Magistratura

  • In attesa di Giustizia: una voce fuori dal coro

    Alzi la mano chi non si aspettava, su questo numero, un articolo sulla vicenda della Sea Watch e della Capitana Rackete. Invece, no: oggi la voce di questa rubrica è assolutamente fuori dal coro e trattiamo di una vicenda che ha avuto sicuramente attenzione ma non il medesimo clamore mediatico, quella dell’inizio del processo ai vertici della Banca Popolare di Vicenza.

    E’ necessaria una premessa: il Presidente del Collegio chiamato a giudicare, Lorenzo Miazzi, ha chiesto di astenersi ed è stato sostituito da altro magistrato; il nostro codice di procedura penale contiene taluni istituti – incompatibilità, astensione e ricusazione – che hanno lo scopo di assicurare l’imparzialità del  Giudice quando vi siano motivi di opportunità o veri e propri impedimenti di diversa natura a che svolga le sue funzioni in un determinato processo o nei confronti di taluni imputati.

    Assai meno della tormentata navigazione della Sea Watch, ma anche questa notizia, soprattutto nella zona direttamente interessata, ha avuto clamore alimentando considerazioni di ogni tipo, risvegliando i teorici del complotto e dietrologi di ogni sorta: come spesso avviene i processi penali diventano occasione di scontro e conflitto, anche politico, in cui si contrappongono – dall’una parte e dall’altra – tesi umorali, basate su impressioni, in genere assolutamente atecniche, sovente prive di conoscenza approfondita degli atti e delle regole del processo.

    Il processo penale, nonostante la abituale trasposizione in improvvisate tribune televisive non è messinscena  in cui ognuno può dare aria alla bocca esprimendo – senza fondamento – la propria opinione: il processo vive – a tutela di chi vi è sottoposto – di regole ferree e come tali da conoscere.

    Dunque, o le si conosce, o forse sarebbe meglio evitare commenti e prese di posizione su singoli processi, tanto più che spesso sono in gioco beni fondamentali: la scelta meditata di un Magistrato di non occuparsi di una certa vicenda giudiziaria deve essere accolta come indice di equilibrio e correttezza senza scatenare l’arena dei tuttologi ad ipotizzare chissà quali scenari volti a preordinare una denegata giustizia.

    Un ulteriore spunto critico riguarda le aspettative che i cittadini nutrono rispetto al processo in generale: quest’ultimo non ha la funzione di prevenire i crimini, tutelare le persone offese o rispondere alla fame – spesso insaziabile – di giustizia (o addirittura di vendetta) della collettività ma quello di verificare, nel rispetto di regole prestabilite, se una determinata persona abbia commesso un reato. E, in tal caso, irrogargli la pena prevista dalla legge.

    Questo è il perimetro del processo ed al suo interno ci si deve muovere senza travalicarne i confini: fuori da questo perimetro vi è soltanto pericolosa propaganda politica, alimentata da prese di posizione opportunistiche e populistiche, che spesso solleticano il consenso popolare invocando processi sommari e pene esemplari, confondendo l’attesa di giustizia con ansia ed aspettativa di una condanna purchessia.

    Benjamin Constant scriveva che per quanto imperfette siano le forme, esse hanno il potere di proteggere: sono le nemiche giurate della tirannide popolare o di altra specie.

