guerre

  • Similes cum similibus congregantur

    Ancora una volta gli Stati Uniti tolgono munizioni e sistemi di difesa all’Ucraina mentre Putin aumenta, con una continua violenta escalation, la sua sciagurata guerra.

    Non c’è molto da dire, l’hanno già detto gli antichi: similes cum similibus congregantur.

    E cioè i simili vanno con i loro simili, Trump e Putin sono uomini di violenza e d’affari, il loro unico fine è il potere e non hanno nulla a che vedere con il rispetto di regole o diritti internazionali, con i diritti dell’uomo o con la giustizia.

    Noi dobbiamo tutti subire di fronte ai signori della guerra, la guerra delle armi o dei dazi, delle menzogne o dei ricatti, degli affari di pochi contro il diritto dei molti, questa è la realtà, possiamo criticarla ma dobbiamo subirla perché lentamente abbiamo lasciato ad un pugno di uomini nel mondo il diritto e la forza di decidere per tutti.

    Subire o ribellarsi? Occorrerebbe avere almeno gli attributi necessari ma tutti teniamo famiglia, i nostri interessi, piccoli ma sempre interessi, e siamo ormai troppo abituati al nostro smartphone, ai giochini, ai social, al Grande Fratello, all’Isola dei famosi, alle coglionate che ci propinano e che alla fine ci piacciono perché ci distraggono dalla realtà, dal dover prendere posizione.

    Perciò diamoci pace, prima moriranno gli ucraini e poi tutti gli altri, noi compresi, fatto salvi quegli utili idioti che servono al potere, chi vuole si dia pace io continuerò a sostenere l’Ucraina anche con piccoli gesti quali non comperare nulla di russo, americano o cinese e ad augurarmi che il Kim Jong-un della Corea del Nord affoghi nel suo grasso.

  • Dietro lo scontro tra Congo e Rwanda la competizione tra superpotenze per le risorse minerarie

    L’escalation dei combattimenti tra le Forze armate congolesi (Fardc) e i ribelli del Movimento 23 marzo (M23) nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), e in particolare nella provincia del Nord Kivu, ha riacceso il mai sopito conflitto regionale che affonda le sue radici nel genocidio del Ruanda del 1994, ma che trae origine dalla lotta per il controllo e lo sfruttamento delle risorse minerarie di cui la regione è ricca, a cominciare dal cobalto. I ribelli M23, sostenuti dal Ruanda, hanno infatti rivendicato il controllo della città strategica di Goma, capoluogo del Nord Kivu, fulcro di una regione che contiene migliaia di miliardi di dollari di ricchezze minerarie ancora in gran parte inutilizzate. Il gruppo – che è una delle oltre 100 fazioni armate che lottano per un punto d’appoggio nel Congo orientale – è composto principalmente da combattenti di etnia tutsi che non sono riusciti a integrarsi nell’esercito congolese, e che già nel 2012 guidarono un’insurrezione fallita contro il governo di Kinshasa, per poi restare dormienti per un decennio, fino alla ripresa delle attività ostili a Kinshasa nel 2022.

    Tra il 1996 e il 2003 la regione è stata al centro di un conflitto prolungato soprannominato “la guerra mondiale dell’Africa”, che causò la morte di circa 6 milioni di persone, mentre gruppi armati combattevano per l’accesso a metalli e minerali di terre rare come rame, cobalto, litio e oro. In un mondo che fa sempre più affidamento sui metalli e sui minerali rari, per via della crescente importanza che questi rivestono nella rivoluzione tecnologica e nella transizione “verde”, la posta in gioco è ora aumentata, così come gli interessi dei vicini Ruanda e Uganda, ma anche delle grandi potenze come Stati Uniti e Cina.

    Secondo il dipartimento del Commercio Usa, la Rdc è il principale produttore mondiale di cobalto (si stima che fornisca circa il 70% della produzione mondiale), un elemento essenziale per la produzione di batterie dei veicoli elettrici. Ciò nonostante, la maggior parte delle risorse minerarie del Paese – il cui valore è stimato in 24mila miliardi di dollari – resta inutilizzata. Inoltre, soltanto una minima parte della ricchezza prodotta dallo sfruttamento dei minerali è finora stata convogliata alla popolazione congolese, di cui il 60% vive al di sotto della soglia di povertà.

    La Rdc è il più grande produttore di cobalto al mondo con una produzione che si è attestata a 130mila tonnellate nel 2022, ovvero quasi il 70 per cento del cobalto prodotto a livello mondiale. Il Paese è anche il quarto produttore di diamanti industriali, con una produzione di 4,3 milioni di carati, mentre non dispone attualmente di miniere di litio attive, anche se sono in fase di sviluppo diversi progetti, tra cui quello relativo allo sfruttamento della miniera di Manono-Kitolo, che in passato produceva stagno e coltan fino alla sua chiusura, avvenuta alla fine del 1982. Il Congo vanta alcune delle riserve di rame di qualità più elevata al mondo, con alcune miniere che si stima contengano gradi superiori al 3 per cento, significativamente più alti della media globale, pari allo 0,6-0,8 per cento. Anche il settore dell’oro della Rdc sta assistendo a un rinnovato interesse da parte delle società minerarie, e nel 2021 la produzione di risorse minerarie è aumentata da 10 mila a quasi un milione di tonnellate.

    È in questo contesto che va inquadrato il conflitto in atto nel Nord Kivu, che ha conosciuto una significativa recrudescenza nelle ultime settimane con l’arrivo a Goma dei ribelli M23, sostenuti militarmente e finanziariamente dal Ruanda. L’offensiva dell’M23 sembra seguire una logica chiara, vale a dire il controllo sulle risorse naturali della regione: oro, cassiterite, coltan, cobalto e diamanti. Dopo aver inizialmente conquistato vaste aree delle regioni di Rutshuru e Masisi, i ribelli si stanno ora spostando verso l’area di Walikale, nota per la sua significativa produzione di coltan, un minerale strategicamente importante per la transizione energetica. Per queste ragioni, la crisi interessa da vicino le due grandi superpotenze globali, gli Stati Uniti e la Cina, e s’intreccia con il grande progetto infrastrutturale noto come Corridoio di Lobito, il maxi progetto ferroviario lungo 1.300 chilometri – finanziato dagli Stati Uniti e dall’Unione europea – che mira a collegare i bacini minerari della Rdc allo Zambia e al porto angolano di Lobito, sull’Oceano Atlantico. Un progetto che, nelle intenzioni di Washington, punta ad essere la risposta alla Nuova via della seta cinese (Belt and road initiative, Bri).

    In questo contesto, appare significativo il fatto che di recente Molly Phee, ex assistente del segretario di Stato per gli Affari africani sotto l’amministrazione Biden, abbia affermato che gli Usa avrebbero proposto – senza successo – di coinvolgere anche il Ruanda nello sviluppo della maxi infrastruttura ferroviaria, in cambio del ritiro del proprio sostegno ai ribelli M23. “Avevamo proposto a entrambe le parti (Ruanda e Congo) che, se fossimo riusciti a stabilizzare la Rdc orientale, avremmo potuto lavorare allo sviluppo di una diramazione dal Corridoio di Lobito attraverso la Rdc orientale. (I ruandesi) non hanno permesso quell’azione”, ha detto Phee in un’intervista rilasciata ai media internazionali prima della fine del suo mandato. “Abbiamo cercato di offrire incentivi positivi. Esiste un quadro autentico, fondamentalmente negoziato dalle parti, e al momento il Ruanda sembra essersi tirato indietro”, ha aggiunto. Secondo la diplomatica statunitense, l’offerta includeva anche una stretta sulle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), il gruppo ribelle hutu ruandese attivo nel Congo orientale dal genocidio del 1994, ritenuto fuorilegge dal governo di Kigali. Al contrario, nel settembre scorso il governo ruandese ha preferito siglare un importante accordo che prevede la costruzione di una ferrovia a scartamento standard che collegherà il porto di Isaka, in Tanzania, alla capitale ruandese, Kigali.

