magistrati

  • In attesa di Giustizia: macro ematurie

    Cosa saranno mai le macro ematurie? Chiedetelo ai giudici, quelli che le sanno tutte, anche più dei medici, o almeno così credono: sono versamenti di sangue nelle urine ed è dovuta intervenire la Cassazione per chiarire quale sia il perimetro entro il quale una Corte d’Appello può sindacare la gravità di questa o altra patologia e se ne derivi l’impossibilità di presenziare ad un’udienza.

    Non importa più di tanto sapere dove si sono svolti i fatti perché taluni comportamenti arroganti si manifestano indifferentemente ovunque; siamo, comunque, in una sede di Corte d’Appello, e perviene ad una sezione l’istanza di rinvio di un procedimento da parte di un avvocato che giustifica la sua impossibilità ad essere presente con un certificato medico che attesta “dolori a tipo colica renale con macro ematuria e necessaria permanenza a casa per sottoporsi a terapie domiciliari per almeno due giorni”; le Loro Eccellenze, quand’anche non avessero studiato il greco al liceo classico, nel dubbio, non avrebbero avuto difficoltà a “googlare” cosa sono le macro ematurie, scoprendo che si tratta di presenza consistente di sangue nelle urine mentre la “colica renale” non richiede competenze linguistiche essendo ben noto cosa e quanto dolorosa sia.

    Con la concretezza tipica dei grandi giuristi questi tre saggi magistrati hanno colto l’essenza del problema risolvendolo con una decisione tranchant: trattasi di certificato di comodo perchè non accompagnato da riscontro diagnostico strumentale ed altresì perché le coliche renali, notoriamente, determinano conseguenze fisiche non fronteggiabili in pochi giorni. Periti dei periti…

    Peraltro, un “certificato di comodo” dovrebbe, appunto, far comodo a qualcuno nel determinare un rinvio dell’udienza ma la Corte non spiega neppure quale potrebbe essere l’infingarda e sottintesa intenzione dell’avvocato: non certo guadagnare tempo per la prescrizione perché in questi casi il rinvio determina la sospensione del tempo necessario a prescrivere. E allora? Era una bella giornata e voleva andare al mare, aveva sonno, non aveva studiato il processo? Invece nulla di nulla, a dimostrazione di come ci si compiaccia nel dimostrare l’arroganza di un dilagante potere e la pochissima considerazione della difesa, del diritto di difesa; i lettori forse ricorderanno – è di poche settimane fa – analoga vicissitudine di un avvocato catanese impossibilitato a recarsi in tribunale perché stava andando a fuoco la zona circostante la sua abitazione ma…non aveva documentato l’assoluta impossibilità di sfidare le fiamme.

    Il processo, pertanto, si è celebrato senza il difensore, con uno di ufficio raccattato all’ultimo momento ma sentenza e decisione sul rinvio che la precede sono stati impugnati in Cassazione…Cassazione che, già in passato, era dovuta intervenire – addirittura a Sezioni Unite – per affermare che è rilevante l’impedimento del difensore determinato da serie, imprevedibili ed attuali ragioni di salute debitamente documentate e tempestivamente comunicate. Un principio che dovrebbe essere ovvio ma evidentemente non lo era per tutti.

    La Corte di Cassazione ha fatto giustizia in solo un annetto di questo più recente scempio osservando che la qualificazione del certificato come “di comodo” non risultasse confermata da alcun elemento e che si sarebbe dovuta valutare la serietà dell’impedimento sulla scorta della certificazione rilasciata da uno specialista senza nulla in più pretendere in considerazione della repentina insorgenza del male. Una bacchettata finale è stata data osservando che le considerazioni svolte circa le conseguenze di una colica renale sono prive di qualsiasi riscontro scientifico.

    Giudici che si improvvisano biologi, medici, per quanto muniti solo dei personali pregiudizi, che puntano dritti alla meta dell’agognata celebrazione di un processo senza tanti orpelli, senza il fastidio di ascoltare il difensore: una giustizia così non è quella che ci si aspetta ed è confortante che sia stata ricacciata in un angolo dalla Corte Suprema perché, francamente, è essa stessa a generare un malore: dà la nausea.

  • In attesa di Giustizia: la vecchia guardia va in pensione ma non si arrende

    Non importa se sono state decine di migliaia i cittadini che hanno firmato  l’iniziativa di legge popolare per la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri, non importa neppure se alla Camera sono già in esame quattro diversi disegni di legge sia di maggioranza che di opposizione su questo argomento: la grave colpa per queste iniziative e la responsabilità sul loro possibile percorso parlamentare (che avrà inizio il 6 settembre) viene fatta ricadere su un uomo solo, come se fosse l’uomo solo al comando anche se così non è, Carlo Nordio, Ministro della Giustizia che – per la verità – è da sempre sostenitore di questa riforma.

    Una vecchia guardia composta da oltre trecento magistrati in pensione ha sottoscritto un appello inviato al Guardasigilli avvertendolo dei pericoli cui si andrebbe incontro se la separazione delle carriere diventasse realtà, chiedendo di fermare il percorso parlamentare: tra di loro vi sono giudici, P.M., civilisti e penalisti, molti dei quali sono nomi noti come l’ex Procuratore Generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che da P.M. ha a lungo indagato sulla strage di Ustica, o Francesco Greco, ex Procuratore Capo a Milano dove è stato componente storico del Pool “Mani Pulite”.

