lavoro

  • Con l’inclusività i ricavi aumentano fino al 30 per cento

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Assoedilizia

    L’altra metà del cielo protagonista al convegno organizzato da GEA e Harvard Business Review Italia a Palazzo Mezzanotte di Milano alla presenza del mondo economico e finanziario milanese, tra cui il presidente di Assoedilizia Achille Colombo Clerici ed il presidente della Fondazione Italia Cina Mario Boselli. L’evento ha evidenziato come una cultura aziendale inclusiva e diversificata rafforzi l’engagement e contribuisca ad aumentare la produttività a lungo termine, generando un incremento dei ricavi che può arrivare al 30%.

    Oggi la Diversity & Inclusion è un elemento cruciale per garantire la solidità economica ed etica delle aziende nel medio-lungo periodo, sia in termini di risorse umane che di performance di brand e di mercato. Diversity & Inclusion sono fattori critici di successo per l’impresa in generale e per quella italiana in particolare in quanto più piccola, flessibile e proiettata all’internazionalizzazione e all’innovazione, attività nelle quali la qualità delle persone, il loro benessere ed il loro contributo strategico, sono determinanti.

    Dopo i saluti di Enrico Sasson, presidente di Eccellenze d’Impresa e di Fabrizio Testa, CEO di Borsa Italiana, Luigi Consiglio presidente di GEA Consulenti di direzione ha aperto i lavori.

    “La capacità di lavorare sinergicamente sull’inclusione sia internamente che esternamente rappresenta un vantaggio competitivo per le imprese” ha spiegato Consiglio chiarendo che: “La comprensione delle singole forme di diversità, l’ascolto delle loro istanze e la capacità di trasformarle in azioni inclusive arricchiscono in modo più che proporzionale la brand equity riflettendosi sul posizionamento e sui risultati in termini di market share, fatturato e redditività, a parità di altre condizioni”. Consiglio ha anche spiegato come “la matrice artigiana delle nostre imprese e le difficoltà che siamo abituati ad affrontare per fare business in Italia spingono a guardare il mondo circostante con umiltà, abituandosi alla dote principale dell’inclusività: l’ascolto”.

    Sulla necessità di valorizzare il ruolo della donna nel mercato del lavoro è intervenuta con un keynote speech l’economista Veronica De Romanis, docente di politica economica alla Stanford University e alla Luiss. “L’occupazione femminile è parte significativa della soluzione di un Paese, come l’Italia, che ha un tasso di sviluppo limitato, un debito elevato e disuguaglianze crescenti”.

    De Romanis ha proseguito illustrando i dati sul tasso di occupazione. “Dal 2019 al 2021 l’Italia è peggiorata, insieme a Repubblica Ceca, Bulgaria, Danimarca, Svezia, Lituania, Olanda e Lettonia. Le donne hanno pagato il prezzo più alto della crisi e spesso rimangono intrappolate nel cosiddetto part-time involontario”.

    In un Paese dove il tasso di natalità resta inferiore alla media UE “aumentare l’occupazione femminile può invertire la curva demografica” ha spiegato l’economista, illustrando anche la stima del costo della mancanza di donne nel mercato del lavoro, in termini di crescita. “Nel mondo 2,4 miliardi di donne in età da lavoro non hanno gli stessi diritti degli uomini. Se si arrivasse ad uguali tutele, avremmo un aumento del 20% del Pil. In conclusione, inclusività significa più donne nel mercato del lavoro, meno diseguaglianze, più natalità e ricchezza”.

    Sono seguiti interventi di Patrizia Ghiazza, partner GC Governance Consulting; Barbara Falcomer direttrice generale Valore D; Francesca Vecchioni, presidente di Fondazione Diversity; Paola Angeletti, Coo di Intesa Sanpaolo; Marilù Capparelli, legal director EMEA; Luciana De Laurentiis, Head of Corporate Culture & Inclusion Fastweb; Nilufer Demirkol, Global Head of Diversity and Inclusion di Nestlé; Pietro Iurato, HRD Head EMEA di SAP. Emanuele Acconciamessa, COO di Focus Management e Gabriella Crafa, Vice President di Fondazione Diversity hanno presentato la ricerca “Diversity Brand Index” e le relative best practice.

