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  • In attesa di Giustizia: riforme riformate

    C’erano molte aspettative alla nomina di Carlo Nordio come Ministro della Giustizia e, per chi come me lo conosce personalmente bene da decenni, non c’era da stupirsi che abbia fatto precedere il suo ingresso in via Arenula da ottimi intendimenti.

    Innanzitutto depenalizzare: il nostro sistema è tutt’ora ingolfato da centinaia di “reati nani”: dall’impiego di stalloni non autorizzati nelle fiere equine all’uso falsificato del marchio “prosciutto di Parma” che ben potrebbero essere ricondotti ad illecito amministrativo e sanzionati con una multa, senza intasare le Procure ed i Tribunali con adempimenti non evitabili a discapito di efficienza da destinare ad indagini di maggiore rilevanza, riducendo anche i tempi biblici che affliggono i processi. Risultato, dopo un biennio: sono stati introdotti nel codice e nelle leggi speciali almeno una ventina di reati nuovi ed assolutamente inutili, spesso ricorrendo alla decretazione di urgenza e l’ultimo in ordine di tempo è quello a tutela delle aggressioni del personale sanitario. Un intendimento condivisibile, ci mancherebbe, se non fosse che quelle inaccettabili condotte sono già sanzionate da più di una ipotesi di reato: dalla violenza privata alle lesioni personali per non parlare del danneggiamento e financo il sequestro di persona e le pene già previste non sono propriamente bagatellari.

    Si chiamano “norme manifesto”, e sono quelle volte a soddisfare la pancia dell’elettorato (garantendosene il consenso) mostrando efficientismo della politica a fronte di emergenze con il ricorso – ormai abitualmente – al diritto penale che è, e dovrebbe restare, un sistema di controllo sociale sussidiario.

    L’unico reato depenalizzato, viceversa, è stato l’abuso di ufficio contro la cui abrogazione, dopo quaranta giorni dalla entrata in vigore, sono già almeno tre le eccezioni ben motivate di illegittimità costituzionale sollevate da altrettante Procure e sollecitamente trasmesse alla Consulta dai Tribunali.

    Si tratta, in effetti, di una norma evanescente che provoca la cosiddetta burocrazia difensiva e la sindrome da firma da parte degli amministratori pubblici intimoriti all’idea di finire sotto processo per un nonnulla, rimanerci per anni perdendo onorabilità e lavoro salvo poi essere assolti come dimostrano inesorabilmente le statistiche. Forse valeva la pena fare un ulteriore tentativo (sino ad ora sono stati più di uno, tutti infruttuosi, anche negli ultimi anni) per dare concretezza ad una fattispecie sfuggente al canone di tassatività imposto dalla Costituzione.

    L’incertezza del diritto in questo settore è destinata a permanere anche con riguardo a quell’ulteriore “reato avamposto” rispetto alla corruzione che è il traffico di influenze: una ipotesi, basti dire, che quando fu introdotta – nel 2012 – venne definita dal Prof. Tullio Padovani, una delle eminenze grigie del diritto penale, “…come la Corazzata Potiomkin: una boiata pazzesca”. Ebbene, anche al traffico di influenze si è messo mano per meglio definire un’ipotesi di reato fumosa caratterizzata, come l’abuso di ufficio, da un numero elevatissimo di archiviazioni e assoluzioni non prima di aver rovinato la vita agli indagati; il risultato è che anche questa porzione di una riforma entrata in vigore a fine agosto è già stata spedita al vaglio della Corte Costituzionale non appena ripresa l’attività giudiziaria dopo il periodo di pausa feriale. Bastava, invece, licenziare uno dei numerosi disegni di legge languenti da tempo immemorabile alle Camere volti a regolamentare il cosiddetto lobbyng per definire cosa sia lecito fare e cosa no nei rapporti tra “facilitatori” e pubblici funzionari, ma tant’è.

    In conclusione, in queste riforme già prossime ad essere riformate si intravede una politica arruffona e digiuna di diritto, lo zampino di sabotatori interni all’Ufficio Legislativo del Ministero, il mistero di un Guardasigilli che è personalità di valore, come Marta Cartabia che lo ha preceduto: entrambi hanno apposto l’imprimatur e dato il nome ad interventi che, quando non inguardabili, propongono ragionate perplessità.

  • Follia e follia

    La politica, i media, come un poi noi tutti, parlano spesso di sanità: attese infinite, carenza di personale, nuove scoperte scientifiche, allungamento delle aspettative di vita, necessità di cure differenziate a seconda del sesso, prevenzione anche attraverso più sani stili di vita. Molte promesse e qualche risultato.

    Intanto cresce, ogni giorno di più, la disperazione delle tante famiglie lasciate senza aiuto e che devono gestire un parente, spesso un figlio, con gravi problemi psichici, famiglie che si confrontano quotidianamente con la violenza e l’impossibilità di trovare soluzioni.

    Leggi inadeguate o mai attuate non danno possibilità di assistenza mentre sappiamo tutti che non basta prescrivere qualche farmaco per guarire o tenere sotto controllo persone che, non per loro colpa, non possono controllarsi.