    Potevano godersi in pace la generosa pensione che lo Stato attribuisce loro, invece hanno ritenuto di riproporre i paventati rischi di questa riforma che, ab immemorabile, è invisa e contrastata con tutte le forze dalla magistratura associata di cui tocca un nervo scoperto; si ipotizza uno stravolgimento della Costituzione che porterebbe con sé la ricaduta antidemocratica della sottoposizione del Pubblico Ministero al potere esecutivo che avrebbe così la facoltà di inibire piuttosto che stimolare le indagini a seconda che attingano alleati od oppositori politici, amici o avversari, potentati o meno: insomma, quello che – secondo Luca Palamara – hanno fatto proprio loro per decenni; c’è, poi, il tema della cultura della giurisdizione: le diverse esperienze sarebbero, infatti, utili ad accrescerla.

    Invero, non è dato comprendere il fondamento di questi timori posto che la nostra Costituzione già disegna una diversità di funzioni – non una separazione delle carriere, compatibile ed ideale con l’attuale sistema accusatorio, perché i Padri Costituenti “guardavano” al modello di processo penale inquisitorio vigente all’epoca –  e, soprattutto, dispone di almeno quattro articoli corrispondenti ad altrettanti paletti volti ad impedire che l’indipendenza della magistratura sia minata dalla sottoposizione all’Esecutivo: nessuno di questi argini ad uno strapotere politico risulta intaccato dalla riforma.

    Quanto alla cultura della giurisdizione, è – appunto – un problema di cultura, di mentalità e non di transito da una funzione (o carriera) ad un’altra: ovviamente avere svolto funzioni giudicanti può essere di grande supporto se si passa a quelle inquirenti poiché il Pubblico Ministero avrà “fatto scuola” di valutazione delle prove e potrà meglio individuare le evidenze utili e sostanziose da ricercare nelle indagini per poi sottoporle al Tribunale. Molti, troppi, sono invece gli esempi di P.M. che transitando alla giudicante hanno mantenuto la mentalità poliziesca dell’inquisitore: Piercamillo Davigo ne è l’archetipo, e questo va decisamente meno bene.

    Lamentano, infine, i firmatari della petizione che il P.M. per legge è obbligato a svolgere indagini in favore dell’indagato e non di rado, in dibattimento, chiede l’assoluzione: il che non potrebbe avvenire se venisse formato alla sola logica dell’accusa. A prescindere dal fatto che sono casi isolati quelli in cui si assiste ad una ricerca delle prove a favore (ne abbiamo, invece, di scoperte e nascoste…) il codice prevede ciò solo al fine di poter scegliere se l’accusa è sostenibile in giudizio oppure no e chiedere quindi l’archiviazione; e vi è da augurarsi che, carriere separate oppure no, il Pubblico Ministero faccia sempre e comunque buon governo dell’equilibrio.

    In buona sostanza non si vedono né rischi ne vantaggi a mantenere unificate le carriere dei magistrati e permane oscuro il motivo di cotanta ostilità che non risieda nella privazione di maggiori chance di passare da una funzione ad un’altra, dal civile al penale e viceversa a caccia di sedi più appetibili, ruoli maggiormente gratificanti e di prestigio a seconda di quali posti si liberino. A pensar male si fa peccato ma, qualche volta, si indovina.

    Concludendo con una provocazione viene da domandarsi perché questi trecento, quando erano giovani e forti nell’esercizio delle loro funzioni, avendo tanto a cuore indipendenza ed equilibrio dei magistrati, cultura della giurisdizione non abbiano mai pensato che una utile separazione delle carriere potesse essere quella tra P.M. e giornalisti che non comporta alcuna modifica costituzionale, sebbene sia materia politicamente e mediaticamente molto sensibile e redditizia visto che su atti ed intercettazioni “dal sen fuggite” si costruiscono fatturati e carriere con pregiudizio della reputazione anche terze persone coinvolte e prima ancora dell’accertamento della responsabilità degli indagati – che, magari non verrà accertata – minando, oltretutto, la “verginità cognitiva” di chi deve giudicare con le anticipazioni del processo e del giudizio possibili facendo zapping tra Chi l’ha visto, i plastici di Porta a Porta, Quarto Grado e la lettura qualche paginata non solo del Fatto Quotidiano ma anche del Corriere della Sera.

  • In attesa di Giustizia: noli inspicere

    Non giudicare. Non giudicare significa comprendere: finchè giudichi non potrai comprendere gli altri e neppure te stesso. “Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati: perdonate e sarete perdonati”, così si legge nel Vangelo.

    Giudicare è un tormento ed anche con la più elevata attenzione non sempre si sfugge all’errore, fisiologico nella giustizia terrena.

    Viene allora da chiedersi perché mai debba essere chiamato a rispondere in sede disciplinare il povero giudice Ernesto Anastasio del Tribunale civile di Santa Maria Capua Vetere solo perché non deposita le sentenze alla cui redazione doveva provvedere e non lo ha fatto da un paio d’anni pur avendo trattato le relative cause: sarà, forse, una stretta osservanza del precetto contenuto nelle Scritture? E allora, come criticarlo?

    La ragione è un’altra: voleva fare il poeta, non il magistrato e lo attesta nella sua perizia, disposta dal C.S.M., il Prof.  Ferracuti docente di Psicopatologia forense alla Sapienza…”l’uomo non vive l’attuale lavoro come una forma di espressione di sé e siccome pensa che non è quello che davvero avrebbe voluto fare lo boicotta”.

    Anastasio, a sua volta, ha così giustificato il suo (non) agire: “Vivo questa situazione di dissidio interiore. Il problema è grave, non sta bene che un giudice faccia tutto questo macello, non credo che morirò magistrato, non mi pare plausibile”. Intanto, però, chiede di continuare a fare il giudice di Sorveglianza a Perugia dove nel frattempo è stato trasferito. E qualcuno, a Santa Maria Capua Vetere ha ereditato il suo ruolo ed alcune decine di sentenze da scrivere relative a procedimenti che non ha trattato: immaginate i capolavori che ne usciranno.