    “Tutti gli interventi e i living cases presentati oggi confermano quanto sia indispensabile che gli imprenditori capiscano che l’inclusività è il principale fattore competitivo nelle loro mani, oltre che un fattore critico di successo per l’internazionalizzazione dell’industria italiana” ha concluso Luigi Consiglio.

  • Cultura e turismo

    E’ auspicabile che ogni amministrazione pubblica (naturalmente anche quella privata) si valga di persone competenti. Talvolta non è così perché si fanno prevalere interessi particolari che giovano a chi viene nominato, non a coloro che vengono amministrati. Nella speranza di esprimere della competenza, farò qualche riflessione su ciò che significa cultura nel contesto della pubblica amministrazione.

    Il primo compito è quello di sostenere e incentivare le energie presenti in un’istituzione culturale, dal teatro alla musica, dai musei alle biblioteche e alle altre iniziative che si sviluppano sul territorio. L’amministratore, più precisamente si dovrebbe parlare di assessore alla cultura, non dovrebbe mettere il suo cappello sulla direzione di queste istituzioni imponendo la propria visione, ma neppure essere un passivo erogatore di sussidi a pioggia per evitare di esprimere un proprio giudizio sulla qualità delle prestazioni. L’assessore è da considerarsi come un interlocutore che valuti il più oggettivamente possibile il cammino fatto dall’istituzione culturale, suggerendo qualche miglioramento, rilevando qualche criticità.

    La cultura lombarda dovrebbe essere sempre più internazionalizzata, soprattutto stabilendo degli scambi con le regioni straniere confinanti (Austria, Svizzera, Baviera, Slovenia, Francia del sud) attraverso protocolli di collaborazione scientifica, a cui far partecipare le nostre Accademie e i centri di ricerca. Ma ciò richiede di confrontarsi con le nostre attitudini e specificità culturali, quelle che affondano le loro radici nelle tradizioni Lombarde, tutelando e promuovendo con questa consapevolezza dell’origine, il nostro patrimonio culturale, artistico, archeologico, materiale e immateriale. In questa direzione, particolare attenzione dovrebbe essere dedicata al potenziamento e sviluppo del Vittoriale degli Italiani e del Parco della Reggia di Monza.

    Ma accanto a tali celebri strutture, ci sono tante piccole e medie realtà culturali, create dal volontariato, da un associazionismo che si sviluppa a diversi livelli, che vanno assolutamente sostenute perché sono luci vitali che illuminano la vita delle città, da quelle capoluogo di provincia a quelle di paese. Spesso queste realtà culturali rappresentano luoghi importanti di aggregazione, che, nell’affiancarsi opportunamente alle scuole, danno una originale testimonianza degli interessi dei giovani (in particolare) che dedicano il loro tempo ad approfondimenti scientifici attraverso presentazioni di libri, mostre, eventi pubblici.

    Amministrare la cultura significa anche prestare attenzione alla filiera turistica conferendo incentivi per una valorizzazione integrata dell’offerta culturale, in cui, in primo piano, si colloca la valorizzazione e diffusione comunicativa del nostro artigianato, da quello funzionale alla vita quotidiana (penso all’artigianato del legno, del mobile, che rappresenta un’altissima tradizione lombarda) all’artigianato del lusso, da quello orafo ai tessuti, all’abbigliamento.

    Cultura e turismo entrano in una relazione virtuosa: il turista viene a conoscere le bellezze dei luoghi non solo attraversando strade e piazze, ammirando chiese, palazzi, monumenti, ma anche osservando il lavoro che quella terra ha espresso con le proprie tradizioni nell’artigianato, nel cibo, nello sport. La bellezza monumentale è generata dalle realtà sociali che si sviluppano nel tempo e che lasciano, con il loro lavoro, opere belle alle generazioni future. Questo è il senso più profondo per stabilire un rapporto non arbitrario tra cultura e turismo, a cui va aggiunto anche un’altra necessaria considerazione. La formazione.

    E’ doveroso sostenere la cultura delle tradizioni e del lavoro attraverso la scuola o, nel complesso,  con altre forme pubbliche e private di educazione.