    Nel 1978 la legge 110, detta anche legge Basaglia, chiuse i manicomi, i terribili ghetti dove molte persone restarono per tutta la vita ma, come purtroppo spesso avviene, non si tenne conto che contestualmente, anzi prima dell’entrata in vigore della legge, avrebbero dovuto essere create strutture, emanate norme che impedissero che questi malati fossero di fatto abbandonati, con le loro famiglie, ad un vero e proprio calvario.

    Oggi si parla, dopo i guasti veri e presunti che il covid ha fatto sulle menti di tanti, specie dei più giovani, di un obolo per lo psicologo, di psicologi nelle scuole, ma non si parla dei gravi danni che l’uso smodato, e scorretto, della Rete, che non ha regole, fa quotidianamente né si affrontano i terribili problemi che le famiglie, spesso composte da genitori anziani, devono affrontare con un malato psichico in casa.

    La malattia non può essere azzerata, guarita, eliminata dalla legge ed una legge quando non è in grado di valutare a monte le conseguenze che comporta la sua applicazione è anch’essa una legge malata ed è malato di incomprensione ed indifferenza tutto quel mondo politico, di ogni colore, che dal 1978 ad oggi non ha saputo trovare, dare, al territorio risposte celeri ed adeguate.

    Nel frattempo abbiamo assistito a vere e proprie tragedie annunciate, delitti che avrebbero potuti essere impediti, perché oltre a non esserci servizi e strutture per aiutare i malati psichici e le loro famiglie non c’è neppure prevenzione. Ad ogni tragedia, ad ogni morte, dolore e stupore, sgomento e poi silenzio.

    Ci sono vari tipi di follia, in alcuni casi l’assistenza e la medicina, il controllo e la comprensione, la libertà e la vigilanza possono fare molto per le famiglie e per il malato psichico, in altri casi, come per quello della follia politica che non fa comprendere i reali bisogni di una parte della popolazione, comincio a temere non vi sia alcuna cura.

  • In attesa di Giustizia: galline in attesa di giustizia

    Solo gli sciocchi non sono in grado di riconoscere i propri errori e cambiare opinione se adeguatamente avviati sulla strada del ripensamento: di recente questa rubrica ha affrontato il tema – di grande attualità – del trattamento penitenziario riservato dall’Ungheria ad una nostra concittadina (e non solo a lei, per non discriminare nessuno) e della diversità dei codici e degli apparati giudiziari europei, con buona pace del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie che affonderebbe (condizionale d’obbligo) nelle comuni radici e tradizioni continentali e nella condivisa Convenzione dei Diritti dell’Uomo.

    Aspre critiche sono state mosse al mancato ravvicinamento dei sistemi penali, lamentando che questa non sia l’Europa che avrebbe dovuto unire gli uomini facendoli sentire “cittadini europei”…eppure, qualcosa si muove, anzi si è mosso e già da molto tempo in questa direzione ed in questo numero è cosa buona e giusta fare ammenda di quelle che paiono rivelarsi infondate doglianze.

    La buona notizia, ingiustamente sottovalutata e che riabilita un’Unione Europea – attenta a dettarci regole, regolamenti e codicilli con una frequenza tale da trasformarli in imposizioni – riguarda la tutela offerta alle galline ovaiole e parliamo dell’attuazione ad una direttiva nientemeno che del 1999 a cui noi italiani ci siamo tardivamente e colpevolmente adeguati con una delega al Governo del 2003 volta a provvedere al riordino e la revisione della disciplina sanzionatorio in materia di protezione delle galline ovaiole.

    Era ora: queste simpatiche bestiole da cortile aspettavano da anni un po’ di tutela e di giustizia! Forse non a caso il nostro provvido legislatore ha inserito il tutto nel medesimo disegno di legge che regola la responsabilità civile dei magistrati prevedendo un inasprimento delle pene già esistenti da irrogare a chi delinqua contro le gallinelle con pene “da irrogare secondo principi di effettività, proporzionalità e dissuasività” nonché mediante “riformulazione e razionalizzazione e graduazione dell’apparato sanzionatorio”.

    Ci mancherebbe altro! E, si badi bene, la Corte Costituzionale insegna che non vi è disparità di trattamento tra galline ovaiole e nullafacenti perché la diversificazione è conseguente alla esigenza di regolamentare situazioni non omogenee (volete mettere quelle adorabili creature che vi mettono l’ovetto in tavola con quelle scansafatiche che si limitano a razzolare tutto il giorno becchettando granaglie?).

    La questione è molto seria: nessuno leda i sacrosanti diritti delle galline e di ogni altra specie, è l’Europa che ce lo ha chiesto e bene ha fatto il legislatore nazionale, severo ma giusto, ad intervenire con l’autorevolezza che gli è propria.