    La soluzione, tuttavia, sembra a portata di mano: basterebbe autorizzare Anastasio a scrivere le sentenze in tetrametri trocaici, endecasillabi, rime baciate; il problema sarebbe risolto con soddisfazione di tutti.

    Una decisione, invece, l’hanno presa le Sezioni Unite della Cassazione (il nostro massimo organo giudicante) e hanno pure scritto la motivazione riferita ad un caso che questa rubrica ha già trattato: quello del Presidente del Tribunale di Asti che aveva pronunciato una condanna ad undici anni di reclusione senza avere ascoltato l’arringa difensiva, poi aveva stracciato il dispositivo, e senza neppure giustificarsi, dato la parola all’avvocato.

    Ecco, le Sezioni Unite hanno annullato anche lo scappellotto (un blando ammonimento) che la Sezione Disciplinare aveva inflitto al solo Presidente mentre gli altri due giudici del Collegio erano andati indenni da qualsiasi sanzione: quasi che non fosse cosa loro contribuire al rispetto di una regola processuale non opinabile. Poverello! Anche per questo magistrato è risultato salvifico l’esito di una perizia medica: era stressato e la ridicola – altro termine non sarebbe idoneo a definirla – sentenza della Cassazione parla di inadeguata valorizzazione e controdeduzione delle circostanze stressogene da parte del Consiglio Superiore che già si era coperto di ridicolo per il ricordato tenore della sua decisione.

    Enzo Tortora, dall’alto della sua esperienza, aveva ragione quando affermò che in Italia esistono tre categorie di persone che non rispondono delle proprie azioni: i minori di quattordici anni, i pazzi ed i magistrati.

    Le sentenze se non si condividono si impugnano, è questa una regola aurea degli avvocati ma a fronte di una come quella in commento l’indignazione è tale che deve trovare uno sfogo: se possibile (ma non lo è) sarebbe stato meglio affidarne la redazione ad Anastasio, se non altro non avrebbe mai visto la luce.  Chi è in attesa di Giustizia si auguri di non trovare mai sulla sua strada un giudice stressato, uno che – invece che ad occuparsi di processi gravi – dovrebbe essere adibito (beninteso a parità di stipendio non sia mai che non riesca a mettere insieme il pranzo con la cena) ad ammortare cambiali smarrite: tanto non ne circolano quasi più. Voi dite, invece, due pedate e fuori dall’Ordine Giudiziario? Beh, come darvi torto?

  • In attesa di Giustizia: il sacro fuoco della giustizia

    Temo che questo possa essere l’ultimo appuntamento con la rubrica “In attesa di Giustizia” perché l’attesa è finita: non tanto grazie alla Riforma Cartabia le cui ombre si allungano sempre più minacciose sulle flebili luci che ne rischiarano gli articolati, quanto agli esempi di indomabile efficienza di chi esercita la giurisdizione.

    O, forse, no.

    Siamo a Catania, una Catania soffocata dal caldo e divorata dalle fiamme che hanno avvinto non solo l’aeroporto ma interi comprensori urbani: ciononostante i baluardi della legalità non smettono di profondere furore intellettuale coniugato a diuturno impegno e accade questo…

    Gianluca Costantino è un avvocato etneo che risiede proprio in una delle zone più colpite dalle fiamme, la sua casa ne è circondata, i trasporti pubblici sono paralizzati, quelli privati rischiosi e l’Avvocato ha udienza penale:riesce, tuttavia, a mandare una mail con la richiesta di rinvio di un’udienza per legittimo impedimento e trova anche un collega che si presenta in aula per sostituirlo e sostenere le ragioni di differimento.

    Niente da fare, il Giudice è inflessibile perché nella sua amministrazione arde il sacro fuoco della giustizia e la macchina non si può fermare per varie ragioni: la prima è rappresentata dal nemico di sempre, la prescrizione del reato che si avvicina e la seconda consiste nel fatto che il rinvio avrebbe imposto ai polpastrelli dei funzionari di cancelleria, ormai piagati a furia di spedire notifiche via pec, di farne altre a coloro che dovrebbero essere avvisati del rinvio; a tacer di questo, nel provvedimento di diniego si legge altresì che l’istanza non è documentata né attesta l’assolutezza dell’impedimento: Costantino poteva, magari, vestirsi con una tuta ignifuga per adempiere al suo dovere e sarebbe stato utile allegare all’istanza il file di un telegiornale recente con i Canadair che sorvolano l’abitazione del professionista.

    Il diritto di difesa, come si vede, non è poi una garanzia così assoluta ma ad assetto variabile e la decisione del Tribunale di Catania propone solo un interrogativo – e non ci sono parole migliori – cioè se sia frutto di crassa ignoranza piuttosto che di schietta malafede.

    Per i lettori, infatti, è opportuno ricordare la regola in base alla quale il corso della prescrizione viene sospeso se un differimento del processo è determinato da impedimenti o esigenze dell’imputato o del suo difensore. Ma se anche così non fosse, la domanda da porsi è se l’incolumità di un avvocato possa valere meno della prescrizione di un reato che, se è da ritenersi prossima durante il giudizio di primo grado non può essere che frutto di inerzia del P.M. durante la fase delle indagini oppure di malfunzione, congestione, inefficienza del Tribunale…ah, già, la risposta è sì: uno di meno.

