Canada

  • The One and Only Way to Development

    A due anni dalla sua elezione, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con la chiusura del negoziato bilaterale con Messico e Canada, ottiene l’appoggio (inaspettato solo due anni fa) anche dei sindacati per i risultati ottenuti. Va ricordato infatti come la strategia economica dell’amministrazione statunitense  inizialmente si manifestò con una politica di riduzione del carico fiscale per le aziende al fine di incentivare gli investimenti industriali (ma anche quelli in servizi)  all’intero dei confini statunitensi. Gli effetti di questa politica fiscale si manifestarono attraverso aumenti successivi dell’occupazione (effetto degli investimenti delle aziende stesse) fino a conseguire il risultato, al momento attuale, di un tasso di disoccupazione del 3.7%. Considerato al 5% il livello di disoccupazione frizionale (espressioni fisiologica di chi cambia lavoro ed entra nel mondo per la prima volta dal lavoro) questo dato del 3.7% significa piena occupazione.

    Tale incentivazione fiscale ha trovato il pieno appoggio delle aziende le quali infatti risposero attraverso investimenti finalizzati al “reshoring produttivo” da paesi a basso costo di manodopera.

    Lo stesso compianto Marchionne riportò la produzione dei Pick Up Dodge dal Messico negli Stati Uniti mentre molte altre aziende come Wal Mart o JP Morgan e la stessa Apple hanno redistribuito il “vantaggio fiscale” attraverso bonus retributivi per tutti i dipendenti, oppure hanno attivato investimenti che produrranno nuove occasioni di occupazione di medio ed alto contenuto professionale e retributivo.

    Il risultato economico complessivo vede oggi il Pil Usa al +4,2%, nonostante la stretta sui tassi della Fed assorbita dal sistema economico statunitense senza troppi problemi. Ovviamente al di qua dell’oceano Atlantico non si è compresa la valenza economica e soprattutto la dinamica occupazionale, quindi di sviluppo, di tale politica di incentivazione fiscale la quale addirittura se applicata all’intero degli Stati dell’Unione viene intesa come una forma di concorrenza sleale quasi che il principio della concorrenza sul quale si basa il mercato globale non valesse per i singoli Stati, una realtà invece ben chiara all’amministrazione statunitense.

    Allo stesso modo in Europa venne accolta la decisione di rompere il Nafta ed avviare degli accordi bilaterali sempre dalla amministrazione Trump, già sotto accusa, sempre nella “illuminata” Europa, per la politica dei dazi che avrebbe, secondo la nomenclatura europea, affossato il “libero mercato” introducendo una deriva protezionistica. La chiusura definitiva delle trattative con il Canada invece dimostra la visione strategica, economica e di sviluppo che da sempre sottende le scelte, anche controcorrente, della amministrazione americana.

    Innanzitutto nell’accordo tra Stati Uniti e Canada vengono eliminati i dazi del 300%, che gravavano sui prodotti lattiero caseari made in Usa, dimostrando che la difesa ad oltranza dello status quo di certo non rappresenta la tutela del “libero mercato”. In tal senso infatti la dichiarazione del Primo Ministro Trudeau, il quale ha confermato un piano finanziario di sostegno agli allevatori della filiera lattiero casearia canadese, dimostra di fatto l’inesistenza del libero mercato, scelta legittima ma non proprio in linea con le visioni europee. Successivamente, per i prodotti complessi industriali l’accordo prevede ed  impone particolari requisiti perché i veicoli importati negli Usa da Canada e Messico possano essere considerati ‘duty-free’. Questi infatti  devono contenere il 75% di componenti prodotti nei tre Paesi, con un salario dei lavoratori che deve risultare minimo di 16 dollari l’ora.

    Di fatto questa scelta rinnova il concetto di concorrenza (vero mantra dei sostenitori del libero mercato senza regole) tra i vari prodotti espressione dei diversi sistemi economici nazionali.

    Partendo da questi parametri infatti la concorrenza viene spostata sul contenuto tecnico qualitativo ed innovativo, come di immagine, espressione culturale di una filiera produttiva complessa.