    Le abbondanti risorse naturali presenti nel sottosuolo congolese hanno finito per globalizzare il conflitto nella Rdc orientale. Mentre un tempo le aziende statunitensi possedevano vaste miniere di cobalto in Congo, negli ultimi anni la maggior parte di esse è stata venduta a società cinesi, tanto che il “South China Morning Post” descrive il Paese come “l’epicentro degli investimenti cinesi in Africa”. L’ascesa della Cina nell’industria estrattiva del cobalto della Rdc è stata causata dalla significativa diminuzione degli investimenti statunitensi. Nel 2016, ad esempio, la società mineraria dell’Arizona Freeport-McMoRan ha venduto Tenke Fungurume – un sito di estrazione di rame e cobalto – alla China Molybdenum Company. Nel 2020, inoltre, la Freeport-McMoRanha effettuato un’altra vendita di un sito di rame e cobalto non sviluppato alla China Molybdenum Company. In entrambi i casi, le uniche aziende con offerte competitive erano aziende cinesi. Le principali imprese di Pechino che operano nel Paese includono Chengtun Mining, China Molybdenum, China Nonferrous e Huayou Cobalt. Secondo l’Istituto di studi strategici (Ssi) dello Us Army War College, le imprese statali e le banche cinesi controllano l’80 per cento della produzione totale di cobalto congolese, e delle dieci miniere più grandi al mondo, nove si trovano nella regione del Katanga, nel sud della Rdc: di queste, la metà è di proprietà di aziende cinesi. Anche nella raffinazione del cobalto la posizione delle imprese statali cinesi è dominante: le loro raffinerie rappresentano tra il 60% e il 90% della fornitura globale. Inoltre, il 67,5% del cobalto raffinato della Cina proviene dalla Rdc.

    Secondo il Council on Foreign Relations (Cfr), think tank statunitense specializzato in politica estera e affari internazionali, le società collegate alla Cina controllano tuttora la maggior parte delle miniere di cobalto, uranio e rame di proprietà straniera nella Rdc e l’esercito congolese è stato ripetutamente schierato nei siti minerari nell’est del Paese per proteggere le aziende cinesi. La Cina è inoltre pienamente coinvolta nel conflitto interno nell’est della Rdc e nella sua economia: il governo congolese sta infatti combattendo i ribelli M23 con l’aiuto di droni e armi cinesi, e la vicina Uganda – schierata al fianco del governo di Kinshasa – ha acquistato armi cinesi per svolgere operazioni militari all’interno dei confini congolesi. Gli accordi che Pechino ha negoziato con la leadership congolese, in particolare durante la presidenza di Joseph Kabila, hanno aiutato le aziende cinesi a garantire un accesso senza precedenti ai metalli che consentono loro di produrre in serie elettronica e tecnologie per l’energia pulita.

    Il predominio della Cina nella filiera del cobalto è il risultato degli investimenti di Pechino nelle miniere della Rdc e di quelli a lungo termine nelle infrastrutture di trasporto nei Paesi circostanti, come Tanzania e Zambia. È il caso dell’accordo siglato nel settembre scorso con i governi di Dodoma e Lusaka per ristrutturare e ammodernare la vecchia ferrovia Tanzania-Zambia (Tazara), lunga 1.860 chilometri e che collega la città zambiana di Kapiri Mposhi al porto tanzaniano di Dar es Salaam. Un’intesa che rientra pienamente nell’ambito dell’Iniziativa Nuova Via della seta cinese. La linea ferroviaria fu costruita tra il 1970 e il 1975 grazie a un prestito non oneroso della Cina, offrendo una rotta per il trasporto merci dalle miniere di rame e cobalto dello Zambia alla costa tanzaniana, aggirando così il Sudafrica e l’ex Rhodesia (l’attuale Zimbabwe). La ferrovia attualmente esporta cobalto e altri minerali dallo Zambia e, in futuro, potrebbe essere un modo importante per le aziende cinesi di estrarre cobalto dalla regione del Katanga meridionale, nella Rdc, e di trasportarlo fino a Dar es Salaam. Nel febbraio 2024 Pechino ha peraltro annunciato l’intenzione di spendere fino a un miliardo di dollari per modernizzare la ferrovia Tan-Zam, in cambio del suo controllo operativo, il che potrebbe aumentare esponenzialmente le esportazioni di minerali essenziali verso la Cina.

    Qualcosa, tuttavia, sembra essere cambiato con l’ascesa al potere a Kinshasa del presidente Felix Tshisekedi, subentrato a Kabila nel 2019. In quello stesso anno la Rdc ha stretto un accordo di cooperazione militare con gli Stati Uniti, che prevedeva tra le altre cose l’addestramento di ufficiali congolesi negli Usa. Nel 2023 il governo di Kinshasa ha inoltre chiesto e ottenuto la rinegoziazione di un accordo da 6 miliardi di dollari siglato nel 2008 con Pechino, ritenuto troppo svantaggioso per il Paese africano. L’anno dopo, nel 2024, gli Stati Uniti hanno sanzionato i ribelli dell’Alleanza del fiume Congo (Afc), della quale fa parte l’M23, accusati di voler rovesciare il governo di Kinshasa e di alimentare il conflitto nell’est del Paese africano. Un mese dopo, Tshisekedi ha apertamente accusato il suo predecessore, Kabila, di appoggiare i ribelli con l’obiettivo di “preparare un’insurrezione”.

    L’idea che proprio di un’insurrezione si tratti sembra essere confermata in questi giorni dal leader dell’Afc, Corneille Nangaa, che ha chiarito che l’offensiva non si fermerà a Goma e che l’obiettivo finale è Kinshasa. L’avanzata ribelle, insomma, sembra voler impedire a Tshisekedi un possibile riavvicinamento a Washington, con tutto ciò che ne consegue in termini di sfruttamento dell’immenso potenziale minerario del Paese. Il Ruanda, che di questo tentativo appare il manifesto regista, potrebbe invece aver trovato una importante sponda internazionale in Pechino. I due Paesi hanno di recente elevato le relazioni al rango di partenariato strategico lo scorso settembre e a dicembre, durante una visita a Doha, Kagame ha elogiato pubblicamente il ruolo della Cina in Africa. “È una relazione senza le tante condizioni poste da altri Paesi del mondo, da cui riceviamo tanto in termini di lezioni e poco in termini di valore”, ha detto

  • Un augurio, una preghiera, una promessa

    Molti seguono le vicende legate alla salute del Papa come un importante fatto di cronaca di portata internazionale, altri perché interessati ad un eventuale nuovo conclave, troppi sperano nelle dimissioni di Francesco.

    La maggior parte delle persone, invece, segue le notizie della malattia del Papa sperando in una sua rapida guarigione, tanti gli sono vicini con una preghiera perché Francesco ha saputo toccare il cuore e la mente di chi è capace di empatia e assetato di giustizia.

    Viviamo anni molto difficili, la tecnologia sta uccidendo l’umanità, la capacità di sedare la nascita di conflitti, attraverso mediazioni e dialogo, che avevamo imparato nel secolo scorso, dopo due guerre mondiali, più che assopita sembra cancellata dall’irrefrenabile desiderio di imperialismo che è ormai comune a dittature e ad alcune democrazie.

    Non c’è molto di nuovo, la parte violenta e malvagia dell’essere umano prima o poi rispunta, il diavolo non ha le corna ma spesso si presenta con vestiti firmati, ricchezze spropositate, potere immenso, fascino persuasivo, non tutti sono capaci di resistere alle sirene del potere, alla gratificazione di essere considerati da chi è più forte.

    Il diavolo non ha le corna ma è presente nella violenza degli spacciatori di droga, nei trafficanti di esseri umani, nel bullismo, nella negazione della vita e della dignità dell’altro.

    Il male è nelle parole di coloro che, forti della loro posizione, possono scatenare guerre, o dichiarare che è colpevole chi è stato invaso e non chi ho invaso il territorio altrui.