    Certamente, dopo essersi occupato di “adeguare gli stabilimenti di allevamento” per queste docili fattrici, dispensatrici di gioie ai galli del pollaio, non sarebbe male che il Parlamento si occupasse  anche di adeguare agli standard di un paese civile gli stabilimenti di detenzione per coloro che sono in attesa di giudizio o in espiazione delle pene…perlomeno una volta risolto quel problemino legato alla carenza di organico di circa 18.000 Agenti di Custodia (i cui stipendi, ahimè costano…), misurato sulla attuale struttura carceraria e che è destinato ad aumentare vertiginosamente se la soluzione fosse quella di costruire nuove carceri o ristrutturare quelle già esistenti e in disarmo: a Monza, per esempio, ce n’è una in pieno centro abbandonata da decenni e divenuta luogo di rifugio di topi, ragni e salamandre ed in progressiva rovina. Ed è solo un esempio: nel Paese ce ne sono una quarantina, alcune mai neppure entrate in funzione: da Arghillà (RC) per mancanza di allacciamento idrico a Busachi, in Sardegna, un’altra frettolosamente chiusa e lasciata alle intemperie da lustri è quella di Pinerolo, altre ancora hanno i lavori fermi da tempo immemorabile per mancanza di fondi e nel frattempo vengono saccheggiate di quello che può tornare utile altrove: dai gabinetti ai serramenti.

    Ma questi sono problemi tipicamente nostri, di un’Italia che – per fortuna – sta al passo con i partner europei e garantisce alle galline il giusto processo.

  • In attesa di Giustizia: fantasia al potere

    Settimana abbastanza tranquilla sul fronte giudiziario, nella misura in cui i magistrati non si sono arrestati tra di loro e sembra che sia avviata alla conclusione la storia infinita della nomina del Procuratore Capo di Roma mentre quello di Milano – Francesco Greco – ha festeggiato il settantesimo compleanno e con esso la pensione che comporta anche l’esaurirsi automatico di un procedimento disciplinare che fu avviato, un paio di mesi addietro, mancando già dei tempi tecnici per arrivare ad una decisione proprio per l’imminente pensionamento; nel frattempo, l’indagine cui era sottoposto a Brescia si avvia all’archiviazione.

    Insomma, tutto è bene quello che finisce bene, ma non per tutti: come per Riccardo Fuzio, già Procuratore Generale della Cassazione che aveva confidato a Luca Palamara l’esistenza dell’inchiesta aperta a Perugia nei suoi confronti, e che era stato assolto dalle accuse di rivelazione di segreto d’ufficio.

    Contro questa sentenza si è, però, appellata in questi giorni la Procura Generale di Perugia (sede giudiziaria competente per i magistrati romani) e, parrebbe, con un certo fondamento: Fuzio, infatti, era stato prosciolto motivando che in occasione delle prime confidenze non vi era stata ancora secretazione degli atti: come se una delle più alte cariche del sistema giudiziario non sia comunque tenuto al riserbo a prescindere dalla esistenza di un passaggio meramente formale.

    La porzione più fantasiosa della motivazione è – però – quella che riguarda la rivelazione di altre notizie, quelle in seguito coperte dal segreto istruttorio: è stato, infatti, ritenuto che il fatto sia di particolare tenuità, quindi irrilevante dal punto di vista penale; si dice in sentenza che Palamara già sapeva qualcosa e che, quindi, si trattava di  innocenti ed innocui chiacchiericci tra vecchi amici e colleghi…senza considerare – tra l’altro – che i due, per accordarsi sul dove come vedersi e parlarne, a riprova che non fossero proprio sciocchezzuole, usassero telefoni a loro non riconducibili e stratagemmi vari per mantenere quegli incontri e i loro contenuti riservati.

    Il premio fantasia della settimana spetta però, ancora una volta e con pieno merito, al nostro legislatore. Albert Einstein diceva che il segreto della creatività è nel saper tenere nascoste le proprie fonti: il nostro Parlamento dispone, evidentemente, di fonti ispiratrici sulle quali è meglio stendere un velo pietoso. Ed è in ogni caso difficile individuarle tutte, salvo qualche celebre esponente del furore giacobino.

    La creatività, allora, si traduce non di rado in sciatteria normativa; d’altronde, come ricordava Cordero: «a terminologie esatte corrisponde chiarezza di idee». E di idee chiare non se ne segnalano molte, partitamente in materia di giustizia e legislazione.

    L’ultima perla partorita dalle Camere si rinviene nel nuovo codice della strada pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 9 novembre: per tutelare gli automobilisti ed evitare distrazioni alla guida viene introdotto il divieto di affiggere lungo le strade pubblicità con messaggi sessisti, discriminatori, lesivi delle diversità, dell’orientamento politico e religioso…concetti molto vaghi che riecheggiano i contenuti del d.d.l. Zan senza che sia ben chiaro a chi verrà assegnato il compito di valutare (e con che criteri) i cartelloni, tutti i cartelloni che fiancheggiano le decine di migliaia di chilometri di statali, provinciali, autostrade, tangenziali, strade urbane ed extraurbane e piste ciclabili, naturalmente. Come se, fino ai giorni nostri, se ne fossero visti molti.

    E’ vero, probabilmente e per esempio, che fu fatto molto peggio quando anni fa fu inserita una modifica della legge sul traffico di droga all’interno del decreto legislativo con cui venivano dettate disposizioni per l’organizzazione delle Olimpiadi invernali del Sestrière (poi dichiarate incostituzionali per eccesso di delega a distanza di anni, creando un putiferio per rimettere ordine nella infinità di processi celebrati e conclusi nel frattempo con pene tecnicamente illegali): che sia da considerare un segnale positivo? Ai posteri e a chi dovrà giudicare i “consigli per gli acquisti” l’ardua sentenza.