    Parliamo ora delle notifiche con cui il Giudice temeva di onerare la cancelleria oltre il sopportabile: tanto per cominciare, l’avviso di un rinvio non deve essere fatto a chi è presente in udienza (nel nostro caso neppure all’avvocato impedito a presenziare essendosi fatto sostituire da un collega) perché riceve contestualmente notizia della data successiva. Viceversa, nel caso in cui non si presenti qualcuno che, invece, deve partecipare all’udienza – per esempio un testimone – la notifica è nuovamente ed in ogni caso dovuta.

    Allora, di cosa stiamo parlando? Se la vicenda non fosse surreale, verrebbe da pensare di essere su “Scherzi a Parte” e ad uno scherzo di cattivo gusto: indigna – come scrive in una nota ufficiale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania – la mortificazione del diritto di difesa e sarebbe interessante sapere se identica decisione sarebbe stata adottata se analogo impedimento avesse coinvolto un Giudice o un P.M..

    Sarebbe interessante, altresì, conoscere – se mai commenterà l’accaduto – l’opinione del Sindaco di Catania, Enrico Trantino, avvocato penalista di lungo corso. Concludendo, soccorre alla memoria il pensiero di Tito Livio richiamato, proprio in Sicilia, dal Cardinale Pappalardo ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”. Ma quelli erano i tempi delle guerre puniche.

  • In attesa di Giustizia: violenza chiama violenza

    Recenti, ma purtroppo non inusuali, fatti di cronaca sono lo spunto per la settimanale riflessione sulla Giustizia. La tematica è quella della violenza sessuale, il suo rapporto in termini di prova con principi irrinunciabili del processo penale che ruota, principalmente, intorno ad un presupposto fondante ma altrettanto impalpabile: il consenso.

    ll tema del consenso non può essere relegato ad uno scontro tra opposte linee di pensiero né diventare opportunità per speculazioni di natura politica poichè con il rapporto sessuale si coniuga tramite esiti chiarissimi e parametri condivisi: deve essere esplicito e non equivocabile; il consenso implicito (in un atteggiamento, in un comportamento, peggio che mai in un abbigliamento) è sintomatico di un approccio culturale e sociale indecente ed inaccettabile, che appartiene ad epoche e contesti sociali che sono – o dovrebbero essere – fortunatamente trapassati remoti.

    Ad un consenso esplicito, poi, deve corrispondere una persona in condizioni fisiche e psichiche tali da consentirne la consapevole manifestazione. Questo canone non ha alcuna ragione di essere modificato o derogato se sia stata la vittima stessa a porsi in condizione di incapacità, ubriacandosi o drogandosi perchè un approccio sessuale con una persona in stato di manifesta alterazione, non può trascurare l’ipotesi che il consenso all’atto, ovvero il mancato dissenso, potrebbe essere condizionato proprio da quelle condizioni.

    L’inosservanza di questi criteri discretivi di una libera e consapevole volontà rendono la condotta penalmente rilevante: il che significa che ne entrano in gioco altri ed altrettanto fondamentali del vivere civile, dotati di rango costituzionale equivalente a quello della inviolabilità della libertà e della intangibilità della integrità fisica e morale della persona. Per primo la riferibilità del reato ad un autore che deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio. In secondo luogo, l’onere della prova, quanto mai difficile in questi casi, che è a carico a chi accusa. La peculiarità specifica del tema di prova, la difficoltà della sua ricostruzione con le implicazioni psicologiche, culturali, ambientali, sociali che inesorabilmente lo connotano, non possono invertire ma neppure affievolire il rispetto delle due regole cardinali del processo.

    Nella quotidiana realtà dei giudizi per violenza sessuale non è, purtroppo, infrequente un loro sovvertimento ed è questo è il nocciolo della questione sul quale occorre interrogarsi senza ipocrisie. La percezione della “debolezza” della (presunta) vittima della violenza sessuale, e la forza culturale del (giusto) tema del consenso, determina quella che si potrebbe definire una “autosufficienza probatoria della versione dei fatti” offerta dalla persona offesa. Lo ha raccontato, ripetuto, perché mai dovrebbe mentire? Quindi è successo.

    In tal modo si perviene ad una forma di attendibilità pregiudiziale, si potrebbe dire preconcetta e ad oltranza del “soggetto debole”, che indebolisce sia il principio dell’onere probatorio che quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio. E ciò anche attraverso una sorta di stigma di indegnità da attribuire ad ogni tentativo difensivo di metterla in dubbio.

    Tutto ciò ha anche un nome: la confutazione della credibilità della versione accusatoria, viene immancabilmente bollata come “vittimizzazione secondaria”. Una categoria, questa, certamente rilevante sotto il profilo sociologico, ma tanto inconcepibile quanto suggestiva nelle dinamiche del processo penale.

    La parola di uno contro quella dell’altro: quale altra difesa potrebbe avere, allora, un imputato se non insinuando il dubbio, se ve ne sono gli estremi, che la propria versione dei fatti, e non quella della (presunta) vittima, sia quella giusta? Il controinterrogatorio di chi accusa, costituzionalmente normato, serve proprio a questo e laddove soccorrano indicatori di mendacio deve essere anche duro per far risaltare la falsità del dichiarante.

    Il tema del consenso resti, dunque, intangibile: e che sia un consenso esplicito ed inequivocabile al rapporto purchè questo principio di civiltà non diventi il grimaldello volto a pretendere e, talvolta, ottenere, un processo con regole probatorie modificate per i reati di violenza sessuale.

    In tal modo si aggiunge dolore al dolore, violenza alla violenza, ingiustizia all’ingiustizia.