    In questa epoca difficile, dove il mondo sembra rovesciato perché troppo spesso trionfa la verità di parte e non la realtà nella sua evidenza, la presenza di Papa Francesco è un punto di riferimento, tiene viva la speranza, fa sentire tutti coloro che si riconoscono nel proprio prossimo, anche i più deboli ed umili, che non si è soli, che comunque vale la pena di credere, di spendersi per una società di valori e di principi condivisi.

    Un augurio, una preghiera, una promessa.

  • Apple accusata di usare minerali provenienti da zone di conflitto

    La Repubblica Democratica del Congo ha denunciato le filiali del colosso tecnologico Apple in Francia e Belgio accusandole di usare minerali in zone di conflitto. Agendo per conto del governo congolese, gli avvocati hanno sostenuto che Apple è complice di crimini commessi da gruppi armati che controllano alcune delle miniere nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. La società statunitense ha affermato di “contestare fermamente” le affermazioni e di essere “profondamente impegnata nell’approvvigionamento responsabile” di minerali.

    Le autorità in Francia e Belgio esamineranno se ci sono prove sufficienti per proseguire con l’azione legale.

    In una dichiarazione, gli avvocati della Repubblica Democratica del Congo hanno parlato della contaminazione della filiera di Apple con “minerali del sangue”. Affermano che lo stagno, il tantalio e il tungsteno vengono prelevati da aree di conflitto e poi “riciclati attraverso filiere di fornitura internazionali, sottolineando che queste attività hanno alimentato un ciclo di violenza e conflitti finanziando milizie e gruppi terroristici e hanno contribuito al lavoro minorile forzato e alla devastazione ambientale. Apple ha respinto le accuse affermando di mantenere i suoi “fornitori ai massimi standard del settore”.

    L’est della Repubblica Democratica del Congo è una delle principali fonti di minerali e la sete globale di questi minerali ha alimentato guerre per decenni.

    I gruppi per i diritti umani hanno a lungo affermato che grandi quantità di minerali provenienti da miniere legittime, così come da strutture gestite da gruppi armati, vengono trasportate nel vicino Ruanda e finiscono nei nostri telefoni e computer.

    In passato, il Ruanda ha descritto l’azione legale del governo congolese contro Apple come una trovata mediatica, negando di aver venduto minerali di aree di conflitto alla società tecnologica.

  • Tra sogni e realtà alla fine del 2024

    Erdogan sogna l’impero ottomano e qualche passo in avanti sembra lo abbia fatto vista la nuova realtà siriana, i suoi sempre buoni, e reciprocamente interessati, rapporti con il mondo occidentale e le diverse situazioni nelle quali è stato e sarà almeno coprotagonista di livello.

    Putin sogna una grande Russia sempre più imperiale e ha fatto qualche passo indietro visto che dopo quasi tre anni non ha sconfitto l’Ucraina mentre la Georgia e la Moldavia sognano, anche con coraggio e rischio in piazza, l’Europa, il suo amico Lukashenko ha dichiarato che sceglierà lui, e non lo zar, i siti dove piazzerà le armi russe, il Kazakistan non ha aderito all’alleanza militare con la Russia ed alcune repubbliche ex sovietiche e, come ultimo atto di un periodo nel quale ha sacrificato 700.000 russi, morti sul campo, è costretto ad ospitare il sanguinario Bashar al Assad e cercare di mettersi d’accordo con Al Jolani, il nuovo capo siriano, ed Erdogan  per non perdere le sue basi in Siria.

    Gli Stati Uniti sognano di tornare ad essere ancora di più centrali nella soluzione della guerra in medio oriente e in Ucraina e di ottenere che i paesi europei aumentino gli stanziamenti militari, intanto devono fare i conti con l’immigrazione, la violenza interna e la sempre più attiva concorrenza del mondo asiatico, insomma problemi e confusioni.

    L’Iran, che sognava di dare vita ad una specie di guerra che avrebbe dovuto riunire il mondo arabo, vede cadere invece il suo alleato siriano e indebolito Putin, altro alleato all’insegna del vecchio detto: chi è nemico del mio nemico è mio amico.

    Israele sogna di poter vivere senza dover continuare a difendersi e a piangere morti ed ostaggi, uno stato, una nazione riconosciuta e rispettata da tutti e che finisca nel mondo quell’antisemitismo mai sopito e che si è risvegliato quasi ovunque.

    Tutte le persone normali, se normali è un termine che si può ancora usare, sognano che la Palestina diventi uno stato libero indipendente e senza terroristi, che il terrorismo sia sconfitto ovunque si annidi.

    L’Unione Europea non sa esattamente cosa sognare perché una gran parte degli Stati e dei cittadini dell’Unione vorrebbero finalmente e velocemente realizzata quell’Unione politica e militare, della quale si parla da decenni inutilmente, mentre l’opposizione di Orban e l’indecisione di qualche altro crea una eterna situazione di stallo dovuta al voto all’unanimità in Consiglio. L’Europa dovrebbe non sognare ma agire modificando finalmente quella parte dei trattati che la condannano ad essere ininfluente politicamente e ormai debole anche sul piano commerciale.

    Il continente africano, in alcune aree terra di conquista cinese ed in parte russa, in altre violentato dal terrorismo e messo a dura prova dalle carestie e dalle povertà, sogna governi più attenti alle necessità dei popoli e capaci di dare sviluppo reale a territori che, pur essendo in molti casi ricchi di grandi risorse, necessitano di strutture ed infrastrutture costruiti senza contratti capestro siglati con i paesi più sviluppati.

    La Cina non sogna perchè non ne ha bisogno, il presidente Xi Jinping ha ancora una volta le carte in mano per poter giocare le partite che sono più utili al Dragone, le sue zone di influenza, politica e commerciale, il grande salto tecnologico fatto in tutti i campi, le ricchezze dovute non solo alle terre rare e le debolezze altrui le consentono di misurarsi con tutti da una posizione dominante.

    Noi vorremmo sognare, ci sforziamo di farlo ma non è così semplice!

  • Le sfide che attendono Trump

    Il dittatore nord coreano Kim Jong Un non è un pazzo e non lo è mai stato. Piuttosto, ha sempre e volutamente lasciare che altri lo pensassero come squilibrato e irrazionale. Prevedere il comportamento di una persona razionale è relativamente facile e nel trattare con lui si usa lo stesso linguaggio e si parte dalle stesse premesse logiche. Se, invece, si ha a che fare con una persona imprevedibile occorre essere eccezionalmente prudenti nei propri comportamenti, se non altro per evitare che illogici scatti d’ira possano essere seguiti da reazioni incontrollate. Con tutti i rischi che ciò comporterebbe. Tutto ciò a Kim faceva gioco.

    Premesse le sicure differenze e la diversa scala su cui agisce, anche Donald Trump ha saputo usar la stessa tattica in tutti questi anni. Alcune sue sparate erano e sono, oggettivamente, inverosimili o almeno irrazionali. Sembrano piuttosto spacconate. Ad esempio la volontà di applicare dazi al 100% su tutte le merci cinesi o di non voler più rispettare l’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica. Da imprenditore quale è sempre stato, il tycoon è sicuramente presuntuoso ma non è affatto stupido e conosce bene le possibili conseguenze, negative per il suo stesso Paese, dell’applicazione di idee come quelle sopra enunciate. Proprio come un qualunque imprenditore e buon venditore davanti alla controparte usa, all’occorrenza e alternativamente, bastone e carota. Suscitando in chi ha di fronte il dubbio di una sua imprevedibilità, spesso ottiene risultati che con un dialogo semplicemente razionale non avrebbe potuto perseguire.

    Un esempio riuscito della sua tattica sta nella richiesta perentoria agli alleati membri della Nato di aumentare almeno al 2% del PIL le proprie spese per la difesa. Inoltre, ha richiesto loro di organizzarsi, pur rimanendo dentro la Nato, per provvedere in gran parte autonomamente alla propria difesa. Prima di lui ci avevano già provato altri Presidenti, sia democratici che repubblicani, ma con nessun risultato concreto. Trump invece c’è riuscito: quasi tutti i Paesi europei hanno già raggiunto (qualcuno l’ha superato) il 2% e l’Unione, pur continuando ad essere politicamente divisa, sta cercando un qualche modo per razionalizzare e uniformare le proprie spese in armamenti. Naturalmente, la parte del leone la faranno pur sempre le armi americane.