  • In attesa di Giustizia: un silenzio sottile

    La settimana scorsa abbiamo trattato della bufera abbattutasi sul Consiglio Superiore della Magistratura: un’indagine penale ha sollevato il coperchio sul sistema di gestione correntizia che presiede al delicato compito delle nomine di Magistrati in ruoli apicali: nulla che non fosse noto, tuttavia se ne parlava sottovoce e, soprattutto, nessuno aveva mai ipotizzato che un semplice scambio di favori, oltre che mortificare – talvolta – il criterio del merito, potesse essere inquinato da condotte penalmente rilevanti.
    La notizia, lo sviluppo delle indagini che dovrebbero essere più che mai rigorosamente secretate, sono accompagnati da uno straordinario clamore mediatico e da un elevato livello di dettaglio su quanto scoperto dai Pubblici Ministeri di Perugia che indagano su componenti vecchi ed attuali del C.S.M. e che, a quanto pare, si sono avvalsi anche del cosiddetto “captatore informatico” inserito nel cellulare del Dott. Palamara per seguirne passo passo ogni spostamento, ogni parola, ogni messaggio, ogni incontro.
    Tutti ne parlano, si indignano o fingono di farlo e stupisce che solo una voce taccia sebbene solitamente pronta a levarsi censorea: quella di Piercamillo Davigo, noto come il “Dottor Sottile”.
    Singolare questo silenzio: già ai tempi di Mani Pulite in una delle sue intemerate il Dott. Davigo ebbe a dire che i Magistrati erano il meglio della società e che i Pubblici Ministeri il meglio del meglio del meglio; non c’è dubbio che alla categoria debba continuare ad essere rivolto il massimo rispetto ma certi superlativi assoluti suonano oggi un po’ stonati, soprattutto con riguardo ai criteri di assegnazione dei ruoli di vertice.
    Strano che Davigo non abbia nulla da dire – neppure che per lui aveva interceduto solo San Piercamillo – a proposito del fatto che fu nominato Presidente di Sezione della Cassazione proprio da quel C.S.M. della cui Commissione che si occupava di Funzioni Direttive faceva parte Luca Palamara. Ma a prescindere dai componenti: davvero non ha mai saputo nulla della logica spartitoria che vige a palazzo dei Marescialli? Silenzio.
    Davigo è poi quello che non molto tempo fa aveva sostenuto che in circolazione non vi sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca; bisogna augurarsi che Luca Palamara e altri Magistrati oggi sotto processo siano assolti: augurarselo per loro e per ritrovare un po’ quella fiducia che oggi si sta appannando nei confronti di uno dei Poteri dello Stato. Ma se così fosse, sarebbero anche loro dei malfattori beneficiati da un sistema troppo garantista? Silenzio.
    Già, il processo penale così come è costruito, secondo il pensiero di Davigo, impedisce l’accertamento della verità diversamente dall’efficace impiego di qualche rogo ben appiccato come ai tempi della Santa Inquisizione. E che dire allora, a mo’ di esempio, del suo Collega, Luigi Spina, indagato anch’egli nell’affaire Palamara e che davanti ai Pubblici Ministeri si è avvalso della facoltà di non rispondere: è anch’egli un furbo approfittatore di incomprensibili cavilli? Silenzio.
    E adesso che siede lui in Consiglio, potrà il Dott. Davigo assicurarci che – sia pure senza commettere alcun reato: di questo sicuramente non sarebbe mai capace – non hai mai ricevuto o fatto una telefonata, due chiacchiere con qualcuno per raggiungere l’accordo su qualche nomina, accantonando per un attimo titoli e meriti dei candidati? Silenzio.
    Un silenzio, quello del Dottor Sottile che sa più dell’imbarazzo che del doveroso riserbo: comprensibili entrambi. Intanto, immaginatevi lo stato d’animo di chi debba essere processato e al banco dell’accusa riconosca – ormai lo conoscono tutti – Luca Palamara che si è solo autosospeso dall’Associazione Magistrati ma non ha chiesto quello che sarebbe stato un opportuno periodo di aspettativa. Presunto innocente anche lui, è ovvio, ma forse sarebbe preferibile che, in attesa di Giustizia, resti più defilato.

  • In attesa di Giustizia: separati in casa

    Giochereste una partita di pallone in cui l’arbitro vesta, invece della divisa, la maglia della squadra avversaria? Probabilmente no, comunque qualche dubbio sulla sua imparzialità sarebbe fondato.

    Ebbene, nel nostro ordinamento giudiziario le cose funzionano sostanzialmente così: il Giudice arbitro delle controversie – che per disposto costituzionale dovrebbe, dunque,  assicurare assoluta terzietà – appartiene al medesimo Ordine del Pubblico Ministero, proviene dal medesimo concorso, la funzione giudicante/inquirente è interscambiabile senza eccessive difficoltà, dulcis in fundo avanzamenti di carriera, incarichi direttivi, autorizzazioni per lucrosi incarichi fuori ruolo non meno che (rarissime) sanzioni disciplinari dipendono dal Consiglio Superiore della Magistratura composto tanto da giudicanti che da Pubblici Ministeri e governato dalla logica delle correnti e del compromesso non di rado anche a sostrato politico.

    Secondo l’impostazione tradizionale del processo penale accusatorio, nel nostro sistema introdotto ormai trent’anni fa, le carriere di Giudici e P.M. sono nettamente separate, addirittura gli uffici sono ubicati  in edifici diversi; nel nostro Paese, tuttavia,  ogni tentativo di intervenire normativamente in proposito incontra un fitto fuoco di sbarramento da parte della Magistratura paventando – innanzitutto – il rischio che, separando le carriere, il Pubblico Ministero diventerebbe dipendente dal potere esecutivo e, pertanto, subordinato alla politica: nulla di meno vero perché per conseguire questo scopo non basterebbe neppure una legge ordinaria ma bisognerebbe intervenire su tre o quattro articoli della Costituzione che i Padri Costituenti avevano opportunamente elaborato proprio per scongiurare questo rischio.