    L’indicazione di una soglia minima di retribuzione infatti pone le produzioni dei paesi evoluti (che si manifestano anche attraverso oneri contributivi a tutela degli occupati che in tali aziende operano) parzialmente al riparo da quei prodotti espressione di delocalizzazioni estreme in sistemi industriali privi di ogni tutela per i lavoratori come per i manufatti e quindi di dumping. Mentre nel nostro Paese, come in tutta Europa, si individuano le risposta all’invasione di prodotti espressione di dumping sociale, economico e normativo (sia in termini di sicurezza per i prodotti che per la manodopera) attraverso il concetto infantile legato al semplice aumento della produttività che da sola non può certo sostenere le nostre filiere produttive gravate da oneri contributivi impossibili da compensare con un aumento della produttività.

    La dinamica e l’evoluzione delle trattative relative alla definizione dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Canada dimostrano finalmente la focalizzazione dell’attenzione sulla tutela delle filiere produttive, espressione di un approccio pragmatico e non ideologico all’economia reale che tanto  negli ultimi decenni invece aveva offuscato le strategie economiche dei vari governi occidentali ed in particolare italiano ed europeo.

    L’aver individuato una soglia minima di retribuzione (16$) per ottenere il sistema “duty free” rappresenta una intelligente inversione di approccio alla gestione della concorrenza dei paesi che basano la propria forza esclusivamente sul dumping economico e normativo relativo alla tutela delle produzioni dei prodotti come degli occupati.

    Si apre finalmente una nuova visione attraverso queste scelte di politiche economiche e fiscali che sottendono tale accordo tra Stati Uniti e Canada, da sempre sostenute da chi scrive.

    La tutela delle filiere e la concorrenza possono e devono coesistere in un sistema economico/politico aperto ma, al tempo stesso, che presenti un minimo comune denominatore accettato ed applicato da chiunque operi nel libero mercato. Quindi solo così la concorrenza si può spostare e focalizzare sul contenuto complesso del prodotto e non sulla compressione e, in taluni casi, sull’annullamento dei fattori che concorrono a determinare  il costo del lavoro.

    Tutto il restante mondo economico al di fuori di questi parametri riconosciuti nell’accordo tra Stati Uniti e Canada diventa o, peggio, rimane pura speculazione di sistemi economici basati sul basso costo della manodopera e soprattutto del suo sfruttamento. Quella indicata dall’amministrazione statunitense quindi rimane l’unica via per assicurare un mercato libero basato sulla libera concorrenza in grado di porre il principio della concorrenza imperniato per il confronto tra i diversi  prodotti come  per i servizi sulla base di parametri, quali contenuto innovativo, tecnologico, qualitativo e di immagine. In altre parole si apre una finestra sulla possibilità di redigere un nuovo protocollo che permetta, una volta applicato, la libera concorrenza. Questo accordo di fatto apre una nuova fase sulle politiche per adeguare i protocolli a tutela delle filiere nazionali. La via indicata dall’amministrazione Trump dimostra esattamente quale sia l’unica e la sola via per lo sviluppo.

    The One and Only Way to Development, appunto…

  • Libero scambio: quale modello?

    La libera circolazione delle merci non gravata di alcun tipo di tassazione aggiuntiva rappresenta lo scenario ideale ed ovviamente teorico al quale i vari accordi commerciali tra le diverse realtà economiche e  politiche timidamente tendono ad avvicinarsi. Nel mondo reale infatti la concorrenza non comincia tra prodotti (piuttosto tra filiere produttive), e quindi tra sistemi normativi relativi alla fiscalità, alla tutela del lavoro e della produzione e, ultimamente, anche alla sostenibilità. Questi sistemi si confrontano poi attraverso i prodotti (e le filiere), e quindi  la sola ricerca di un aumento della produttività non può certamente compensare i dumping sociali, fiscali ed economici tra Paesi evoluti ed in via di sviluppo. Una delle ricette più banali proposte da oltre quindici anni dal mondo accademico italiano per combattere l’invasione di prodotti a basso costo provenienti dai Paesi del Far East.

    In questo contesto così articolato di un mercato globale che pone in concorrenza beni di consumo ed intermedi, espressione di culture e normative assolutamente diverse tanto diventare esse stesse fattori competitivi, recentemente si è innescata una nuova situazione politica ed economica con  l’esito del referendum in Gran Bretagna relativo all’uscita dall’Unione stessa. La gestione della Brexit infatti rappresenta una nuova opportunità in relazione alle politiche commerciali di libero scambio che vede contrapposte l’Unione Europea alla Gran Bretagna. Il punto d’arrivo dichiarato all’Unione stessa può venire indicato in due obiettivi: il  primo relativo ad un accordo di libero scambio, quindi con zero quote, zero tariffe, ed un secondo, forse ancora più qualificante, relativo al riconoscimento delle oltre tremila specificità o, meglio, tremila indicazioni geografiche per le quali l’Europea chiede la protezione all’interno del mercato britannico.