    La sua parola d’ordine sventolata in campagna elettorale è stata quella di aumentare i dazi di importazione da tutti i Paesi che vantano un avanzo commerciale verso gli Stati Uniti. Ovviamente qualcosa dovrà fare verso questa direzione, se non altro per dare l’impressione ai propri elettori di mantenere gli impegni elettorali, ma, come ogni venditore di tappeti, chiederà 100 per ottenere 10 o, se sarà bravo e fortunato e gli interlocutori si lasceranno intimidire, almeno 20. Tuttavia, non può sottovalutare, proprio perché uomo di impresa, che un aumento generalizzato di tariffe di importazione avrà come prima conseguenza un aumento dell’inflazione interna e come seconda l’incremento delle stesse importazioni, più care, tramite Paesi terzi.

    Le due sfide più grandi che lo attendono sono però la guerra in Medio Oriente e quella in Ucraina. A Netanyahu ha detto di “completare il lavoro” fino alla distruzione di Hamas e, per quanto riguarda l’Ucraina, ha promesso di porre fine al conflitto in pochi giorni.

    Indubbiamente nessuno ancora riesce ad immaginare come pensa di risolvere i due casi ma qualunque osservatore di politica internazionale può constatare che la situazione del Medio Oriente è talmente complicata che nemmeno Kissinger avrebbe saputo cosa proporre per pacificarla. Israele è molto divisa al proprio interno e una grande frangia della popolazione pensa di avere il diritto su tutta la terra che va dal mare al Giordano. Cosa succederebbe ai milioni di palestinesi che attualmente vi abitano considerato che né Giordania né Egitto né Siria possono permettersi (né lo vogliono) di assorbirli? Non va nemmeno dimenticato che l’ultima Legge Fondamentale voluta da Netanyahu e dai suoi fanatici alleati statuisce che Israele è la terra degli ebrei e, di conseguenza, chiunque non lo sia è, se va bene, al massimo tollerato. Anche la soluzione che tutti invocano e che sembrerebbe la più ovvia, quella dei due Stati, non è più, se mai lo è stata, di semplice applicazione. Settecentomila sono attualmente i coloni abusivi presenti in Cisgiordania e ogni giorno aumentano. Come sarà possibile scacciarne almeno una gran parte per consentire la nascita di uno stato palestinese? Si inizia una guerra civile? E a Gaza? La militanza di Hamas può anche essere ridotta ai minimi termini ma le morti e le distruzioni causate dallo IDF hanno sicuramente aumentato la diffusione dell’odio contro Israele e i suoi abitanti.

    La questione Ucraina sembra apparentemente più semplice ma così non è. Certamente si dovrà negoziare con Putin anche abbandonando al suo destino la “marionetta impazzita” Zelensky, ma quali possono essere la basi su cui incontrarsi? La Russia sta vincendo sul campo di battaglia e le ultime autorizzazioni di Biden in merito all’uso di armi americane verso l’entroterra russo non cambieranno le sorti del conflitto, salvo innescare una guerra più ampia che potrebbe diventare mondiale. Mosca potrebbe essere disponibilissima a qualche trattativa ma ci sono punti cui non potrebbe rinunciare in nessun modo: l’Ucraina non dovrà mai entrare nella Nato, l’esercito ucraino dovrà diventare quasi inoffensivo e Donbass e Crimea devono restare russi. Ovviamente, se gli Stati Uniti, primi attori di questo conflitto, accettassero queste condizioni, la guerra potrebbe finire immediatamente ma tutto il mondo leggerebbe tale esito come una sconfitta dell’Occidente. L’unica maniera per salvare la faccia, se pur parzialmente, sarebbe di annunciare l’immediato ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea. Ne applaudirebbero non solo gli Stati Uniti ma anche Russia e Cina perché l’ingresso di Kiev nell’Unione significherebbe, per motivi economici e politici, la fine del sogno di una Europa politicamente più integrata e quindi le grandi potenze potrebbero continuare a negoziare da posizione di forza con i singoli staterelli dell’Europa.

    A completamento di quanto sopra e considerate le difficoltà fin qui enunciate (e non sono certo tutte quelle sul tavolo) che Trump si troverà ad affrontare, non si può tacere che gli ostacoli maggiori potranno nascere all’interno degli stessi Stati Uniti. Molti Presidenti statunitensi hanno tentato di cambiare la politica estera del Paese ma i loro sforzi sono spesso falliti a causa di una inerzia onnipresente in tutte le strutture pubbliche ben consolidate di ogni Paese. Carter aveva deciso nel 1977 di ritirare le forze americane presenti in Corea del Sud e non ci riuscì. Obama annunciò di voler chiudere Guantanamo nel 2009 ma quella prigione è ancora attiva. Lo stesso Trump aveva dichiarato che nel 2019 non sarebbe più rimasto nessun militare statunitense in Siria eppure nulla avvenne. In tutti questi, e in altri casi, la burocrazia non si è mai opposta apertamente ma ha vanificato quelle che sembravano essere decisioni imprescindibili. Non è, comunque, soltanto una questione di burocrazia. Esistono forze apparentemente slegate tra loro che tuttavia riescono sempre a far prevalere il loro orientamento contrario. Così come in altri Stati democratici, i ministri dispongono ma è chi sta sotto di loro che applica o vanifica decisioni che sembrano irreversibili. Negli Stati Uniti la struttura del Dipartimento di Stato e di quello della Difesa sono macchine complesse e godono nella pratica di una loro certa autonomia. Oltre a loro, le varie Agenzie di intelligence agiscono non solo al di fuori ma frequentemente addirittura all’insaputa dei vertici politici. Come non bastasse, il sistema elettorale americano fa sì che senatori e deputati che pur appartengono a uno dei due partiti dominanti rendono conto personalmente alla base elettorale cui devono la loro permanenza o meno al Senato e al Congresso. Più che in altre democrazie i parlamentari si trovano spesso a votare differentemente dalla posizione ufficiale del loro partito. Che dire poi delle numerose, e spesso ricche, lobby che condizionano governi e parlamenti? Sia il settore privato che molti governi stranieri agiscono da sempre sul Congresso per garantirsi le politiche che li favoriscono riuscendo a bloccare, o almeno annacquare, decisioni che potrebbero essere di interesse pubblico.

    Infine, sempre negli Stati Uniti, hanno un loro peso anche i vari Think tank ove, per partito preso o per conformismo assodato, si elaborano concetti e programmi poi ampiamente pubblicizzati dai media e quindi influenti sull’opinione pubblica.

    È pur vero che Trump ha annunciato di voler fare piazza pulita di tutti gli alti funzionari dei quali dubita la fedeltà ma, se mai ci riuscisse considerato il trasformismo ed il travestimento connaturato a molti alti burocrati, il rischio è che li sostituisca con gente inesperta che potrebbe inficiare l’efficienza della macchina burocratica.

  • Presidenti virtuali e democrazie morte

    Si discute molto, in questi giorni, sulle performance di Trump e di Biden e sulle effettive possibilità che ha quest’ultimo di tornare alla presidenza.

    Sono molte meno le voci che si confrontano sul problema reale e cioè quale è il futuro di un grande paese, come gli Stati Uniti, definiti la più grande democrazia del mondo occidentale e la prima, o tra le primissime potenze, in fatto di armi e di economia, quando per la presidenza si confrontano due anziani, l’uno inqualificabile per i suoi comportamenti, l’altro che spesso sembra confuso.

    L’età di un presidente non è importante se ci troviamo di fronte a persone lucide come Mattarella, diventa un problema quando negli Stati Uniti dei due candidati l’uno passa di processo in processo, enunciando programmi sempre più astrusi e pericolosi, e l’altro non riesce a ricordare le cose buone che ha fatto durante la sua presidenza e a rispiegare i fondamentali motivi per i quali gli Stati Uniti non possono disarticolarsi dall’Europa o smettere di difendere l’Ucraina.