    La cultura, soprattutto il valore che noi siamo in grado di dare alla cultura, non scende dal cielo, ma dalla nostra istruzione, dalla nostra sensibilità che si forma nella scuola e in famiglia. Non ci può essere vera cultura se non c’è una scuola che funzioni bene, che sia all’altezza della nostra grande storia di civiltà e che dia l’opportunità di camminare con il passo della modernità. Un amministratore che abbia la responsabilità di gestire la cultura della regione deve continuamente relazionarsi con le scuole del territorio per favorire una formazione che non solo sia in grado di dare ai nostri giovani conoscenze che consentano loro di misurarsi e competere con i loro coetanei europei, ma anche permetta loro di non dimenticare o rinunciare a quell’apprendimento di tradizioni che caratterizzano la terra in cui essi vivono. Tanti artigiani non sono più in grado di trasmettere il loro sapere alle giovani generazioni, perché il lavoro dà poche soddisfazioni economiche: la conseguenza è perdere la storia delle nostre popolazioni, la storia della bellezza creata dal lavoro. Cultura significa anche difendere con opportuni interventi economici e fiscali questa trasmissione di saperi di generazione in generazione.

    Si delinea così il campo d’intervento di un assessore alla cultura della regione Lombardia, che con semplice profondità deve fondarsi sulla stretta relazione sia con il turismo che con la formazione, per favorire progettualità capaci di realizzare una convergenza fra cultura/spettacolo, turismo e scuola con benefici e ricadute a favore del territorio, dei suoi abitanti, dei suoi visitatori.

  • Boom di dimissioni dal lavoro, 1,6 milioni in nove mesi

    Altro che reddito di cittadinanza e ‘Giuseppi’! Quelle che negli Stati Uniti sono ormai noto come “Great resignation”, le grandi dimissioni, si diffondono anche in Italia. Anche se non con la stessa portata, dopo la pandemia, il fenomeno delle dimissioni dal lavoro si fa sempre più spazio. A fronte di un’Italia che pensa ‘io esisto, la società deve occuparsi di me’, come se non fosse responsabilità (e dignità) del singolo cercare anzitutto di cavarsela da sé prima di chiedere agli altri, continua ad aumentare il numero di coloro che decidono di lasciare il posto. Per scelta o per necessità, per guardare avanti rispetto alla propria occupazione e carriera o per far meglio conciliare le esigenze della famiglia.

    I motivi possono essere vari, ma di fatto la tendenza osservata a partire da due anni a questa parte si conferma con numeri in salita. Sono oltre 1,6 milioni, infatti, le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state registrate più di 1,3 milioni. La fotografia arriva dagli ultimi dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, ed il numero indica i rapporti di lavoro cessati per dimissioni, e non il numero dei lavoratori coinvolti.

    Tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro le dimissioni costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a  termine, la quota più alta. Ma le cifre indicano come risalga anche il numero dei licenziamenti, dopo la fine del blocco deciso con la crisi pandemica: tra gennaio e settembre 2022, infatti, sono stati circa 557mila i rapporti interrotti per decisione del datore di lavoro contro i 379mila nei primi 9 mesi del 2021, con un aumento del 47% rispetto a un periodo in cui era però in vigore il blocco.

    Guardando il solo terzo trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (pari a +35mila) sul terzo trimestre 2021. Dati che confermano, dunque, come continui il trend positivo partito dal secondo trimestre 2021, seppure con una variazione inferiore rispetto ai trimestri precedenti. Per quanto riguarda i licenziamenti, nel terzo trimestre del 2022 ne sono stati registrati quasi 181mila, con una crescita del 10,6% (pari a +17 mila) rispetto al terzo trimestre del 2021.

    Sarà dunque per un mercato del lavoro che diventa più dinamico, per una scelta di vita diversa o per le conseguenze della crisi, ma il fenomeno delle dimissioni cresce e si fa trasversale. E riguarda sia gli uomini, in prevalenza, sia le donne. A spingere, secondo gli osservatori, da un lato può essere stata la ripresa occupazionale, dopo la caduta determinata dal picco della crisi Covid, con maggiore mobilità e opportunità anche per chi vuole cambiare lavoro, soprattutto per i profili tecnici e specializzati. Dall’altro lato, al contrario, proprio la crisi e la necessità o il desiderio di un diverso equilibrio tra vita privata e professionale possono aver spinto a scegliere di dire addio al proprio posto di lavoro.