  • In attesa di Giustizia: la corrida e la rivoluzione digitale

    Ennesima settimana convulsa sul fronte della giustizia: il luna park dell’opposizione purchessia ha sfoderato l’artiglieria contro le ultime iniziative, o per meglio dire gli annunci, del Guardasigilli il quale ha ribadito che la sua azione di Governo prevede la separazione le carriere tra giudicanti e pubblici ministeri e di rimodulare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; a quest’ultimo proposito non sono mancate neppure le salve di “fuoco amico” supportate dalla vibrante indignazione dei familiari di vittime della mafia.

    Una vera e propria corrida, intesa anche nell’accezione che al termine fu data dal celebre programma condotto da Corrado Mantoni: dilettanti allo sbaraglio in salsa di ignorante malafede e vediamo nell’ordine il perché di cotante ambasce senza che vi sia neppure un articolato su cui ragionare.

    L’obiezione principale che viene rivolta alla separazione delle carriere – con l’Associazione Nazionale Magistrati in prima linea – è che comporta la dipendenza del Pubblico Ministero dall’Esecutivo subendone le imposizioni su quali indagini avviare e quali fermare. Orrore autoritario e fascista da scongiurare a qualunque prezzo.

    Ebbene, che vi sia un simile automatismo non sta scritto da nessuna parte (in Francia, per esempio, le carriere sono unificate ma il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia) ed, anzi: per raggiungere questo risultato bisognerebbe modificare ben quattro articoli della Costituzione posti a tutela della indipendenza della Magistratura da qualsiasi altro potere, con ciò intendendosi sia quella giudicante che quella inquirente (la Costituzione lo precisa). Impresa cui nessuno ha mai neppure accennato ed inverosimile se si pensa all’iter previsto per le modifiche costituzionali con doppia lettura alle Camere e maggioranza qualificata di 2/3. Le ragioni della contrarietà sono altre, forse meno nobili… ma andiamo oltre.

    Concorso esterno: sia chiaro innanzitutto, per chi non lo sapesse, che è un delitto che il codice penale non prevede. Proprio così, un reato per cui si può essere condannati frutto di una interpretazione giurisprudenziale, per quanto non risulti che i giudici possano sostituirsi al legislatore con le loro sentenze.

    Nordio, in realtà, non ha affatto detto che intende abolire questa ipotesi di reato ma tipizzarla meglio in via normativa, magari secondo i dettami della Costituzione che prevede che nessuno possa essere ritenuto responsabile per un fatto non previsto dalla legge come reato ed anche che le leggi siano tassative. Cioè puntualmente definite in modo che i cittadini sappiano cosa è consentito e cosa è vietato o punito. Esattamente quello che, commentando le parole del Ministro sostiene, tra i molti, anche Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale: uno dei massimi esponenti contemporanei di questa branca del diritto.

    Naturalmente, le critiche sono arricchite dalla considerazione che in l’attuale Ministro della Giustizia non abbia prodotto nulla in termini di utili ed intelligenti riforme mentre la Cartabia…ah, la Cartabia, quella sì!

    Basta vedere l’ultima creatura delle sue commissioni, volta ad efficientare il sistema, che ha visto la luce ad inizio mese: il Portale attraverso il quale si potranno e dovranno depositare ben 103 diversi atti giudiziari, dalla nomina di un difensore agli atti di appello. Un pachidermico prodigio delle più moderne tecnologie operativo già nei prossimi giorni (destinato, chissà perché solo agli avvocati e non ai magistrati) ma si impalla con inquietante frequenza, è ancora incompleto, lento, complicato e per non farsi mancare nulla alcuni riferimenti agli articoli del codice sono sbagliati. Si consideri, infine, che i Funzionari amministrativi dei Tribunali non sono stati formati per l’utilizzo e – soprattutto – se l’atto che si deve inoltrare prevede più di una copia le altre bisogna andarle a depositare cartacee, a mano, in cancelleria. E perché mai? Suvvia! Perché non si possono sprecare troppo toner e carta, non ci sono i fondi, e quelli del PNRR, faticosamente guadagnati con questo cretino meccanico non sono sacrificabili e servono altrove. Avanti così, la Giustizia può attendere.

  • In attesa di Giustizia: carnevale di Rio

    Accingendomi a commentare alcuni eventi, una premessa è d’obbligo: se un giornalista riceve una notizia ha il dovere di pubblicarla. E se riguarda un personaggio pubblico ancora di più.

    Il problema è che certe notizie non dovrebbero mai essere fatte esfiltrare: nè dagli inquirenti e nemmeno dai vari altri soggetti coinvolti nell’accertamento dei fatti e la violazione di questi obblighi non dovrebbe essere sanzionata alla stregua di un parcheggio abusivo perché l’indagine di per sé intacca l’onorabilità e neppure un’assoluzione contribuisce a diradare completamente le zone d’ombra lasciate dallo schizzo di fango.

    Le indagini per certi reati la cui verifica si basa sulle sole dichiarazioni della parte offesa dovrebbero essere secretate e rimanere tali almeno fino al giudizio di primo grado.

    Emblematico è quanto sta accadendo riguardo alla vicenda della presunta violenza sessuale attribuita ad uno dei figli di Ignazio La Russa: in questo caso è stato l’avvocato che assiste la ragazza a distribuire a piene mani notizie in favor di microfoni ed intervistatori, salvo ritirare la mano subito dopo aver gettato il sasso sostenendo che vi è e vi deve essere un riserbo massimo mentre le indagini sono in corso. Nella stretta osservanza di questa regola del silenzio da monaco benedettino ha preannunciato l’intenzione di citare lo stesso Ignazio La Russa che, con le sue affermazioni, sarebbe diventato testimone contro il suo stesso figlio: se anche così fosse, evidentemente gli sfugge la circostanza che i prossimi congiunti possono avvalersi (loro sì) del diritto al silenzio. Ma tutto quanto fa spettacolo e c’è già chi avanza la richiesta di dimissioni dalla sua carica del Presidente del Senato, bissando quelle invocate per Daniela Garnero meglio nota come Santanchè.