    Tutto questo avviene mentre sanguinose guerre continuano, non solo in Medio Oriente ed in Ucraina, in tutto il mondo, Xi Jinping stringe sempre più forte amicizia con il sanguinario zar della grande Russia, Kim Jong-un esporta armi, lancia missili ed inonda di immondizia la Corea del Sud, tornano a farsi sentire i terroristi di varia natura, l’Europa nelle trattative per il proprio e nostro futuro sembra la nazionale di calcio italiana, cioè inconcludente, la Francia è sull’orlo di una crisi isterica, almeno per una parte, i cambiamenti climatici hanno messo in ginocchio l’agricoltura ed il rischio di carestie e di impoverimento per tutti è sempre più reale.

    Che l’inquinamento, negli anni, abbia colpito il cervello di molti non è più una ipotesi surreale, forse l’intelligenza artificiale è stata creata proprio per questo, oltre che per arricchire alcuni, e cioè impedirci di continuare a pensare sostituendosi a noi con presidenti virtuali e democrazie morte.

  • Un conflitto locale e grandi interessi geostrategici internazionali

    L’arte della guerra è l’arte di distruggere gli uomini, la politica è l’arte d’ingannarli

    Jean Le Rond D’Alembert, da “Zibaldone di letteratura e filosofia”

    Nonostante si stia svolgendo nel territorio della Striscia di Gaza, quel conflitto, scoppiato il 7 ottobre scorso, con delle drammatiche conseguenze, con ogni probabilità fa parte di una strategia ben più ampia, internazionale. Una strategia che avrebbe come obiettivo il raggiungimento di determinati interessi geostrategici ben più grandi di quelli che riguardano la Striscia di Gaza. Fatti accaduti e che stanno accadendo in questi ultimi dieci giorni alla mano, risulterebbe che quel conflitto, diventato ormai una guerra vera e propria, con ogni probabilità, potrebbe avere anche delle gravi ripercussioni economiche, finanziarie, ma anche di fornimento delle materie prime, dei generi alimentari ed altro. Quanto è accaduto dal 24 febbraio 2022, quando la Russia diede inizio all’aggressione contro l’Ucraina, ne è una eloquente e significativa testimonianza.

    E quanto sta accadendo ormai da circa venti mesi in Ucraina dovrebbe aiutare a capire meglio quanto sta accadendo anche in altri Paesi coinvolti in altri conflitti in queste ultime settimane. Le conseguenze a livello locale ed internazionale della guerra, che per il dittatore russo continua ad essere “un’operazione speciale militare”, sono ormai di dominio pubblico. Così come sono ormai di dominio pubblico l’immediato sostegno e coinvolgimento, a fianco dell’Ucraina, di molti Paesi occidentali ed altri in tutto il mondo. Ma anche le alleanze della Russia con determinati Paesi arabi ed asiatici, dopo il fallimento del raggiungimento degli obiettivi posti dal dittatore russo e dagli strateghi che lo consigliano. Loro, nel tentativo di impedire alla NATO (acronimo di North Atlantic Treaty Organization – Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord; n.d.a.) di espandersi verso l’Est con l’Ucraina, hanno però avviato un processo di allargamento della NATO verso nord ovest, con la Finlandia e la Svezia. Perciò si sono dati la zappa sui propri piedi. In più, durante questi venti mesi di guerra, la Russia è stata costretta ad indietreggiare da diverse aree che aveva prima conquistato. E nonostante la Russia sia una grande potenza militare, risulterebbe che ormai stia cercando sostegno e rifornimenti dai suoi alleati. Tenendo perciò presente una simile e non facile situazione in cui si trova la Russia, allora non si potrebbe escludere neanche l’attuazione di una strategia di attivare conflitti in altre aree, per spostare l’attenzione da quello che sta accadendo dal 24 febbraio 2022 in Ucraina. Ma anche e soprattutto per far diminuire l’appoggio dato con il sostegno ufficiale ed i tanto necessari rifornimenti all’Ucraina con mezzi e materiale bellico.

    Prima che iniziasse l’attacco contro l’Israele con dei razzi dai militanti dell’organizzazione Hamas (l’acronimo di Harakat al-Muqawwama al-Islamiyya – Movimento Islamico di Resistenza; n.d.a.) il 7 ottobre scorso, ci sono stati due altri conflitti locali. Il primo nel Nagorno-Karabakh (Caucaso meridionale). Il secondo, soltanto alcuni giorni dopo il primo, nel nord del Kosovo. E poi, soltanto due settimane dopo, l’attacco dei militanti di Hamas nella Striscia di Gaza. Chissà se sia stato per caso, oppure si è trattato di una ben ideata ed attuata strategia diversiva?! Ma guarda caso però, ci sono anche delle similitudini in tutti questi conflitti. Compresa la guerra in Ucraina, tenendo presente anche cosa successe e perché il conflitto finì nel marzo 2014 con l’annessione della Crimea. Si tratta di similitudini che hanno a che fare con l’origine e la causa dei conflitti. Si tratta però, fatti accaduti e documentati, fatti che tutt’ora stano accadendo alla mano, anche della presenza diretta e/o indiretta della Russia, ma non solo, in tutti questi conflitti locali.

    Nella regione del Nagorno Karabakh, che si trova dentro il territorio dell’Azerbaigian, nel Caucaso meridionale, la popolazione è di maggioranza armena. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nell’agosto del 1991 sia l’Armenia che l’Azebaigian, che fino ad allora erano delle repubbliche dell’Unione, diventarono degli Stati indipendenti. Ma già dal 1988, dopo delle votazioni svolte nel Nagorno Karabakh, si era affermata la volontà degli abitanti della regione di unirsi con l’allora repubblica dell’Armenia. Un risultato quello che, ovviamente, ha generato una forte reazione da parte dell’Azerbaigian e degli scontri etnici tra le due popolazioni. Ma approfittando dalle leggi in vigore in quel periodo, nel Nagorno Karabakh si svolse un referendum nel gennaio 1992, dopo che, nel settembre 1991, il Nagorno Karabakh aveva annunciato la sua secessione dall’Azerbaigian. Ebbene, il risultato referendario affermò proprio la proclamazione dell’autonomia della regione di Nagorno Karabakh dalla repubblica di Azerbaigian. Ma, de facto, più di un’autonomia, fatti accaduti alla mano, era un’indipendenza. Da allora sono stati continui gli scontri armati tra gli armeni e gli azeri, fino al 1994, quando, il 5 maggio di quell’anno è stato firmato un accordo di “cessate il fuoco” tra i due Paesi. Ma i contenziosi e le avversità tra le parti continuarono anche negli anni successivi. Dal 2016 però sono ricominciati di nuovo gli scontri armati. E sono stati sempre gli azeri ad attaccare gli armeni del Nagorno Karabakh. Così è stato nell’aprile 2016, nel settembre 2020 e, di nuovo, nel settembre 2022. Bisogna sottolineare che durante tutti questi anni la Russia sosteneva Nagorno Karabakh, mente la Turchia è stata una dichiarata sostenitrice della repubblica di Azerbaigian. Nello scorso luglio però le forze armate azere hanno bloccato l’unica strada che permetteva il collegamento tra il Nagorno Karabakh e l’Armenia. E poi, il 19 settembre scorso l’Azerbaigian attacca di nuovo e sconfigge gli armeni. Un attacco determinato quello degli azeri per annientare definitivamente l’autonomia della regione di Nagorno Karabakh. Ma, altresì, per far capire chiaramente anche all’Armenia che si è  dimostrata debole e vulnerabile nelle sue reazioni, di subire direttamente. Grazie però alla diretta mediazione della Russia, un giorno dopo, il 20 settembre, è stato raggiunto un nuovo accordo di “cessate il fuoco” tra le parti. Un accordo che per gli analisti risulta essere in realtà una chiara vittoria dell’Azerbaigian ed una capitolazione per gli armeni. Secondo loro il presidente russo ha volutamente provocato una crisi tra gli azeri e gli armeni, consapevole della debolezza di quest’ultimi, per poi causare la sconfitta ed il successivo allontanamento degli armeni dal Nagorno Karabakh. E, guarda caso, nello stesso tempo che gli azeri attaccavano, il ministro russo della Difesa si trovava in una visita ufficiale nella capitale dell’Iran, per discutere ed accordarsi con il suo omologo iraniano su temi di “comune interesse”. E si sa quali siano tali interessi in questo periodo per i due Paesi, la Russia e l’Iran. Gli analisti hanno evidenziato altresì che, durante gli ultimi scontri tra il 19 e il 20 settembre, il contingente russo che doveva garantire gli accordi precedentemente raggiunti tra le parti in conflitto ha dimostrato una certa indifferenza, permettendo così agli azeri di raggiungere gli obiettivi. Mentre il presidente russo, diversamente dal suo solito, il 20 settembre scorso ha auspicato che il contenzioso tra le parti si potesse “risolvere in modo pacifico”. Ma “l’indifferenza” della Russia ed il comportamento del dittatore russo sono state anche una “punizione” per il presidente armeno che, durante gli ultimi mesi, aveva dimostrato un’atteggiamento critico nei confronti della Russia ed un avvicinamento con gli Stati Uniti d’America e con l’Unione europea. Invece quest’ultima ha scelto di essere non critica nei confronti dei massimi dirigenti istituzionali dell’Azerbaigian. Le recenti dichiarazioni pubbliche del presidente del Consiglio europeo, durante la prima metà dello scorso settembre, dimostrano e testimoniano questa “scelta diplomatica” e questo “blando comportamento” non solo suo, ma anche di altri alti rappresentanti istituzionali dell’Unione europea. Quello che è accaduto dal 1988 e fino al 20 settembre scorso tra gli azeri e gli armeni della regione di Nagorno Karabakh ha delle somiglianze e degli elementi in comune con quello che è successo e sta tutt’ora succedendo tra gli israeliani e i militanti palestinesi di Hamas. Ma anche tra i serbi e la popolazione di etnia albanese del Kosovo.