    Per Giulio Romani della Cisl bisogna “rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità”, visto che le imprese in cui si sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro sono una minoranza e sono quelle dai 10 ai 250 dipendenti. Ma la platea delle imprese italiane, spiega, “è però occupata per circa il 95% da microimprese, quelle con la minore produttività, all’interno delle quali mediamente si fatica di più a sviluppare forme di welfare integrativo e dove non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti. Dove si eroga poca formazione, si genera minore conciliazione vita-lavoro, si intravedono le minori prospettive di crescita economica e professionali”.

    “L’aumento delle dimissioni – spiega Tania Scacchetti della Cgil – può avere spiegazioni molto differenti: da un lato può positivamente essere legata alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più ‘agile’, dall’altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere dovuta anche ad uno scarso coinvolgimento e ad una scarsa valorizzazione professionale da parte delle imprese”. Per Ivana Veronese della Uil «molte le dimissioni volontarie, forse un segno di come le priorità si siano modificate anche nella testa delle lavoratrici e lavoratori: se da qualche parte c’è uno smart-working più flessibile, se la retribuzione dove lavoro è troppo bassa o gli orari troppo disagevoli, se ho voglia di provarci davvero, un lavoro, magari anche sicuro, lo si può lasciare».

  • Nella sanità circa 50mila precari da assumere

    Una nuova spinta alla stabilizzazione del personale sanitario precario assunto a tempo determinato durante la pandemia di Covid-19 è arrivata anche con la prima manovra economica del nuovo governo che prevede la proroga dei termini al 2024 per le stabilizzazioni. Già avviate con la precedente legge di bilancio approvata nel 2021, le assunzioni riguardano un totale di 48mila professionisti per l’anno passato.

    Lo scorso anno, al primo via libera alle stabilizzazioni, il personale sanitario interessato contava 47.994 professionisti secondo le stime della Federazione delle aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso). In particolare, il provvedimento riguardava 8.438 medici, 22.507 infermieri e 17.049 operatori sociosanitari e altro personale sanitario. In un anno, varie Regioni hanno avviato le stabilizzazioni, anche se non si ha ancora un quadro completo a livello nazionale. Al momento, secondo un monitoraggio di Fiaso, la Puglia ha annunciato 3.333 stabilizzazioni, la Campania 3.550, la Calabria 3.633, il Lazio 4.800 e il Piemonte 1.137.

    Sul fronte degli infermieri, invece, sarebbero circa 12mila quelli stabilizzati in un anno, sottolinea il segretario del sindacato Nursind, Andrea Bottega. Oltre 10mila dunque, precisa, “sono ancora da stabilizzare e non è detto che con questa proroga si riesca a stabilizzarli tutti. Forse potremmo arrivare a 7-8mila”. Fermo restando che “stabilizzare i precari non significa potenziare gli organici – conclude Bottega – accogliamo con favore la misura, ma chiediamo che si dia seguito alle assunzioni anche usando le graduatorie esistenti, perché la carenza di infermieri è drammatica”.

    La proroga – rispetto ai termini già indicati nella manovra 2022 – è stata prevista da un emendamento del Pd alla attuale legge di bilancio approvato in commissione. Gli enti del Sistema sanitario nazionale potranno dunque assumere a tempo indeterminato, entro il 31 dicembre 2024 anziché entro la fine del 2023, tutti i professionisti che abbiano maturato 18 mesi di servizio nella sanità pubblica entro il 31 dicembre 2023 (invece che entro fine 2022), di cui almeno 6 nella fase di emergenza per la pandemia da Covid-19.

  • La storia dell’Ottocento si ripete

    Da molti anni le aziende della Silicon Valley vengono Indicate come le massime artefici nel futuro prossimo dello sviluppo economico e soprattutto sociale delle economie occidentali. Indubbiamente la digitalizzazione della pubblica amministrazione, come di molti sistemi industriali, ha offerto un ruolo sempre più centrale alle aziende di questo settore in continua evoluzione tanto da venire elette come le rappresentanti della nuova modernità e soprattutto del politicamente corretto.

    Esistono, tuttavia, aspetti importanti relativi a queste icone che troppo spesso non vengono considerati nella loro importanza.