    Quest’ultima, invece, sta passando la sua gogna mediatica (e non solo) grazie al tradizionale impiego, sin dal novembre scorso, della redazione del Corriere della Sera come casella delle lettere della Procura di Milano; il tutto non senza l’abituale confusione (un po’ ignorante e un po’ creata ad hoc ): ha ricevuto l’informazione di garanzia, anzi no, non è iscritta nel registro delle notizie di reato, anzi si e non ultima la bufala più potente secondo la quale sarebbe indagata per bancarotta che come crimine, in effetti, è bruttarello, fa certo “meno fine” del falso in bilancio che evoca una frode fiscale che non scandalizza quasi nessuno piuttosto che l’appropriazione e sperpero di denaro in danno dei creditori, dipendenti inclusi. Peccato che questo reato possa contestarsi solo ad avvenuta dichiarazione di fallimento di una società e non consta che “Visibilia” sia stata dichiarata fallita, anzi stia negoziando un concordato.

    Nessuno dubita che per la sensibilità della carica ricoperta sia stato corretto chiedere che il Ministro del Turismo riferisse nella sua Camera di appartenenza su tali accadimenti. Magari poteva prepararsi un filo meglio nel chiarire certi aspetti tecnici piuttosto che dare ancora più fiato alle trombe di chi sta preparando una mozione di sfiducia. Sarà quale, la sesta, la settima da inizio legislatura? Tutte andate a vuoto. L’opposizione dovrebbe sapere tre cose: che il suo ruolo è proporre alternative all’azione della maggioranza con critica costruttiva, che una richiesta di dimissioni non si fa se non si hanno i numeri (ma se si fa significa che non si hanno idee) ed è un fuor d’opera alimentare questa sorta di Carnevale di Rio ogni volta che – in mancanza d’altro – c’è la possibilità di ricorrere allo sputtanamento dell’avversario invece di dire o fare “qualcosa di sinistra”. Attenzione, poi, ad operazioni “politiche” di bassa macelleria perché il “banco del taglio” è lo stesso che un domani può ospitare chi ama frequentarlo da primattore e non da vittima.

    Per concludere, una nota quasi di buonumore con una carnevalata giudiziaria: la Procura di Genova ha contestato anche il tentato omicidio ad un avvocato che, in base a quanto ricostruito dalla Guardia di Finanza, avrebbe sottratto i soldi all’anziana di cui era amministratore di sostegno e, secondo gli inquirenti, avrebbe pure commissionato ad un’amica maga un rito vudoo con delle candele nere, proprio per sbarazzarsi della signora che accudiva. Un simile reato è definito “impossibile” dallo stesso codice ma secondo il P.M. serve a valutare la personalità.

    Contestazione quanto meno insolita, anche per offrire prova di pericolosità di un soggetto; chiaramente non è punibile avere fatto ricorso a candele e magia nera per intentare un omicidio e però viene da chiedersi, a questo punto, perché non sia indagata anche la fattucchiera.

    Con le carnevalate più o meno divertenti per questa settimana è tutto: la Giustizia può attendere, magari la settimana prossima andrà meglio: ma non è affatto certo.

  • In attesa di Giustizia: contrappasso

    C’è qualcosa di allegorico, cabalistico, nella parabola professionale e di vita di Piercamillo Davigo che da magistrato del Pubblico Ministero aveva promesso di “rivoltare l’Italia come un calzino” magnificando lo standing dei suoi colleghi di funzione: “i magistrati sono il meglio della società civile ed i pubblici ministeri sono il meglio del meglio del meglio”, poi da giudicante aveva presieduto i Collegi di Corte d’Appello e di Cassazione  trasformandoli in altrettanti Comitati di Salute Pubblica; del resto, ipse dixit, non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Anche lui, viene ora da chiedersi?

    L’inesorabile trascorrere degli anni gli ha fatto terminare anzitempo la consiliatura al C.S.M. e da pensionato ha intrapreso quella di editorialista per un quotidiano giacobino che, nella versione cartacea, può essere destinato solo agli scopi meno nobili. Ma la parabola non si era ancora conclusa: l’ultima delle esperienze nel mondo della giustizia l’ha fatta in un ruolo che mai avrebbe immaginato, a stretto contatto – orrore! – con un avvocato cui ha affidato il compito di difenderlo smentendo se stesso a proposito del giudizio di appello, ritenuto superfluo e causa di malfunzione del sistema, ma che ha già preannunziato dopo la sua condanna.

    Quest’ultimo segmento di vita è stato scandito anche da correlazioni enigmaticamente realizzatesi: Davigo è stato rinviato a giudizio proprio nel giorno in cui ricorreva il trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio alla macelleria giudiziaria di “Mani Pulite” di cui è stato indiscusso protagonista e la sua sentenza di condanna è stata pronunciata mentre si celebrava la memoria di Silvio Berlusconi che, praticamente da solo, ha dato per decenni motivo di esistere alla Procura di Milano ed alla “casella delle lettere” messa a disposizione dal Corsera: se si vuole sapere il perché e gli si vuole dare credito, basta leggere il primo libro intervista di Luca Palamara con Sallusti.

    Torniamo a Brescia: il momento della lettura di una sentenza è un passaggio di grande solennità che si ascolta in piedi e le prime parole sono sempre “In nome del Popolo Italiano…” dando corpo al canone 101 della Costituzione; in nome di quel Popolo, a rappresentarlo durante la pronuncia di condanna, vi era anche Francesco Prete, che è il Procuratore Capo di Brescia, a fianco dei suoi sostituti che avevano condotto le indagini ed il dibattimento: un gesto volto a dimostrare che in quell’Ufficio ci si era mossi con iniziative condivise e probabilmente anche sofferte perché rivolte nei confronti di un ex collega.