    In questo ambito la posizione dell’Italia è assolutamente preminente in quanto quasi un terzo (935) di queste protezioni richieste rappresenta appunto l’indicazione di prodotti italiani che vanno dal prosecco al parmigiano reggiano. Questo punto rappresenta una scelta molto qualificante, e potremmo aggiungere assolutamente tardiva, da parte della Unione Europea. In questo senso, infatti, vanno ricordate le critiche che vennero altrettanto giustamente mosse all’accordo relativo e flussi commerciali tra Unione Europea e Canada (il Ceta) all’interno del quale la tutela delle specificità geografiche italiane si fermò al misero numero di quarantatre. In altre parole nel Ceta hanno trovato una propria tutela  poco più del 4% di quei prodotti espressioni della specificità geografica e culturale italiana che invece rappresentano l’obiettivo attuale nella trattativa con la Gran Bretagna. Nella scelta della trattativa tra Gran Bretagna ed Unione Europea la tutela del prodotto inteso come il risultato finale di una filiera produttiva, e quindi espressione contemporanea della cultura di un determinato Paese, pare abbia trovato finalmente una propria espressione e tutela.

    Tornando quindi agli obiettivi raggiungibili in riferimento al Ceta, tutte le critiche risultarono assolutamente corrette e nulla avevano a che fare, come qualcuno disse, in base ad una contrarietà culturale con gli accordi relativi ai flussi commerciali ed al libero mercato. Quest’ultimo rappresenta certamente un traguardo che indica una direzione più che un punto da raggiungere.

    Tale direzione può essere indicata ancora meglio non attraverso l’omogeneizzare delle diverse espressioni culturali che i prodotti esprimono ma fornendo una tutela aggiuntiva a quella nazionale per offrire successivamente la possibilità al consumatore di scegliere liberamente attraverso il proprio acquisto.

    In fondo la semplice condizione  per rendere un libero mercato viene rappresentata dalla conoscenza e quindi dalla certificazione della filiera produttiva.

  • Un appel a la candidature pour 400 bourses d’études Canadienne au titre de l’année académique 2018-2019

    Par l’intermédiaire de la direction régional des bourses étrangères canadienne, le secrétariat d’état a l’étude et a la recherche de l’Université Laval lance un appel a la candidature pour 400 bourses d’études Canadienne au titre de l’année académique 2018-2019. Ces bourses sont destinées aux ressortissants des pays de la catégorie A (pays industrialisés européens, et extra-européens) et ceux des pays de la catégorie B (pays en développement, du tiers monde et extra -européens) elles doivent leur permettre de poursuivre leurs études, de parfaire leurs connaissances pour les travaux de recherches dans les domaines auxquels l’Université Laval accorde une attention particulière.
    SPÉCIFICITÉ DE LA BOURSE:
    – L’Université Laval entend faciliter l’immigration aux persone désireuses de Poursuivre leurs études et d’obtenir des diplômes d’état canadienne.
    – Les candidats retenus au terme de la sélection de candidatures seront insérés outre leur étude dans les secteurs sensibles de la vie économique et sociale du Canada: (santé, droit, diplomatie, communication,
    finance, énergie, industrie, transport, agriculture…). Cette option de l’Université Laval vise a  donner une aptitude professionnelle aux boursiers pour pouvoir travailler s’ils le désirent au Canada a la fin de leur formation.
    DURÉE DE LA BOURSE:
    Les bourses couvrent la période d’un cycle de formation ou au maximum six (06) semestres voir plus.
    FRAIS DE VOYAGE:
    Les billets d’avion aller-retour (Provenance – Canada/ Québec), sont pris en charge par la direction régional des bourses étrangères canadienne. Conditions préalables a la candidature en règle générale, les candidats aux bourses étrangères Canadienne doivent:
    – Avoir au maximum 18 ans a 64 ans;
    – Comprendre et parler correctement l’une des langues d’enseignement au Canada (Anglais, Français, Espagnol, Allemand, Italien);
    – Avoir un diplôme équivalent au brevet d’étude de premier cycle d’enseignement, au baccalauréat ou au brevet d’aptitude professionnelle des pays de l’union européenne.
    PROCÉDURE DE SÉLECTION:
    Retirer auprès de la commission fédérale des bourses étrangères Canadienne(CFBEC) le formulaire de demande de bourse via leur adresse E-mail: univ.ulaval@secretary.net
    * La commission fédérale des bourses étrangères fera étudier votre dossier par la représentation délégué de votre zone et catégorie de pays.
    * Les candidats retenus recevront une attestation du secrétariat d’état a l’étude et a la recherche pour notification de la bourse. Les candidats désireux de participer aux bourses d’études 2018-2019 doivent écrire a cet e-mail pour retirer le formulaire a ce mail: univ.ulaval@secretary.net