    Una politica pavida e perennemente tenuta sotto scacco dalla Autorità Giudiziaria ha traccheggiato, dunque, per circa sei lustri senza mai  varare questa opportuna riforma dell’Ordinamento Giudiziario. Si è, allora, provveduto alla raccolta di firme per un disegno di legge di iniziativa popolare promosso dalla Unione delle Camere Penali che, coronata da successo, è approdato alla Camera ed è ora sostenuta da un gruppo molto trasversale di una cinquantina di deputati ed assegnata alla Commissione Affari Costituzionali.

    Dunque, vi è per la prima volta la concreta possibilità che la separazione delle carriere divenga legge generando sgomento e allarme all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati e motivo di ennesima frizione tra i due Vice Premier uno dei quali – Salvini – è favorevole alla riforma, l’altro no.

    E’ recente un incontro tra la Giunta dell’A.N.M. e il Capo dello Stato (che è anche Presidente del C.S.M., giova ricordarlo) nel corso del quale si è voluto affrontare l’argomento della separazione delle carriere con Sergio Mattarella spendendo – tra l’altro – argomenti fuorvianti e autenticamente ingannevoli come quello del rischio di perdita di indipendenza del P.M. (per evitare equivoci, il disegno di legge prevede espressamente l’indipendenza da qualsiasi potere dell’Ufficio Requirente) e, soprattutto tentando indebitamente di coinvolgere il Presidente della Repubblica in un prossimo, libero, dibattito parlamentare.

    Gli ingredienti per rendere accidentato il percorso di una riforma, che si propone come ammodernatrice del sistema giudiziario e volta ad attuare i principi del giusto processo, ci sono tutti: il conflitto strisciante tra poteri dello Stato, il contrasto interno alle forze di Governo, non mancheranno dunque le polemiche al momento del voto alle Camere orientato dalla disciplina di partito.

    Nel frattempo, mentre i Magistrati si sgomentano all’idea di diventare separati in casa, diverse decine di migliaia di cittadini, che hanno sottoscritto il disegno di legge recandosi ai gazebo allestiti in tutta Italia dagli avvocati penalisti, restano a guardare, restando ancora una volta in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: giustizia in sciopero

    Dal 12 gennaio al 9 febbraio sarà astensione dalle udienze dei Giudici di Pace che garantiranno un solo giorno alla settimana di celebrazione dei processi: la protesta è stata proclamata a fronte del mancato riconoscimento da parte del Governo (non solo quello in carica) di una serie di aspettative che i cosiddetti Magistrati Onorari rivendicano in materia retributiva, assistenziale e previdenziale.

    Giustizia in sciopero, dunque: se ne parlerà poco e sottovoce quando – invece – è un argomento da conoscere e non sottovalutare.

    Attualmente nel nostro Paese prestano servizio oltre settemila Magistrati Onorari che non solo sono Giudici di Pace ma anche Giudici Onorari di Tribunale e Vice Procuratori altrettanto Onorari: questi ultimi, nella gran parte dei casi, sono avvocati che esercitano funzioni giudicanti o requirenti in sedi necessariamente diverse da quelle dove svolgono in via principale la professione e senza il contributo dei quali l’Amministrazione della Giustizia sarebbe ancora più imballata di quanto non lo sia attualmente. Basti pensare che i Magistrati Ordinari, quelli cioè che lo sono divenuti in seguito a concorso, sono poco più che ottomilacinquecento.

    Scarse se non nulle tutele in caso di infortuni, malattie e gravidanze, i Magistrati Onorari prestano la loro opera a fronte di indennità che non arrivano a 20.000 euro lordi all’anno nella migliore delle ipotesi:  pagati “a cottimo”, cioè a udienza o per ogni sentenza pronunciata, per intendersi, quello che un Giudice Ordinario con un’anzianità di una decina d’anni guadagna in circa due mesi, oltre – naturalmente –  ad accantonamento della liquidazione, trattamento pensionistico, mantenimento dello stipendio in caso di malattia, ferie, gravidanza cui gli Onorari non hanno diritto.