  • Una vera democrazia

    Uno Stato democratico deve tutelare le persone in quanto tali all’interno di sistema in continuo miglioramento. Per ogni fattispecie di reato nel codice penale vengono inserite le possibili aggravanti e le attenuanti generiche. Quando, invece, all’interno di una non meglio definita legislazione contro “i crimini d’odio” (definizione troppo vicina alla configurazione dei “reati di opinione”) ed altrettanto quando viene configurato un reato “specifico” come quello del femminicidio sulla sola base dell’appartenenza della  vittima ad uno specifico genere (femminile) in entrambi i casi  lo Stato propone una scelta che di per sé aggiunge una tutela in più rispetto ad un determinato genere ed automaticamente ne sottrae a tutti gli altri esclusi.

    In questo modo, invece di arginare un fenomeno terribile come quello dell’omicidio delle donne inasprendo le pene di omicidio e magari aumentando le risorse per il settore della giustizia, si preferisce introdurre “una specificità” attraverso un principio di disparità all’interno della legislazione nazionale punendo con maggiore durezza un reato in relazione al sesso di appartenenza della vittima. Di conseguenza, implicitamente, viene penalizzata una eventuale vittima del medesimo reato ma di sesso diverso per la sola “colpa” di non appartenere a quel genere al centro di un preoccupante fenomeno criminale.

    Ancora peggio quando si intendono introdurre nuove normative specifiche e contemporaneamente generiche contro i “crimini d’odio” in relazione alle legittime attitudini sessuali di ogni individuo qualora queste dovessero diventare oggetto di offesa.

    In questo modo lo Stato adotta ed introduce un ulteriore parametro di valutazione interpretativo (per altro demandato al giudice) in relazione non tanto ad una legittima gravità sociale già prevista dai codici quanto ad un giudizio arbitrario relativo alla tutela specifica a beneficio di determinati generi espressione di determinate attitudini sessuali. Un atteggiamento ed approccio storicamente perdente in quanto partirebbe dal principio in base al quale non riuscendo ad applicare la legge in modo da arginare un allarme e degenerazione sociale risulterebbe allora sufficiente aumentarne la pena per diminuirne l’allarme sociale.

    Viceversa, all’interno di uno Stato democratico e liberale non si considera la tutela della persona e della sua stessa vita in rapporto all’appartenenza ad uno specifico genere o, peggio ancora, ad una minoranza sociale definita solo sulla base delle proprie attitudini private e sessuali come la Lgbt: mai un ordinamento giuridico dovrebbe farne menzione in quanto sono di assoluta pertinenza privata legittimando di fatto una vera e propria ghettizzazione normativa.

    Come logica conseguenza la tutela, espressione specifica del genere sesso o di altre diverse attitudini sessuali, del singolo privato cittadino diventa automaticamente discriminante per i generi esclusi. In più nel nostro Paese, la cui gestione della macchina della giustizia risulta già ampiamente compromessa per la presenza di oltre centoundicimila (111.000) leggi, una norma che preveda una specifica aggravante in rapporto alle attitudini sessuali o l’appartenenza ad un genere rappresenta di per sé il venir meno del principio di uguaglianza, situazione ancora più evidente per i “reati d’odio”.

    Un principio democratico trae la propria massima forza dal riconoscimento esplicito di tutela per ogni singolo cittadino, quindi di qualsivoglia minoranza, indipendentemente dai connotati politici, sessuali o razziali assolutamente ininfluenti nella determinazione e nella applicazione del principio stesso.

    Una minoranza, sarebbe bene ricordarlo, è tanto più tutelata in un complesso sistema normativo quando all’interno del Codice Penale e civile non risultino presenti norme specifiche legate al “privato” e considerate come fattori caratterizzanti ed elementi distintivi. Qualora si intendesse inserire una tutela specifica sulla base di fattori che attengono alla vita privata, infatti, verrebbe meno l’essenza stessa dello Stato democratico e liberale declinando verso una entità pubblica la quale scegliendo delle protezioni specifiche aggiuntive introduce una propria valutazione anche in relazione all’allarme sociale del reato. In questo modo si inserisce un elemento di discriminazione sulla base dei comportamenti sessuali ed anche allora in un secondo momento della provenienza geografica o dell’etnia.

    La democrazia ha sicuramente dei costi, uno dei quali sicuramente viene rappresentato dall’atto di fiducia dei cittadini nei confronti dell’istituzione, consapevoli come sia sempre migliorabile e molto lontana dalla perfezione.

    Solo una vera Democrazia Liberale garantisce quindi la volontà di tutelare, anche se in modo imperfetto, le persone in quanto tali, senza distinzioni di sesso, etnia ed orientamento politico o sessuale.

  • Leggi chiare per garantire sicurezza e controlli

    Quanti anni ci vorranno per sapere chi è colpevole per il sistema antincendio che non ha funzionato e per lo scriteriato, criminale uso di materiali a rapida combustione utilizzati per il rivestimento del grattacelo Torre del Moro a Milano? E quanto tempo occorrerà perché le istituzioni verifichino, in tutta Italia, quanti altri stabili, costruiti per altro recentemente, siano a reale rischio incendi? Quando sarà attuata una legge ad hoc per impedire che gli incendi tramutino in pochi minuti un intero palazzo in un fiammifero? Quando i comuni avranno uffici tecnici capaci di valutare i materiali impiegati per l’edilizia?