     

  • L’atteggiamento non amichevole di Trump al G7 in Canada

    L’atteggiamento inusuale di Trump, che alla riunione del G7 di Malbaie in Canada rifiuta di firmare il documento conclusivo sul commercio internazionale, dopo averlo discusso con gli altri sei partner e abbandona la riunione prima del tempo previsto per recarsi all’incontro a Singapore con il presidente della Corea del Nord, lascia esterrefatti i leader partecipanti e solleva qualche interrogativo. Perché un simile atteggiamento che prefigura una rottura? Quali insegnamenti trarre dall’unilateralismo di Trump? Va condannato senza appello come una violazione della fiducia tra alleati? Che cosa rappresenta veramente questo inalberarsi di un attore imprevedibile e senza disciplina?

    “Si può ipotizzare che l’unilateralismo del presidente americano rappresenti simultaneamente un rifiuto del multilateralismo come metodo di negoziato paritario e un riaffiorare del concetto di sovranità, come esercizio del potere egemonico e incarnazione post moderna di un soggetto che “decide in situazioni eccezionali”. Situazioni nelle quali traggono origine dei conflitti che non possono essere decisi né attraverso negoziati, né attraverso il ricorso a norme (quelle dell’OMC ad es.), e tanto meno attraverso l’intervento di un terzo non impegnato (Putin, in questo caso)”. (Irnerio Seminatore, direttore dell’Istituto europeo di relazioni internazionali di Bruxelles). Il quale continua: “Il potere di ritiro esercitato da Trump appare d’un colpo come illuminante, poiché procede politicamente da una indifferenza sovrana alla logica degli Stati rappresentativi e non si riconosce per niente in un obbligo multilaterale. Così la legalità e l’ordinamento giuridico delle istituzioni sopra-nazionali non costituisce il fondamento e nemmeno l’origine della legittimità di una decisione. L’unilateralismo di Trump restaura non solamente la soggettività politica della sovranità, ma la corrente della diplomazia neo realista, che si oppone ai paradigmi della tradizione democratica, espressi dalla “volontà generale” di Rousseau, l’unità politica del popolo e la finzione dello Stato di diritto.” Questo unilateralismo traduce in realtà la volontà di potenza di uno Stato dominante e la scelta razionale e intuitiva di un decisionista bonapartista, che impone nuove regole del gioco. Rappresenta anche una rottura della tradizione liberale che si situa al di fuori di ogni sistema convenzionale e normativo. Si tratta, in fondo, dell’attualizzazione dello “stato d’eccezione”, come rottura dettata dall’interesse nazionale degli Stati Uniti, di fronte alla minaccia nucleare di Kim Jong-Un e allo sconvolgimento geopolitico del centro di gravità strategico della scena planetaria”. Tutto ben detto. E’ un’analisi colta questa di Seminatore! E’ il tentativo di interpretare il gesto di Trump secondo i parametri della politologia ed i principi della diplomazia. Il tentativo è lodevole, ma forse inutile. Più che di politologia e di diplomazia si tratterebbe di psicologia e di psicoanalisi. Le risposte sarebbero molto più chiare e gli insegnamenti da trarre avrebbero a che fare con il carattere e l’educazione del personaggio in questione che, è facile riconoscerlo, non sono proprio tra i migliori. Ciò non vuol dire che le conseguenze non siano da vituperare, anzi! L’Europa non può farsi bistrattare in questo modo ed i cattivi caratteri che non la rispettano devono essere trattati per quel che meritano, nelle forme e nel rispetto dei sacrosanti principi della diplomazia.

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