    Francesco Prete, ai tempi di Mani Pulite, era un giovane P.M. in forza proprio a Milano e la sua stanza era vicina a quella di Davigo ma non ha mai fatto parte del famoso (o famigerato) pool: lavoratore, equilibrato, studioso, il suo tragitto professionale lo ha portato a dirigere tre Procure (Vasto, Velletri ed infine Brescia) senza mai cercare il “colpo di teatro”, l’inchiesta sensazionalistica che aiuta la carriera o – comunque – offre notorietà e non l’ha perseguita nemmeno ora che le regole di competenza per i processi ai magistrati assegnano a Brescia i procedimenti a carico di quelli milanesi e proprio la sua Procura di un tempo rivela l’esistenza di un verminaio di prassi opache, per usare un termine garbato, di cui si è sempre avuto il sospetto: Francesco Prete ha mantenuto un basso profilo con interviste ridotte al minimo, riserbo e parole misurate che dovrebbero essere patrimonio di chi svolge ruoli sensibili come il suo.

    Contrappasso anche in quest’ultima immagine che raffigura due uomini divenuti inaspettatamente avversari e due modi diversi di interpretare la funzione giurisdizionale mentre un comunicato della Giunta dell’Unione Camere Penali, senza (troppo) sarcasmo, auspica che nel futuro di Davigo, ora che ha scoperto il diritto all’appello, vi siano Giudici con una concezione delle impugnazioni diversa dalla sua.

    Ci mancava la solidarietà, obiettivamente un po’ di maniera, del nemico di sempre per trasformare in fiele il contenuto del calice già amarissimo toccato in sorte all’ultimo (speriamo) dei grandi inquisitori.

    Un augurio di buona sorte, nel rispetto della presunzione di innocenza non si nega a nessuno e lo formuliamo anche noi ma quello in cui è inscritta la parabola discendente di Piercamillo Davigo è come un arazzo che, attraverso ironie e contrappassi, sembra intessuto di una Giustizia quasi poetica.

  • In attesa di Giustizia: avanti arditi!

    L’omicidio di Giulia Tramontano è stato raccontato sui media in ogni minimo particolare: gli inquirenti sono apparsi a reti unificate nelle trasmissioni di prima serata, dopo aver convocato una conferenza stampa.

    Spopolano la confessione dell’indagato, l’interrogatorio, le modalità dell’azione omicidiaria, i frames dei video catturati dalle telecamere di sorveglianza, i primi dettagli emersi dall’autopsia e c’è una corsa frenetica alle interviste: la madre di Impagnatiello, i genitori dei suoi amici, prima ancora dei parenti della vittima, con domande che, per la banalità, superano persino quelle fatte in passato ai terremotati davanti al crollo della propria abitazione.

    Tutto ciò, come sempre capita, ha prodotto una deflagrazione di odio totale invocando feroce e sommaria giustizia per l’autore di questo atroce delitto; dai bar ai social, si invoca la pena di morte: deve bruciare all’inferno prima ancora di affrontare il processo e si critica aspramente il gip di Milano che ha avuto il torto di applicare la legge escludendo (per ora) l’aggravante della premeditazione. Offese e minacce si sprecano nei confronti di chi oserà difendere un “personaggio simile” anziché vergognarsene.

    Pazienza finchè il dibattito rimane nel perimetro di Tik Tok o Instagram miscelato tra la preoccupazione per la presunta crisi coniugale del Ferragnez ed il sollievo per l’affidamento condiviso dei Rolex tra il Pupone e Hilary Blasi, ma quando interviene un magistrato, già componente del C.S.M., e straparla, qualche riflessione si impone.

    Il riferimento è a Sebastiano Ardita, ex sodale di Piercamillo Davigo, al quale – se fosse possibile – dovrebbe essere revocata la laurea in giurisprudenza e con essa la funzione giurisdizionale con un’alternativa sulle ragioni: crassa ignoranza o malafede. E di magistrati ignoranti o in malafede non ne sentiamo proprio il bisogno.

    Costui, intervenendo a proposito del destino di Impagnatiello ha vaticinato che, tra attenuanti generiche per la confessione, benefici penitenziari e possibile riconciliazione con i parenti della vittima, tra una decina d’anni al massimo tornerà libero in tal modo alimentando l’ira e l’indignazione di un’opinione pubblica già esasperata ed orfana di Madame La Guillotine. Disinformazione tanto ardita quanto becera.

    Cerchiamo di fare chiarezza: a prescindere che la confessione, in questo caso, è apparsa più che altro strumentale a minimizzare (scioccamente) la propria responsabilità e come tutt’altro che meritevole di favorevole considerazione, per ottenere le attenuanti generiche, con la legislazione attuale, ci vuole ben altro che un’ammissione scontata ancorchè genuina e l’omicida della giovane donna, già con l’aggravante che gli viene contestata ha come previsione di pena l’ergastolo senza bisogno che vi si aggiunga la premeditazione. Con l’ergastolo dopo dieci anni non si esce: tutt’al più si può avere la semilibertà dopo venti…e non è affatto scontato né automatico e coloro che potrebbero indignarsi anche per questo guardino a sistemi penali come quello spagnolo o il norvegese (giusto per citarne un paio) che il “fine pena mai” neppure lo prevedono.