    Invero, la qualità del servizio offerto in non pochi casi proprio dai Giudici di Pace (diverso è per gli Onorari di Tribunale e Vice Procuratori che, come detto, devono essere avvocati) soprattutto nel settore penale non è di eccellenza: d’altronde per accedere alle funzioni mediante selezione basta la laurea in giurisprudenza: il che significa, come è capitato al sottoscritto a Voghera, di trovare come Giudice un agente immobiliare di Genova, ma anche un direttore di banca in pensione – per esempio –  può esserlo, purché una trentina d’anni prima si sia laureato.

    E’, però, vero anche che la cosiddetta “Giustizia di prossimità” è affidata proprio a loro e se il livello di professionalità è modesto dipende anche dai criteri di inserimento in ruolo e dalla formazione offerta: resta il fatto che una mole notevole del carico, bene o male, viene smaltita in questi uffici.

    Il malessere degli “Onorari”, la crisi di cui non si occuperanno le cronache è – tuttavia – uno degli indicatori più evidenti e comprensibili dei mali del settore se lo Stato non è in grado di assicurarne l’amministrazione senza ricorrere massicciamente a soggetti poco più che volontari, a personale di cui non si provvede né a valutare né a garantire in seguito  adeguata preparazione per le delicate funzioni cui sono chiamati e che in un trattamento umiliante non trovano neppure lo stimolo per aggiornarsi e migliorare.

    Si dirà allora: perché lo fanno?  Alcuni per spirito di servizio e, generalmente, sono i migliori (ottimi Onorari, non solo tra i Giudici di Pace si trovano…), altri c’è da supporre per arrotondare le entrate: uno per l’altro maltrattati non meno dei cittadini che si rivolgono a un sistema inidoneo a soddisfare quell’attesa di Giustizia che assomiglia sempre più ad una vana speranza.

  • In attesa di Giustizia: libertà perdute

    Coloro che hanno la capacità di sopportazione di leggermi su queste colonne, anche di quando in quando, sanno che sono un difensore delle garanzie  appassionato della Costituzione che assegna quelle primarie e inalienabili.

    Un avvocato, d’altronde, la Carta Fondamentale dello Stato la deve conoscere: sorprende, dunque, e non solo chi scrive, l’affermazione del sottosegretario alla Giustizia, On. Morrone, a proposito della necessità di eliminare le correnti di sinistra della Magistratura (violazione degli artt. 3, parità di diritti tra i cittadini e 18 della Costituzione) poi corretta estendendola a tutte le correnti: violazione del solo art. 18 che sancisce la libertà di associazione.

    Va detto che una ragione di fondo l’On. Morrone ce l’ha perché la fragmentazione in correnti della Magistratura si è rivelata dannosa soprattutto con riguardo al funzionamento del Consiglio Superiore che risulta condizionato dalla necessità di mediare le proprie decisioni nel rispetto di equilibri e interessi tra le diverse componenti, facendone così un  politicizzato con poteri effettivi (autoassegnatisi) più estesi di quelli istituzionali e non quello di autogoverno previsto – ancora una volta – dalla Costituzione.

    Esprimersi in quel modo, peraltro, è stato sbagliato sia dal punto di vista del diritto che politico…anche perché il rimedio è stato peggiore del male quando si è giustificato dicendo che è abituato a parlare in sedi differenti quali i comizi: come a dire che in campagna elettorale si possono dire e promettere cose che poi non avranno nessuna corrispondenza nei fatti. Ma questo, forse, già lo sapevamo e ce ne eravamo accorti da lungo tempo e con riguardo all’arco parlamentare quasi al completo.

    Lamentarsi sempre di ciò che accade a casa nostra, peraltro, non è giusto perché altrove non si viva esattamente come nella Città del Sole di Tommaso Campanella.

    Per restare in ambito europeo, su cui si incentra il focus del “Patto” vale la pena rimarcare che per la prima volta la Commissione UE ha attivato la procedura di infrazione prevista dall’art. 7 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione nei confronti della Polonia, sospettata di aver violato il diritto ad un ricorso effettivo a un giudice imparziale sancito dal TUE in combinato disposto con la Carta dei Diritti Fondamentali della UE.

    Tutto ciò in conseguenza del fatto che in quel Paese si è disposto il pre pensionamento per legge dei giudici della Corte Suprema che dovrebbero essere indicati dal Ministro della Giustizia che già ricopre la carica di Procuratore Generale. Altre norme riguardano il Consiglio Nazionale della Magistratura (analogo al nostro C.S.M.) e paiono volte a limitare l’autonomia dei Giudici mediante una più marcata sottoposizione all’Esecutivo.