    Dopo la tragedia del ponte di Genova stiamo ancora aspettando che siano messi a norma tutti i ponti e cavalcavia pericolanti e la maggior parte delle strade statali, provinciali e comunali presentano rischi continui per il grave dissesto del manto stradale. Far ripartire l’edilizia non è consentire nuove urbanizzazioni con un costante, tragico, dannoso ed inutile consumo del suolo ma far finalmente partire un reale monitoraggio della situazione delle vie di comunicazione e degli edifici pubblici e privati, monitoraggio che non può continuare ad essere fine a se stesso ma deve essere contestuale alle necessarie opere per la messa in sicurezza di tutto quanto resta al momento un pericolo per l’incolumità delle persone, basta pensare a quanti edifici scolastici sono ancora a rischio nonostante le promesse fatte ancora dal governo Renzi.

    C’è una carenza legislativa che va di pari passo con la carenza di controlli a tutti i livelli. Non vogliamo ancora più leggi che appesantiscano i già difficili iter burocratici ma vogliamo leggi chiare che garantiscano insieme lavoro e sicurezza e vogliamo che i controlli siano fatti da persone competenti e incorruttibili, i comuni e le regioni dovranno assumersi responsabilità concrete e lo Stato dovrà essere garante della loro efficienza, lo Stato deve essere capace di offrire normative che non consentano, tanto per cambiare, che si possa ancora dire “fatta la legge trovato l’inganno”. Anche per questo una maggiore lotta alla criminalità organizzata, che nell’edilizia, in modo palese o attraverso intermediari, ha trovato terreno di conquista insediandosi nei gangli vitali della società, è una priorità alla quale crediamo che il governo Draghi possa dare risposta, partiti politici e mondo imprenditoriale permettendo.

  • Il ruolo e le idee dei liberali italiani

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Presidente della Fondazione Luigi Einaudi, Giuseppe Benedetto, pubblicato sul ‘Corriere della Sera’ il 21 luglio 2021.

    Caro direttore,

    tutti gli elementi a disposizione portano a ritenere che nessuna intesa sarà possibile in questo scorcio di legislatura per il varo di una nuova legge elettorale, pur indispensabile alla luce dello sciagurato referendum costituzionale che, insensatamente, ha tagliato il numero dei parlamentari.

    La Fondazione Luigi Einaudi in quell’occasione ha dato un segnale preciso, portando, praticamente da sola, oltre il 30% degli italiani a votare contro quello scempio di democrazia. Quel seme darà i suoi frutti.

    E forse è possibile partire proprio da lì. Li c’è un’Italia che vuol voltare pagina.

    Oggi abbiamo una sinistra che vorrebbe tenere tutto insieme, senza una visione del futuro, in nome del pericolo rappresentato dalle «destre al potere», e una destra che continua a chiedersi «che cosa è», visto che è tutto e il contrario di tutto: europeista e sovranista, garantista e giustizialista, liberista e statalista.

    E poi c’è un’area centrale dell’elettorato, che potremmo definire liberale o per comodità «draghiana», su cui si incentrano le attenzioni di molti analisti politici.

    Dall’osservatorio privilegiato della Fondazione Einaudi scrutiamo sogni, ambizioni e velleità di questo mondo, che pur ci appartiene. Dicevo della legge elettorale, cioè delle regole del gioco. E le regole sono importanti, anche se non determinanti. Cercherò di spiegare il perché. Determinante è esistere, indipendentemente dalle regole del gioco, che in Italia cambiano anche troppo spesso.

    Primum vivere… i liberali tedeschi (Fdp) in questi decenni sono stati alternativamente al governo, presenti in Parlamento, ma anche al di fuori per non aver raggiunto la soglia di sbarramento (in Germania del 5%). Ma sono sempre loro, sono presenti e rappresentano una fetta di elettorato, anche un insediamento sociale ben individuato e indipendente dalle fortune elettorali. In Italia per tutta la cosiddetta seconda Repubblica un soggetto di tal fatta non è esistito.

    Dopo questa necessaria premessa torniamo alle «regole del gioco». Siamo ben consapevoli che anche se hai undici Maradona in squadra e quando entri sul terreno di gioco trovi i canestri del basket le buschi da chiunque. Ora i liberali italiani sono in una condizione anche peggiore: hanno undici leader che si credono ognuno un Maradona e che, nella maggior parte dei casi, non sono neanche Comunardo Niccolai (ricordo solo per i più anziani). Con l’aggravante che invece di giocare di squadra non solo non si passano la palla, ma quando passa vicino un compagno gli tirano un calcione. In queste condizioni è veramente difficile costruire alcunché.

    A chi quotidianamente chiede un intervento risolutivo alla Fondazione Einaudi rispondiamo sempre alla stessa maniera: siamo una fondazione culturale, vogliamo continuare ad occuparci di storia e cultura liberale, provvedano altri a svolgere il compito.