    Viene allora da chiedersi il perchè di questa uscita fuorviante, anzi dannosa in quanto disorienta l’opinione pubblica cui compete – per disposto costituzionale – il controllo sull’operato della magistratura: la risposta, francamente, è da rinvenirsi di più nella malafede che non nell’ignoranza ma non è motivo di conforto come non lo sarebbe nessun’altra spiegazione; ed il fine ultimo quale sarà?

    Viene però da chiedersi come mai, già che c’era, questo ardito censore, non ha inserito nella sua lectio magistralis di diritto penale e penitenziario anche dei riferimenti a cosa rischiano i suoi incliti colleghi recentemente arrestati (una a Latina e l’altro a Bologna ma proveniente da Lecce) che vendevano la funzione giudiziaria al miglior offerente, o meglio facevano commercio di remunerativi incarichi destinati a commercialisti ed avvocati amici con i quali si spartivano poi la cagnotte. Poverelli! In fondo non hanno ucciso nessuno e poi tenevano famiglia: se per uno spietato assassino dieci anni sono il rischio massimo, per un po’ di mercimonio sulle curatele fallimentari e l’amministrazione di aziende sequestrate quale potrà mai essere la pena?

    Ora c’è solo da attendersi che i populisti e i forcaioli in servizio permanente effettivo affiancati da cialtroneschi pseudo giuristi ne seguano l’esempio strumentalizzando un atroce fatto di cronaca: avanti arditi, sentiamo chi la spara più grossa.

  • In attesa di Giustizia: Cantonate

    Si sa, la giustizia degli uomini è per sua natura imperfetta: tuttavia è motivo di riflessione che questa rubrica non sia mai a corto di argomenti e, talvolta, sia necessario farne una selezione e qualcun’altra – come questa settimana – una sia pur sintetica rassegna.

    Abbiamo un triplete di notevoli cantonate (ogni riferimento a fatti o persone realmente esistite NON è puramente casuale) che rende difficile la scelta da quale partire: la Procura di Milano, però, dà sempre soddisfazioni e merita la citazione d’esordio.

    Andrea Padalino è un magistrato che ha esercitato le sue funzioni anche a Milano, oltre vent’anni fa come giudice per le indagini preliminari impegnato in delicate indagini del filone “Mani Pulite”, per quanto “delicato” non sia il termine che meglio si adattava ai metodi di quella Autorità Giudiziaria.

    Alla gogna mediatica per quattro anni mentre era in servizio a Torino ed essendo finito sotto processo proprio a Milano, che è competente per i reati attribuiti ai magistrati piemontesi, il Dott. Padalino è stato assolto con una motivazione ampiamente esaustiva della pochezza delle accuse mossegli principalmente fondate sulle cosiddette “intercettazioni a strascico”. Cioè non quelle riferibili direttamente l’indagato ma di altri.

    Non paga, la Procura di Milano ha proposto appello contro l’assoluzione di Padalino (qui le assoluzioni danno i mal di pancia) ma, pervenuto il processo in Corte d’Appello, il rappresentante della Procura Generale vi ha rinunciato: né più né meno che quello che era successo con l’opaca indagine ENI – NIGERIA di cui questa rubrica si è occupata ed ancora con la Procura Generale a mettere un argine alle cantonate dei P.M..

    Nel frattempo, a Palermo, qualcuno si è accorto, dopo due anni, che un uomo che era stato assolto non è mai stato scarcerato, sia pure dagli arresti domiciliari ove si trovava. Un destino beffardo, per un signore per di più affetto da problemi psichici, ha voluto che il suo difensore morisse subito dopo la sentenza ma l’onere di disporre la scarcerazione non competeva certamente a lui, che poteva solo comunicare la buona notizia, bensì all’Ufficio Giudiziario che lo aveva giudicato, avvisando all’Autorità di Polizia addetta ai controlli perché venisse formalmente notificata. Invece, niente! Poco male, penserà qualcuno, tanto c’era il covid ed era meglio stare a casa anche quando non si era obbligati: quasi, quasi questa cantonata è stata un bene.

    Insomma, non proprio: tecnicamente è un reato che si chiama sequestro di persona e qualcuno (o più di uno) ne dovrà rispondere partendo dagli accertamenti sulla possibile mancanza di comunicazione tra la cancelleria del tribunale e le Forze dell’Ordine destinatarie dell’ordine di scarcerazione.

    Per finire (ma potrebbe non finire qui, è solo questione di spazio): a Perugia si chiude, anzitempo ed a sorpresa con un patteggiamento, il processo a carico di Luca Palamara.

    Dopo anni di indagini, la contestazione di reati gravi ed infamanti che autorizzarono  l’inserimento del captatore informatico (il famigerato trojan) nel cellulare dell’indagato con un costo investigativo elevatissimo, proprio alla vigilia del dibattimento la Procura ci ripensa e presta il consenso alla richiesta di accordo sulla pena avanzata dalla difesa dell’ex dominus dell’ANM previa modifica dell’imputazione in traffico di influenze: che altro non sarebbe che il vecchio millantato credito, cioè un reato da imbroglioncelli di periferia che può dirsi adeguatamente punito con un anno di reclusione e la condizionale che il Tribunale ha ratificato. Per Palamara, così ha dichiarato, è solo un modo per liberarsi dal peso dei processi senza ammettere alcuna responsabilità. Un po’ come la Juve, sostanzialmente.

    I malpensanti hanno già sospettato che sia soluzione gradita un po’ a tutti perchè argina l’estrazione di ulteriori sassolini dalle scarpe che Palamara avrebbe potuto far culminare in una terza puntata, dopo quelle andate in onda nel salotto di Sallusti, durante pubbliche udienze. O, forse, a Perugia avevano semplicemente preso una Cantonata dall’inizio ed era ora di porvi rimedio.

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