    Il primo è sicuramente quello relativo agli indirizzi verso i quali i titolari di queste aziende dirigono i propri investimenti. Il patron di Microsoft è diventato uno dei maggiori latifondisti statunitensi contribuendo così di fatto alla morte dei piccoli e medi coltivatori ed allevatori.

    Viceversa, il titolare di Amazon ha acquistato il maggiore supermercato fisico, Whoole Foods, per oltre 13 miliardi di dollari confermando il proprio desiderio monopolistico da imporre al mercato ed esprimendo cosi la propria chiara volontà attraverso una politica di prezzi molto aggressivi nei confronti della distribuzione tradizionale che successivamente ha inevitabilmente portato al licenziamento di circa 18.000 dipendenti della stessa Amazon. A conferma della insostenibilità della politica di prezzi della major di e-commerce, adottata con l’unico obiettivo di togliere ossigeno alla distribuzione tradizionale.

    Dopo due anni di pandemia e un anno di guerra, i  cui effetti devastanti stanno mettendo in crisi persino questi giganti del web, anche Google ha deciso di ridurre la propria forza lavoro, “per dirottare i propri investimenti verso le principali priorità”, con una semplice e-mail lontana anni luce da una qualsiasi espressione di rispetto per i propri dipendenti.

    Tra latifondismo, volontà monopolistica e modalità spregevoli di licenziamento degne di coltivatore di cotone,  i simboli eletti a rappresentanti della nuova modernità e sempre all’interno del filone politico del “politically correct” assomigliano quindi sempre più alle vecchie e anacronistiche figure dell’ottocento.

    La storia si ripete.

  • Quest’anno le colf costeranno il 9,2% in più alle famiglie

    Datori di lavoro e sindacati non sono riusciti a mettersi d’accordo su un’eventuale dilazione temporale degli incrementi salariali di colf, badanti e baby sitter. E per questo da gennaio le retribuzioni dei lavoratori del settore domestico, adeguandosi all’inflazione, aumenteranno del 9,2%. In base a quanto previsto dall’articolo 38 del contratto nazionale, per i salari minimi del comparto è previsto un adeguamento al costo della vita secondo l’indice Istat all’80% per i salari e al 100% per le indennità di vitto alloggio e le associazioni dei datori di lavoro avevano proposto di scaglionare gli aumenti dovuti agli assistenti familiari nel corso dell’anno, in modo da limitare l’impatto economico dei rincari sui budget familiari.

    Una badante formata convivente livello D super (per una persona non autosufficiente) potrà costare fino a 1.384 euro al mese oltre a 194 euro di indennità e la quota di mensilità aggiuntive quali tredicesima e Tfr. Le variazioni sono in vigore dall’1 gennaio 2023 e dalla stessa data vanno aggiornati anche i valori dei contributi che secondo l’Assindatcolf dovrebbero crescere di circa l’8%.

    Per una badante non formata di persona non autosufficiente ci vorranno almeno 1.120 euro al mese oltre a quote di tredicesima e Tfr mentre per il livello A (assistente familiare generico convivente, ad esempio addetto alle sole pulizie) basteranno 725 euro. Se si ha bisogno di una baby sitter o di una assistente di persone autosufficienti (livello BS) la retribuzione minima contrattuale mensile sarà di 988,90 euro mentre per un assistente con specifiche conoscenze di base (ad esempio un cuoco), livello C ci vorranno almeno 1.054,85 euro oltre alle quote delle mensilità aggiuntive.

    Per i lavoratori domestici non conviventi la retribuzione oraria minima andrà da 5,27 euro per il livello A (colf generica) a 9,36 euro l’ora per l’assistente familiare D super passando per la retribuzione oraria minima per la baby sitter di 6,99 euro. Nel caso di persone non autosufficienti le famiglie dovranno mettere in programma però spese molte più alte perché oltre alla retribuzione per la badante e ai contributi dovranno considerare anche le sostituzione nei giorni di riposo e nelle ferie oltre all’assistenza notturna. Per l’Assindatcolf per la figura professionale più formata e qualificata del comparto la famiglia potrebbe spendere fino a quasi 2mila euro al mese senza considerare le sostituzioni. Dall’Associazione però fanno sapere che la maggior parte dei contratti per le badanti riguardano i livelli CS ovvero quelli per le assistenti che seguono persone non autosufficienti senza avere le abilitazioni per un totale mensile compresi i contributi che supera i 1.500 euro.