    Nel frattempo il nostro lettore è stato informato degli scontri, nel nord del Kosovo, tra le forze paramilitari serbe e le forze di sicurezza del Kosovo e del KFOR (acronimo di Kosovo Force, un contingente militare internazionale a guida NATO; n.d.a.). Sia degli scontri di alcuni mesi fa, che di quelli recenti, dopo il conflitto armato nelle primissime ore del 24 settembre scorso (Pericolose somiglianze espansionistiche, 26 agosto 2022; Non c’è pace nei Balcani, 5 giugno 2023; Bisogna pensare responsabilmente alle conseguenze, 12 giugno 2023; La ragione del più forte e anche del più influente, 19 giungo 2023; Ciarlatani disposti a tutto, anche a negare se stessi, 3 luglio 2023; Si sentono responsabili alcuni rappresentanti internazionali?, 25 Settembre 2023; Le preoccupanti conseguenze degli interessi geopolitici, 2 ottobre 2023). Forse di nuovo si tratta di un caso, ma l’ultimo conflitto armato però tra le forze paramilitari serbe e le forze di sicurezza del Kosovo è scoppiato soltanto quattro giorni dopo quello tra gli azeri e gli armeni nella regione di Nagorno Karabakh. E si sa ormai, essendo da anni di dominio pubblico il rapporto di amicizia e di stretta collaborazione tra la Serbia e la Russia. Si sa anche che la Serbia è l’unico Paese che ha avviato la procedure per l’adesione all’Unione europea, ma non ha però partecipato alle sanzioni poste dalla stessa Unione alla Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022. E come nel caso della regione autonoma di Nagorno Karabakh, anche nel caso del Kosovo, ormai una repubblica indipendente dal 2008 e riconosciuta da 117 Paesi del mondo, i massimi rappresentanti istituzionali dell’Unione europea hanno sempre “preso con le buone” il presidente della Serbia. Proprio colui che è stato il ministro della propaganda e stretto collaboratore di Slobodan Milošević, ex presidente della repubblica federale di Jugoslavia. È pubblicamente noto che quest’ultimo è stato accusato di crimini di guerra contro l’umanità e di pulizia etnica in Croazia, in Bosnia ed Erzegovina ed in Kosovo. Il processo a suo carico, avviato dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, è stato però interrotto nel 2006 dopo la sua morte e poco prima che si esprimesse la sentenza. Ebbene, dopo l’ultimo conflitto del 24 settembre scorso, proprio gli stessi massimi rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea, che fino ad alcuni giorni prima “coccolavano” il presidente serbo, hanno cambiato un po’ il loro atteggiamento. Ma mai però a dire le vere verità e a prendere le dovute e necessarie decisioni. Il nostro lettore è stato informato anche di tutto ciò (Si sentono responsabili alcuni rappresentanti internazionali?, 25 Settembre 2023; Le preoccupanti conseguenze degli interessi geopolitici, 2 ottobre 2023). L’ambiguità nelle loro dichiarazioni pubbliche e, non di rado, anche l’irresponsabilità delle loro scelte e decisioni sembrerebbero siano ormai, nolens volens, delle loro “preferenze comportamentali”. Chissà perchè?! Si sa però, fatti accaduti alla mano, che anche come nel caso dell’attuale guerra in corso nella Striscia di Gaza, le scelte fatte dall’Unione europea non sono state quelle dovute e necessarie.

    Nel frattempo però nella Striscia di Gaza si sta combattendo e, purtroppo, altre vite umane si stanno perdendo, bambini compresi, sia ebrei che palestinesi. I media stanno diffondendo, dal 7 ottobre scorso ed in continuazione quanto sta accadendo lì dove si sta combattendo. Così come stanno rapportando anche gli schieramenti delle massime autorità dei singoli Paesi e delle istituzioni internazionali. Sia quelli che condannano gli attacchi dei miliziani del Hamas, che degli altri che si schierano contro l’Israele. E da quanto sta realmente accadendo nella Striscia di Gaza, purtroppo si presume che i combattimenti continueranno, con tutte le drammatiche conseguenze.

    Chi scrive queste righe è convinto che tutti i conflitti locali si svolgono per degli interessi, piccoli o grandi che siano. Compresi anche i grandi interessi geostrategici internazionali. Chi scrive queste righe trova significativo quanto scriveva nella metà del diciottesimo secolo D’Alembert. E cioè che l’arte della guerra è l’arte di distruggere gli uomini, la politica è l’arte d’ingannarli.

  • Preoccupanti e pericolosi poteri occulti in azione

    La passione per il potere è insita nella maggior parte degli uomini

    ed è naturale abusarne una volta acquisito

    Alexander Hamilton

    Era l’11 aprile 2019. A Casa Santa Marta in Vaticano si svolgeva il ritiro spirituale di due giorni per la riconciliazione in Sud Sudan. Un ritiro “Per la pace” nel quale erano presenti oltre all’attuale presidente del Paese, anche il vice presidente ed i tre vicepresidenti designati, nonché gli otto membri del Consiglio delle Chiese del Sud Sudan. Diventato Stato indipendente il 9 luglio 2011, è però, dal dicembre del 2013, un Paese logorato dai continui conflitti etnici. Conflitti che hanno causato alcune centinaia di migliaia di vittime e tantissime crudeltà subite e sofferte dalla popolazione. Il Sud Sudan era e purtroppo tuttora è un Paese dove si incrociano molti interessi economici internazionali che mirano allo sfruttamento del ricco sottosuolo con petrolio e minerali molto richiesti dal mercato. Ragion per cui il Sud Sudan era ed è tuttora, però e purtroppo, anche un Paese dove si verificano dei preoccupanti e pericolosi abusi di potere, locali ed internazionali. Papa Francesco, l’11 aprile 2019, rivolgendosi ai partecipanti al ritiro “Per la pace” nel Sud Sudan, ha detto: “Non mi stancherò mai di ripetere che la pace è possibile!”. E poi si è inginocchiato davanti al presidente e al suo avversario, il vicepresidente ed ha baciato anche i loro piedi. Un gesto spontaneo, quello di Papa Francesco, che rimarrà impresso nella memoria collettiva.