    Se si dovesse palesare qualcosa di serio e credibile all’orizzonte, la Fondazione Einaudi farà la sua parte. Fornirà idee, donne, uomini, docenti, professionisti di vaglia e progetti. Lo auspichiamo vivamente. Altrimenti, faremo di tutto per assicurare comunque la presenza di una pattuglia autenticamente liberale prima nel Parlamento italiano e, successivamente, nel 2024 nel Parlamento europeo.

    Non ha importanza come. Alleati con chiunque e a una sola condizione: che gli eletti si relazionino direttamente con il gruppo di Renew Europe e con il partito dei liberali europei (ALDE), inevitabilmente sempre più transnazionale. Insomma offriamo il meglio del nostro mondo a chi degli schieramenti in campo prospetterà le condizioni migliori, senza alcuna mediazione sulle nostre idee che sono e resteranno sempre le stesse: un europeismo senza se e senza ma; un garantismo intransigente; un economia di mercato in cui lo Stato faccia il suo, senza limitare concorrenza e innovazione affinché siano valorizzate le capacità di individui liberamente diseguali.

    Giuseppe Benedetto

    Presidente Fondazione Luigi Einaudi

  • Il disegno di legge Zan più che garantire i diritti sembra cercare vendette

    La sensazione che si ha sull’iter sempre più contorto che sta prendendo il disegno di legge Zan, che era stato concepito giustamente per difendere dalle discriminazioni le persone lgbt+, è che sembra esprimere un crescente spirito di rivalsa, che in alcuni passaggi deborda pericolosamente in desiderio di vendetta, con una deriva sui principi di libertà di espressione, che mai possono essere subordinati a interessi di singole categorie, senza rischiare di vulnerare irrimediabilmente la democrazia.

    Non è più uno scontro tra Destra e Sinistra ma, specie nel fronte progressista, emergono resistenze fortissime all’attuale stesura. Ed è questo che fa sorgere il sospetto che il vero obiettivo della norma celi ben altri inconfessabili obiettivi.

    E’ questo il caso dell’articolo 1 della legge, laddove si introduce un principio antropologico inedito con cui chiunque potrà, con la sua sola dichiarazione, affermare la sua “identità di genere” unicamente in base alla “sua percezione e indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”.

    Un fatto assurdo che metterebbe in discussione qualunque certezza giuridica e chiaramente discriminante per le persone etero sessuali, che in alcuni casi ne potrebbero essere danneggiate, anche gravemente. Basti pensare ai carcerati, che dichiarandosi con percezione personale donne, o uomini, potrebbero essere trasferiti nelle carceri del nuovo genere percepito con conseguenze per gli altri detenuti; o l’uso strumentale della dichiarazione per usufruire delle “quote rosa” e tanti altri casi ancora. Una assenza di qualsiasi certezza di diritto, che introdurrebbe caos e opportunismo, grazie ad una norma scritta senza alcuna specificazione ed indirizzo applicativo che possa renderla gestibile e legittima.

    O l’art. 4 della legge che, bontà sua, fa salve la libera di espressione di convincimenti e opinioni, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti, come se già non ci fosse la Costituzione a garantire tali libertà. Ma appunto è una falsa autorizzazione. Perché quando mai in una legge si è scritto un passaggio del genere, che in una vera democrazia nessuno aggiungerebbe essendo la base stessa della libertà? Se questo avviene nel ddl Zan è perché si vuole affermare il contrario e cioè che la distinzione tra propaganda, che sarebbe ammessa, e discriminazione, che sarebbe vietata, è lasciata letteralmente al caso, con la conseguenza che chi manifesterà per motivi religiosi o ideologici le proprie idee contrarie, ad esempio al matrimonio tra persone dello stesso sesso, o all’adozione omogenitoriale, o a qualsiasi altra questione attinente, pur senza nessuna volontà di istigazione alla discriminazione o alla violenza, sarà inibito dal farlo perché la valutazione sulla natura dell’intervento è lasciata alla percezione di chi ascolta e alla sua personale valutazione. Ed è questo il punto, chiunque esprima opinioni e giudizi di contrarietà a tali questioni, in qualsiasi sede e ruolo, il prete a messa, il politico nel comizio ecc.., può essere denunciato e sarà il giudice a stabilire se l’atto rientrava nelle specifica di propaganda delle idee, cosa legale, o di istigazione alla discriminazione, cosa illegale e punita con severità. Il risultato è che il ddl Zan fa lo scambio tra discriminazioni, si tolgono quelle subite fino ad ora e si mettono quelle nuove cui sottoporre i presunti precedenti aguzzini. Infine l’articolo 7 prevede l’istituzione della “Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia” che prevede che le scuole organizzino cerimonie e incontri ed altre iniziative di sensibilizzazione contro pregiudizi omotransfobici. Ed è da questo che traspare ulteriormente il senso di rivalsa e di prepotenza nell’imporre temi che inevitabilmente investono sfere di sensibilità fondamentali quali l’orientamento sessuale, a scolari e studenti cui non è mai neanche stata fatta una sola lezione di educazione sessuale, passando dalla sensibilizzazione alla lotta contro la discriminazione, alla propaganda di scelte sessuali da sottoporre alla sensibilità di bambini e ragazzi in una età in cui tali “insegnamenti” potrebbero contribuire più che ad orientarli, addirittura a condizionarli, considerata l’assoluta assenza di esperienza e capacità di decidere consapevolmente sulla propria sessualità.