  • Scomparsi 343mila lavoratori autonomi tra il 2018 e il 2021

    Lavoro autonomo in affanno nel nostro Paese, ancor prima dell’arrivo della pandemia da Covid-19: dal 2018 al 2021, infatti, sono andati in fumo 343.000 posti fra gli occupati indipendenti, un segmento che, tuttavia, continua ad investire nel personale, visto che al 31 dicembre dell’anno passato “si contano oltre 41.000 attivazioni nette negli studi professionali, contro le 29.000 rilevate nel 2019”.

    In generale, come certificato dall’Inps, i contratti di subordinazione hanno rialzato la testa, se si considera che “le assunzioni, nei primi nove mesi del 2022, sono state 6 milioni 227.000, con un aumento del 17% rispetto allo stesso periodo” dell’annualità precedente, perciò nei primi 3 trimestri dell’anno in corso “i flussi nel mercato del lavoro (assunzioni, trasformazioni, cessazioni) hanno completato la ripresa dei livelli pre-pandemici”. È contenuta in due diversi documenti, presentati oggi, la fotografia dell’occupazione autonoma e dipendente nazionale: da un lato c’è la rilevazione di Confprofessioni e, dall’altro, l’Osservatorio sul precariato dell’Istituto di previdenza pubblico. Nel primo si mette in luce come l’aggregato dei liberi professionisti “conti poco meno di un milione 402.000 soggetti, numeri che corrispondono al 6,2% degli occupati e al 28,5% del complesso del lavoro indipendente” della Penisola; la Confederazione presieduta da Gaetano Stella, a seguire, punta i fari sul reddito medio mensile netto dei liberi professionisti che, a cinque anni dalla laurea, è pari a 1.678 euro, mentre quello dei dipendenti si attesta sui 1.625 euro, con la variazione positiva che “appare particolarmente accentuata tra le professioniste donne (+58%), che “nel 2014 risultavano il gruppo a più basso reddito tra gli occupati” freschi di titolo di studio e oggi, invece, “hanno una remunerazione più elevata delle colleghe subordinate”.

    L’Inps, intanto, insieme alle assunzioni dei primi nove mesi del 2022, che hanno oltrepassato i 6,2 milioni, rileva pure che le trasformazioni di contratti da tempo determinato nei primi 3 trimestri dell’anno “sono risultate 553.000, in fortissimo continuo aumento, rispetto allo stesso periodo del 2021 (+61%)”, mentre le cessazioni, nei primi nove mesi del 2022, sono state 5 milioni 571.000. Una ‘galassia’, quella occupazionale, su cui s’è espresso il ministro del Lavoro Marina Calderone, al convegno di Confprofessioni, garantendo il suo impegno per dare “pari dignità” all’attività degli autonomi e dei dipendenti.

  • Il presidente del Ghana esorta l’Africa a smettere di “mendicare”

    Il presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo, ha affermato che i paesi africani devono smettere di “pregare” l’Occidente per guadagnarsi il rispetto globale e cambiare la percezione errata del continente.

    “Se smettiamo di essere mendicanti e spendiamo soldi africani all’interno del continente, l’Africa non avrà bisogno di chiedere rispetto a nessuno, se la rendiamo prospera come dovrebbe essere, il rispetto arriverà”. Le parole sono state pronunciate durante l’apertura del vertice dei leader USA-Africa a Washington DC al quale partecipano decine di leader africani per discutere della cooperazione con gli Stati Uniti mentre cresce l’influenza cinese e russa nel continente.

    Akufo-Addo ha sollecitato una maggiore solidarietà tra gli africani per affrontare le aspirazioni condivise.

    “Gli africani sono più resilienti al di fuori del continente che all’interno. Dobbiamo tenere presente che per il mondo esterno, [non c’è] niente come la Nigeria, il Ghana o il Kenya, siamo semplicemente africani. Il nostro destino come persone dipende l’uno dall’altro”.  Per il presidente il continente dispone di capacità e manodopera, ma necessita di una volontà politica concertata per far “funzionare l’Africa”.