    Dopo diversi rinvii per motivi di sicurezza o di salute, la scorsa settimana, dal 31 gennaio fino al 5 febbraio, Papa Francesco è andato prima in Congo e, da li, in Sud Sudan. Durante la sua visita di tre giorni nella Repubblica Democratica del Congo Papa Francesco ha avuto modo di ascoltare da alcune delle vittime molte testimonianze dirette di inaudite crudeltà. Il Paese è stato dilaniato dagli scontri armati. Soprattutto quelli scoppiati dal maggio del 1997 e durati per alcuni anni. Durante quel periodo si valuta che ci siano stati circa quattro milioni di morti, vittime di un micidiale conflitto armato che, secondo gli analisti, risulterebbe essere stato il più grande dopo la seconda guerra mondiale. Papa Francesco ha ascoltato, durante l’incontro nella sala della rappresentanza pontificia a Kinshasa, delle testimonianze di orrori e di tanta brutalità subita dalla popolazione indifesa durante lunghi anni di scontri etnici e di altre ingerenze occulte e pericolose di gruppi di interesse internazionali. Interessi tuttora attivi che si concentrano sulle tanto appetibili risorse naturali del Paese. Risorse che si trovano soprattutto nella parte meridionale, ricca di giacimenti di minerali, di diamanti e di petrolio, molto richiesti dai mercati internazionali. Come anche in Sud Sudan, con il quale il Congo confina a nord.

    Il 1 febbraio scorso è stato proclamato giorno di festa nazionale proprio per onorare l’arrivo di papa Francesco in Congo. Commosso da tutto quello che ha ascoltato dalle testimonianze delle vittime, Papa Francesco ha detto: “Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle si resta scioccati”. Ma il Papa ha parlato anche del “…sanguinoso, illegale sfruttamento della ricchezza di questo Paese” e dei “…tentativi di frammentarlo per poterlo gestire”. Aggiungendo perentorio che “Riempie di sdegno sapere che l’insicurezza, la violenza e la guerra che tragicamente colpiscono tanta gente sono vergognosamente alimentate non solo da forze esterne, ma anche dall’interno, per trarne interessi e vantaggi”. Era convinto però il Santo Padre che “…è la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione”. Ma era soprattutto una frase pronunciata da Papa Francesco, una lucida constatazione, che per l’autore di queste righe è molto significativa. Il Pontefice è stato diretto e perentorio dicendo: “Che scandalo e che ipocrisia! La gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!”. E poi ha aggiunto, sempre riferendosi a tutti coloro che sono i diretti responsabili e colpevoli di queste atrocità: “…Vi arricchite attraverso lo sfruttamento illegale dei beni di questo Paese e il cruento sacrificio di vittime innocenti”.

    Dal Congo Papa Francesco è arrivato il 3 febbraio scorso in Sud Sudan. Come sopracitato, anche quello è un Paese colpito e sofferente per i continui conflitti etnici e per la povertà diffusa. E come in Congo, anche nel Sud Sudan sono presenti ed in azione dei preoccupanti e pericolosi poteri occulti internazionali. Sono interessi economici per le tante ricchezze del sottosuolo del Paese che contendono la gestione di quei giacimenti minerari e di petrolio. Da quel 9 luglio 2011, giorno in cui divenne uno Stato indipendente ad oggi, il Sud Sudan è, purtroppo, un Paese profondamente colpito da una lunga e sanguinosa guerra civile e da una diffusa povertà che causa fame. Non sono valsi a niente neanche gli accordi di pace del 2018. E neanche le aspettative, dopo il sopracitato ritiro “Per la pace”, di costituire un governo di alleanza nazionale previsto allora per maggio 2019. Una simile realtà ha generato anche un inevitabile flusso migratorio. Secondo le valutazioni delle istituzioni specializzate internazionali, risulterebbe che durante questi anni siano stati almeno quattro milioni gli sfollati nel Sud Sudan. Al suo arrivo a Giuba, capitale del Paese, Papa Francesco, accompagnato dall’arcivescovo anglicano di Canterbury e dal moderatore della Chiesa di Scozia, ha incontrato il presidente sudsudanese. Lo stesso che aveva incontrato l’11 aprile 2019 a Casa Santa Marta in Vaticano. Proprio colui di fronte al quale quel giorno Papa Francesco si era inginocchiato ed aveva baciato il piede, chiedendogli la pacificazione del Paese. Rivolgendosi a lui il Pontefice ha detto: “…È tempo di voltare pagina, è il tempo dell’impegno per una trasformazione urgente e necessaria. […] È tempo di un cambio di passo!”. Ed è proprio tempo per dare finalmente la possibilità al “Paese fanciullo”, come ha chiamato Papa Francesco il Sud Sudan, di passare “…dalla inciviltà dello scontro alla civiltà dell’incontro”. È tempo di riuscire finalmente ad impegnarsi seriamente anche nella lotta contro la corruzione e l’arrivo e traffico delle armi.

    Domenica, il 5 febbraio, Papa Francesco ha presieduto la Santa Messa nel Mausoleo “John Garang” a Giuba. In seguito nell’aereo, durante il volo di ritorno a Roma, egli, insieme con l’arcivescovo anglicano di Canterbury ed il moderatore della Chiesa di Scozia, ha risposto alle domande dei giornalisti. Rispondendo ad un giornalista sulla realtà nel Congo, il Pontefice ha detto che “c’è questa idea: l’Africa va sfruttata. Qualcuno dice, non so se è vero, che i Paesi che avevano colonie hanno dato l’indipendenza dal pavimento in su, non sotto, vengono a cercare minerali. Ma l’idea che l’Africa è per sfruttare dobbiamo toglierla”. Un altro giornalista era interessato a sapere cosa si potrebbe fare per impedire la continua e palese violazione delle leggi internazionali, come accade in Sud Sudan, ma anche in altri Paesi africani. Papa Francesco è convinto che bisogna impedire la vendita delle armi perché, come egli ha ribadito, “nel mondo questa è la peste più grande”. Aggiungendo però convinto che “… è anche vero che si provoca la lotta fra le tribù con la vendita delle armi e poi si sfrutta la guerra di ambedue le tribù. Questo è diabolico!”. Rispondendo ad un altro giornalista, il Pontefice ha parlato anche della gravità e delle preoccupanti conseguenze di tante guerre in corso in diverse parti del mondo. Per lui non c’è soltanto la guerra in corso in Ucraina. “Da dodici-tredici anni la Siria è in guerra, da più di dieci anni lo Yemen è in guerra, pensa al Myanmar […] Dappertutto, nell’America Latina, quanti focolai di guerra ci sono! Sì, ci sono guerre più importanti per il rumore che fanno, ma, non so, tutto il mondo è in guerra, e in autodistruzione. Dobbiamo pensare seriamente: è in autodistruzione!” ha detto Papa Francesco. Poi un giornalista ha fatto riferimento a quello che egli ha denominato come la “globalizzazione dell’indifferenza”. A lui il Pontefice ha risposto convinto: “C’è dappertutto la globalizzazione dell’indifferenza”. E poi ha continuato, aggiungendo: “Pensare che le fortune più grandi del mondo sono nelle mani di una minoranza. E questa gente non guarda le miserie, il cuore non gli si apre per aiutare”. Perciò bisogna conoscere le specifiche realtà, visitando diversi paesi nel mondo. Papa Francesco ha ricordato anche il primo suo viaggio apostolico in Europa. Il 21 settembre 2014 andò in Albania che era “il Paese che ha sofferto la dittatura più crudele, più crudele, della storia”.