    Possono quindi definirsi democratici e responsabili partiti e leader degli stessi, che assecondino un provvedimento di tale ricercata prepotenza, nell’imporre, per come è stato scritto, una linea non di difesa della discriminazione, ma di offesa a chiunque la pensi in modo diverso? E rifiutare ogni modifica in quanto “snaturerebbe un provvedimento equilibrato”?

    E’ veramente oscena questa prepotenza e questo rifiuto di ascoltare le ragioni degli altri, che non a caso ha fatto breccia anche in molti ambienti della sinistra che hanno capito che siamo chiaramente di fronte ad una discriminazione al contrario. Andare all’approvazione della legge con la chiusura a qualsiasi forma di confronto, a parte l’antidemocraticità dell’atto, non aiuterà affatto le persone lgbt+, ma renderà ancora più forte il contrasto, a discapito proprio del principale obiettivo da perseguire, che è quello di creare una società dei diritti e del rispetto reciproco, non degli scontri e delle rivalse, che questa legge sembra privilegiare. Il ddl Zan va approvato con un serio confronto e la eliminazione delle prepotenze, per dare vita a un processo di vero rispetto fondato sulla tutela della dignità umana e del riconoscimento dei diritti per tutti, aborrendo ogni genere di discriminazione.

    *Già sottosegretario ai BB. AA. CC.

  • Unire le forze per legiferare meglio nell’UE e prepararsi al futuro

    La Commissione ha adottato la comunicazione “Legiferare meglio” con l’obiettivo di migliorare il processo legislativo dell’UE. Per agevolare la ripresa in Europa, è più che mai importante legiferare nella maniera più efficace possibile adoperandosi al contempo per rendere le leggi dell’UE più adeguate alle esigenze di domani.

    Fondamentale in questa ottica è la cooperazione tra le istituzioni dell’UE, con gli Stati membri e i portatori di interesse, come le parti sociali, le imprese e la società civile. Per contribuire ad affrontare i problemi attuali e futuri, la Commissione propone di:

    Eeiminare gli ostacoli e gli oneri burocratici che rallentano gli investimenti e costruire le infrastrutture del XXI secolo, collaborando con gli Stati membri, le regioni e le principali parti interessate.

    Semplificare le consultazioni pubbliche introducendo un unico invito a presentare contributi sul portale “Di’ la tua”, di recente migliorato;

    adottare un approccio “one in, one out”, al fine di ridurre gli oneri amministrativi per i cittadini e le imprese, prestando particolare attenzione alle implicazioni e ai costi dell’applicazione della legislazione, soprattutto per le piccole e medie imprese. Tale principio garantisce che gli eventuali nuovi oneri introdotti da una nuova legge siano controbilanciati dalla riduzione di oneri precedenti nello stesso settore di attività;

    integrare gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, per garantire che le proposte legislative contribuiscano all’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile;

    adoperarsi ancora di più per far sì che legiferare meglio promuova la sostenibilità e la trasformazione digitale;

    integrare la previsione strategica nel processo di elaborazione delle politiche, per rendere queste ultime adeguate al futuro, ad esempio tenendo conto delle megatendenze emergenti in ambito ecologico, digitale, geopolitico e socioeconomico.

    Legiferare meglio è un obiettivo e una responsabilità condivisa di tutte le istituzioni dell’UE. Avvieremo con il Parlamento europeo e il Consiglio un dialogo per quanto riguarda il loro impegno ai fini della valutazione e del monitoraggio dell’impatto della legislazione dell’UE e dei programmi di spesa dell’UE. Inoltre, coopereremo più strettamente con le autorità nazionali, regionali e locali e le parti sociali per l’elaborazione delle politiche dell’UE.

    Alcuni degli elementi nuovi di questa comunicazione sono già stati avviati nella pratica, come le attività della piattaforma Fit for Future, che fornisce consulenza su metodi per agevolare l’applicazione della legislazione dell’UE e renderla più efficace e più adatta al futuro. Le altre componenti saranno attuate nei prossimi mesi. Tra le iniziative di quest’anno vi sono l’indagine annuale sugli oneri 2020, che espone i risultati per quanto riguarda l’obiettivo della Commissione di ridurre gli oneri; gli orientamenti e strumenti per legiferare meglio, riveduti al fine di tenere conto dei nuovi elementi della comunicazione, che forniscono ai servizi della Commissione europea linee guida concrete per la preparazione di nuove iniziative e proposte e per la gestione e la valutazione di quelle già in corso.

    Nel 2019 la Commissione ha effettuato un bilancio della sua agenda “Legiferare meglio”, che ha confermato che nel complesso il sistema funziona bene, pur richiedendo miglioramenti che scaturiscano dall’esperienza acquisita.

    L’UE vanta un’esperienza di lunga data, che risale al 2002, per quanto riguarda l’elaborazione di politiche basate su dati concreti, compresa la riduzione degli oneri normativi: valutazioni periodiche della legislazione in vigore, un sistema molto avanzato di valutazione d’impatto, un approccio di primo piano alla consultazione dei portatori di interessi e un programma complessivo di riduzione degli oneri amministrativi (REFIT).