    Le osservazioni di Akufo-Addo sono arrivate il giorno in cui il Fondo monetario internazionale ha accettato di concedere al Ghana un prestito di 3 miliardi di dollari (2,4 miliardi di sterline) per alleviare una recessione economica senza precedenti nel paese dell’Africa occidentale.

    Decine di leader africani sono a Washington per discutere della cooperazione con gli Stati Uniti in mezzo alla crescente influenza cinese e russa nel continente.

  • Il Censis stima due milioni di Neet in Italia e ne individua al Sud quasi 1 su 3

    “Il fenomeno della dispersione scolastica dei 18-24enni riguarda in Italia in media il 12,7% di loro, percentuale che al Sud sale al 16,6%con un distacco di 7 punti dalla media europea del 9%”.

    Allarmano il mondo della scuola i dati forniti oggi dal direttore del Censis, Massimiliano Valerii, nell’ambito del convegno annuale dell’Associazione nazionale presidi, una intensa giornata di talk, workshop e tavole rotonde che ha acceso i riflettori su tutte le criticità del panorama scolastico.

    Non confortanti sono anche i dati sui Neet, gli under 30 che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in un percorso di formazione  su cui lo stesso ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, è al lavoro per avanzare una proposta. “La media europea – ha spiegato sempre Valerii – è del 13,1%, in Italia del 23,1%, cioè riguarda due milioni di persone. Al Sud il dato è ancora più drammatico salendo al 32,2%, 19 punti in più della media europea”.

    La dispersione scolastica si riaffaccia dunque con tutta la sua drammaticità in una scuola, ha ribadito oggi il ministro, che vuole rimettere al centro i principi di merito, autorevolezza, rispetto e tornare ad essere “ascensore sociale”. Con un chiarimento da parte del titolare del dicastero sull’idea di sanzioni contro gli studenti violenti che prevedano il ricorso ai lavori socialmente utili: “Se sospendo per un anno un ragazzo – ha spiegato davanti all’assemblea di dirigenti scolastici – non faccio il bene del ragazzo e della società, quel ragazzo magari diventerà persino un deviante e quindi accentuerà le sue propensioni devianti verso altre derive che possono essere socialmente pericolose mentre invece molto meglio sarebbe coinvolgerlo in lavori socialmente utili.  Dobbiamo insegnare ai ragazzi a maturare e a crescere”.

    La dispersione scolastica in Italia è figlia in gran parte dell’indigenza delle famiglie, dal momento che un milione e 400mila giovani vivono in condizioni di povertà assoluta. Ma trae la sua origine anche dai fattori che determinano le disuguaglianze educative, rimuovere i quali è l’obiettivo dei Patti Educativi Territoriali, accordi tra istituzioni scolastiche, Enti Locali e associazioni del Terzo Settore, che coinvolgono intere comunità locali in progetti di crescita e di sviluppo per il rilancio di territori marginali.

  • Fallocrazia

    Oggi è il giorno della resa. Sì. Della resa. Inutile combattere. Inutile indignarsi. Inutile tutto. 25 novembre giornata internazionale per l’eliminazione contro la violenza sulle donne. 8 marzo giornata mondiale delle donne, anch’essa nata su una tragedia. E l’elenco è lungo. Quote rosa, nella politica, nei consigli di amministrazione; tante femministe fanno pure spallucce e le definiscono strumento criticabile, ma necessario. Necessario! Imporre la A di genere nella lingua italiana, storpiandola. Persino un neologismo, femminicidio, coniato per cristallizzare un reato (omicidio non basta?). Corsi di difesa femminile che si moltiplicano come funghi. Parità sul lavoro e di salario che ancora guardiamo con il binocolo pur vivendo nell’Italia della Costituzione “più bella del Mondo”. Quella dell’Art.1, “fondata sul lavoro”. Ed eccoci al bandolo della matassa: siamo certi che il lavoro sia un diritto e non uno strumento che ci rende libere, liberi? Se fosse retribuito nel modo giusto, equo non per parità di genere bensì di ruolo, aiuterebbe le donne concretamente garantendo loro l’indipendenza economica e quindi, se necessario, la fuga da chi ha tradito la loro fiducia prima che accada l’irreparabile. E questo è un fatto, non una considerazione. Empowerment femminile…all’alba dei miei 50 anni sono sfiduciata, certa che tra un anno saremo ancora qui a parlarne.

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