    In realtà quella visita in Albania ha attirato l’attenzione mediatica internazionale. Ha suscitato speranze anche tra gli albanesi. Il Papa ha incontrato le massime autorità istituzionali e quelle religiose. Ha incontrato anche il primo ministro che da un anno aveva cominciato il suo primo mandato come tale. Colui che attualmente sta esercitando il suo terzo mandato. Chissà cosa ha detto lui al Pontefice? Di certo però non ha parlato di quello che aveva in mente di fare e che poi, nel corso di questi anni, ha veramente fatto. E lo aveva dichiarato al Parlamento un anno prima, nel settembre 2013. Rivolgendosi ai deputati dell’opposizione, il primo ministro aveva dichiarato con tanta enfasi: “Voi non avete visto ancora niente!”. Purtroppo, in realtà quello che aveva fatto fino al 2013 non era niente in confronto a quello che il primo ministro albanese ha fatto durante questi anni. Il nostro lettore ha avuto modo di essere continuamente informato del suo operato, con tutta la dovuta ed obbligatoria oggettività, fatti alla mano. Sono stati lui ed i suoi stretti collaboratori che hanno diffuso sul tutto il territorio nazionale la coltivazione della cannabis, per poi trafficare il prodotto. Una realtà questa che ha messo in allarme le istituzioni specializzate internazionale e che ha sconvolto il mercato degli stupefacenti. Lo ha fatto coinvolgendo direttamente il ministro degli Interni, il quale ha garantito il diretto coinvolgimento delle strutture della polizia di Stato. Una realtà quella che continua. Il nostro lettore è stato informato, a più riprese e a tempo debito, anche di questo. Così come è stato molto spesso informato soprattutto del restauro e del consolidamento di una nuova dittatura sui generis in Albania. Il nostro lettore è stato molto spesso informato anche della costituzione di un’alleanza pericolosa capeggiata, almeno formalmente, dal primo ministro. Un’alleanza tra il potere politico, la criminalità organizzata locale ed internazionale e determinati raggruppamenti occulti, anche quelli locali ed internazionali. Il nostro lettore è stato spesso informato, fatti documentati e denunciati alla mano, della galoppante corruzione che sta divorando sempre più la cosa pubblica in Albania, mentre la povertà si sta diffondendo sempre più in tutto il Paese. Ragion per cui si sta verificando, da alcuni anni ormai, un preoccupante spopolamento del paese. Come nel Sud Sudan ed in altri paesi dove da anni, pero, sono attivi scontri armati tra diverse etnie. Anche di questo il nostro lettore è stato informato. Così come è stato spesso informato del clamoroso abuso di potere, partendo proprio dal primo ministro e dai suoi più stretti collaboratori. Il nostro lettore è stato informato durante questi anni del fallimento ideato, programmato ed attuato della riforma del sistema della giustizia in Albania. Un fallimento che ha avuto il supporto dei “rappresentanti internazionali” in Albania e di alcuni alti rappresentanti dell’Unione europea. La scorsa settimana il nostro lettore è stato informato del diretto coinvolgimento del primo ministro albanese in uno scandalo internazionale tuttora in corso (Collaborazioni occulte, accuse pesanti e attese conseguenze; 30 gennaio 2023). Ovviamente lui, bugiardo ed ingannatore innato qual è, ha detto tutt’altro a Papa Francesco durante il loro sopracitato incontro nel settembre 2014.

    Chi scrive queste righe è convinto che in molti Paesi del mondo, compresi il Congo e il Sud Sudan, ma anche l’Albania, si stanno verificando delle presenze di preoccupanti e pericolosi poteri occulti in azione. Poteri che abusano, sfruttando la disponibilità dei politici corrotti. È vero, la passione per il potere è insita nella maggior parte degli uomini ed è naturale abusarne una volta acquisito. Come sta facendo da anni irresponsabilmente e spudoratamente anche il primo ministro albanese.

  • Le guerre per le terre rare minano anche il nostro futuro

    Mentre la nostra attenzione è, ovviamente, concentrata sui diversi problemi dovuti al rincaro del gas e alla sospensione di gran parte dei rifornimenti dalla Russia, si rischia che manchi all’analisi del nostro futuro quali saranno le conseguenze delle varie guerre di potere per accaparrarsi quelle materie prime senza le quali la società mondiale non può più vivere.

    Lo scontro tra i grandi della terra è sulle terre rare senza le quali le vecchie e nuove tecnologie non possono funzionare e in questo scontro ogni giorno si contano molte vittime.

    Il Congo è ricco di coltan, il minerale indispensabile per il funzionamento dei migliori microchip, quei microchip che regolano ogni tecnologia e presto saranno usati anche nell’industria pesante. Il coltan del Congo è particolare per la concentrazione di columbite-tantalite che porta ad un risparmio energetico, ad esempio prolunga la durata delle batterie e perciò è particolarmente richiesto anche per le macchine elettriche.

    La grande richiesta del coltan, in una paese poverissimo nonostante le tante risorse minerarie, cobalto in testa, aumenta le lotte intestine, i traffici internazionali, le guerre di potere, tutto a scapito della popolazione, che in gran parte lavora più di 12 ore al giorno, senza protezione e per una misera manciata di dollari.

    La Cina ha ovviamente un rapporto stretto con il governo congolese e ha usato tutti i mezzi per aggiudicarsi l’esclusiva del cobalto e si muove, anche sotto la copertura di varie società che tra loro si fondono con giochi ad incastro. Nel frattempo la situazione di donne e bambini resta drammatica mentre gli attacchi di bande armate, dei contrabbandieri e dell’Isis continuano contro la popolazione civile.

    Continua anche la corsa al litio, materiale essenziale per le moderne tecnologie e del quale la Bolivia detiene un quarto delle riserve mondiali conosciute ma non ne produce che pochissime quantità perché l’ex presidente Morales comanda ancora. Pur essendo nazionalizzata l’estrazione del litio, esiste solo un piccolo impianto che non riesce a produrre in modo industriale. Nel 2021 Morales ha deciso di mettere fine alla fallimentare nazionalizzazione ma solo nell’interesse di Pechino e Mosca.

    Le batterie al litio sono le più efficienti e riciclabili perciò è un grande affare produrlo, utilizzarlo, venderlo vista la necessità di arrivare all’autotrasporto elettrico così la metà delle compagnie che potranno avviare progetti di ricerca sul litio sono cinesi. Una di queste ha fatto una società mista con una società statale boliviana per l’industrializzazione delle saline. Il litio boliviano sarà anche a disposizione di una azienda statale russa che si occupa di energia nucleare, poiché è uno dei maggiori produttori mondiali di uranio, la Bolivia è ricca anche di questo materiale.

    Russia e Cina pur essendo apparentemente alleate su molte questioni, compreso il silenzio colpevole del presidente cinese sulla guerra di Putin contro l’Ucraina, in effetti hanno una forte rivalità per la conquista proprio delle terre rare. Queste terre sono molto presenti nel sottosuolo degli ex paesi satelliti dell’Unione Sovietica come il  Kazakistan, il Turkmenistan, il Kirghizistan.

    La concorrenza continua anche per appropriarsi dei grandi giacimenti, non solo di preziosissimo rame, in Afganistan. In effetti le concessioni di alcune miniere sono in mano cinese già dal 2007 ma le note vicende afgane hanno per ora impedito l’estrazione. I cinesi inoltre potrebbero godere di un enorme giacimento di litio nell’alto Tibet individuato recentemente.

    Guerre e guerriglie grandi e piccole, ufficiali od ufficiose, continuano e si espandono, in nome di finti ideali, per garantire terre rare e potere ai giganti del mondo mentre le popolazioni dei paesi, che nel  sottosuolo hanno tante ricchezze, restano sempre più povere.

    Quando i giganti avranno raggiunto la piena acquisizione dei metalli e delle terre rare saranno i padroni definitivi del mondo, forse si faranno guerra tra di loro, forse si divideranno il mondo ma certamente noi non saremo più liberi ed indipendenti come siamo ora, o come crediamo di essere.

    Anche per questo aiutare il popolo ucraino a salvare la sua indipendenza e le ricchezze del suo sottosuolo è necessario e giusto anche per il nostro futuro di libertà e benessere.

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