    Fonte: Commissione europea

  • In attesa di Giustizia: a proposito di informazioni di garanzia

    L’articolo 111 della Costituzione recita che “la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa”: risiede in questa previsione l’istituto della informazione di garanzia che – però – non di rado viene notificata in coincidenza con la conclusione delle indagini (di cui, fino ad allora, l’accusato nulla sapeva) e quindi anche a distanza di anni non solo dai fatti ma anche dall’inizio delle indagini, con buona pace dell’allestimento di una efficace e tempestiva difesa. Oppure, si assiste a una velocissima comunicazione, normalmente priva dei crismi di riservatezza: dipende chi è il destinatario e la natura delle accuse.

    E’ storia recentissima: una funzionaria del M.I.U.R. apprende di essere indagata dalla Procura di Roma per corruzione, del fondamento dell’accusa nulla sa né può sapere perché l’informazione di garanzia contiene solo l’incolpazione preliminare: poco più che la parafrasi di un articolo del codice penale, i tempi per saperne di più e potersi effettivamente ed efficacemente difendere non saranno brevi e la donna lo immagina. Nell’attesa di incontrare il suo avvocato, mentre lo attende in sala di aspetto, cede alla disperazione e si lancia dalla finestra. Ora lotta tra la vita e la morte.

    Non sappiamo molto di questa signora e molto poco della sua vicenda: ma sono note le dinamiche sempre drammatiche che si innestano nella mente di una persona che, raggiunta da un grave sospetto, diventa una preda del branco di cacciatori di notizie, e se c’è di mezzo la Pubblica Amministrazione è sempre caccia grossa. Perché di questo si tratta: nel nome di un malinteso diritto-dovere di informare i cittadini, il mostro – anzi il presunto tale – viene subito sbattuto in prima pagina. Peccato che l’informazione non c’entri nulla: come si fa a dare informazione di qualcosa che non si conosce? Come si può rivendicare il diritto di diffondere una notizia geneticamente parziale ed unilaterale di cui non si è in grado di verificare la fondatezza? Un’ avviso di garanzia non fornisce dati sufficienti nemmeno all’indagato, figuriamoci a chi non sa nulla della vicenda…a tacer del fatto che, di per sé, quella notizia è (o sarebbe…) coperta dal segreto investigativo. Non è, non dovrebbe essere divulgabile la notizia della pendenza di una indagine su qualcuno ma le sanzioni sono ridicole, anzi inesistenti. Ovviamente, la cronaca di una indagine in corso non potrà che essere interamente modellata sulla ipotesi accusatoria, perciò parziale, e rispetto alla quale le persone coinvolte sono prive di un diritto di replica. Cosa dovrebbero dire: “sono innocente”? Come no, pensa che notiziona.

    L’ipocrisia e la viltà intellettuale che ruota intorno a questa malposta rivendicazione del diritto–dovere di informazione è intollerabile. Cosa viene sottratto alla conoscenza pubblica, vietando la diffusione di quella che è in realtà una non-notizia? Un P.M. che riceve comunicazione di un fatto che egli reputa potrebbe avere rilievo penale iscrive l’indagato nell’apposito registro ed inizia la sua attività di verifica e di approfondimento investigativo. Tutto qui, e in nome di quale diritto, e del diritto di chi soprattutto, deve essere lecito rendere pubblico un fatto che, per sua natura, è lontanissimo dall’aver raggiunto connotazioni non solo di certezza, ma nemmeno di plausibilità? Si tratta di una ipotesi unilaterale che ancora non si è nemmeno misurata con una seppur sommaria confutazione difensiva.

    Tuttavia, l’informazione anche solo limitata ad una ipotesi investigativa, è dotata di una forza devastante che attrae morbosamente la pubblica opinione per la quale una semplice tesi accusatoria si presuppone fondata promanando da soggetti assistiti da una presunzione assoluta di affidabilità, attendibilità ed imparzialità.

    Vi è poi la regola non scritta del più becero populismo giustizialista, secondo cui se un personaggio pubblico -politico, pubblico amministratore- viene raggiunto dal sospetto, merita perciò stesso che la notizia abbia la massima diffusione.

    Il costo che la persona raggiunta dagli strali della cultura della intolleranza e del sospetto deve pagare è sproporzionato rispetto al preteso diritto di informazione che vorrebbe giustificalo. Vita professionale, politica, familiare travolte spesso in modo irreparabile, reputazione personale inesorabilmente compromessa con brutale violenza dai morsi feroci della gogna mediatica.

    Nessuna vicenda umana dovrebbe affidarsi a valutazioni semplificate, meno che mai se si tratta di una vicenda giudiziaria: tra l’innocenza e la colpevolezza vi è una vasta gamma di comportamenti (imprudenze, equivoci, coincidenze, gravi azzardi) che ciascuno di noi deve poter avere il diritto di chiarire e spiegare, a sé stesso ed agli altri, prima di essere trascinato nel fango, e nella disperazione alla quale ha ceduto questa signora.

    Qualunque cosa possa aver fatto o non fatto, ha semplicemente capito di non avere già più il tempo per spiegare e di attendere Giustizia.

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