Chimica si è dimostrata tra i comparti che meglio hanno saputo resistere al forte calo della domanda interna, con una quota di produzione destinata all’export che supera il 50%; dal 2010, le esportazioni sono cresciute più di quasi tutti gli altri principali produttori europei» ha osservato Lamberti, prima di proseguire: «Tornare a crescere è imperativo. Sono assolutamente necessarie semplificazione normativa e riforma della Pubblica amministrazione, ambiti dove il divario tra l’Italia e gli altri Paesi è massimo. Sono interventi che non generano debito pubblico e non vanno contro le regole europee, ma serve visione e volontà politica per attuarle. Per crescere abbiamo bisogno di investimenti per la ricerca e sviluppo così come della valorizzazione dei nostri centri di eccellenza per rendere attraente l’Italia per i ricercatori, italiani ed esteri».

    Senza citare direttamente il ministro dell’Ambiente, contrario a simili impianti, Lamberti ha osservato che «non si può pensare di fare a meno dei termovalorizzatori: in Italia ne abbiamo solo 39, mentre sono 126 in Francia e 121 in Germania, due Paesi considerati assolutamente virtuosi da un punto di vista ambientale». Ma più in generale, ha proseguito, «servono politiche stabili e di lungo periodo che favoriscano competitività e innovazione. E’ necessario che la politica industriale torni in cima alle priorità europee: auspichiamo la presenza di un Commissario di rilievo in grado di coordinare una vera politica industriale, che incentivi anche nuove eccellenze, in ambito manifatturiero e digitale».

    Di 56 miliardi di euro il valore della produzione della chimica nello stivale, le 2.800 aziende attive nel settore (con circa 110 mila addetti) fanno dell’Italia il terzo produttore europeo e l’undicesimo al mondo.

     

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