    La salvaguardia del potere giudiziario da quello politico è un valore comune e da salvaguardare ad ogni costo: le nostre libertà, da noi come altrove, sono strettamente legate alla indipendenza dei Magistrati: ecco perché, si è espresso male, ma il sottosegretario Morrone  non ha tutti i torti e perché oggi Polonia e Stato di Diritto sono un ossimoro evidente.

     

  • In attesa di Giustizia: purezze opacizzate

    Peculato, che brutta parola non fosse altro che per le assonanze: è – per i non tecnici – l’appropriazione con utilizzo “privato” da parte di un pubblico ufficiale di un bene di cui abbia disponibilità per ragioni del suo ufficio; se l’utilizzo del bene è temporaneo, si definisce “d’uso” e le pene sono significativamente ridotte rispetto al massimo di dieci anni di reclusione per l’ipotesi più grave.

    Due casi clamorosi in una settimana: il primo riguarda il Giudice della Corte Costituzionale Nicolò Zanon che avrebbe consentito l’impiego della sua auto blu alla moglie per trasferimenti che nulla avrebbero a che fare con esigenze istituzionali. Zanon, mostrando una certa sensibilità, ha presentato le dimissioni dalla Corte (respinte), si è – comunque – autosospeso dalle funzioni e messo a disposizione della Magistratura per chiarire i fatti. Fatti modesti, obiettivamente, anche se provati…anche se un gentiluomo che guadagna un migliaio di euro al giorno (lordi, è vero..) potrebbe permettersi di pagare il taxi alla consorte ed anche se rimane oscuro il motivo per cui i Giudici Costituzionali che dispongono di un alloggio prospicente la Corte debbano disporre di una vettura di servizio di cui mantengono il privilegio, autista e manutenzione inclusa, anche una volta cessati dall’incarico. Peculato d’uso, nel caso e Zanon, che è un giurista di alto profilo, oltre che essere accompagnato dalla presunzione di innocenza  merita grande rispetto per come si è comportato.

    Un po’ diverso è il caso di Antonio Ingroia, già Pubblico Ministero del pool antimafia di Palermo, dimissionatosi dalla Magistratura e più volte candidato in differenti tornate elettorali con risultati men che modesti.

    L’uomo, accasatosi come Amministratore della società regionale Sicilia e Servizi si sarebbe autoliquidato rimborsi spese non dovuti ma – soprattutto – un’indennità di risultato pari a 117.000 euro a fronte di un utile di gestione di 33.000. Come dire: con il  generoso bonus riconosciutosi da solo il bravo amministratore ha mandato il bilancio in rosso…e qui la vicenda si fa più intricata per quanto neppure ad Ingroia si possa negare la presunzione di non colpevolezza e sebbene anche con riguardo ai rimborsi spese resta da capire, tra le altre cose, perché alloggiasse in strutture con mai meno di cinque stelle nonostante che la regola generale per i dipendenti pubblici – anche di alto livello – sia quella del limite a quattro per le strutture alberghiere; la Sicilia, però, ha stravaganti normative in materia di indennità e stipendi: il dubbio che in questo caso possa non aver violato la legge è ragionevole in attesa almeno che i suoi ex Colleghi della Procura di Palermo (sul caso ci lavorano in quattro, compreso il Procuratore Capo) concludano le indagini.

    Certo è che i due casi si prestano a valutazioni molto differenti non fosse altro che nel secondo dei due vi sono dei dati contabili acquisiti, stabilizzati in più bilanci di esercizio e che sono originati dallo stesso soggetto che ora deve giustificarli: e i numeri difficilmente mentono. Staremo a vedere:  Ingroia ha sempre voluto offrire di sé l’immagine del cavaliere senza macchia e senza paura ma per ora – pur rispettandone il diritto di difendersi, discolparsi e fors’anche essere assolto –  resta il fatto, ed il lettore può autonomamente fare le sue valutazioni sulla base dei dati forniti, che liquidarsi un premio di produzione per i risultati economici ottenuti di gran lunga superiore agli stessi potrebbe non essere penalmente rilevante ma è eticamente opinabile…e sovviene il pensiero di Pietro Nenni: “a fare a gara tra i puri, trovi sempre uno più puro che ti epura”.

  • In attesa di Giustizia: dagli, dagli all’avvocato!

    Non bastassero i toni da grida manzoniane, che la campagna elettorale aveva già assegnato al  tema della giustizia, la violenza sulle donne è tornata alla ribalta in seguito a gravissimi fatti di sangue e di molestie verificatisi sull’asse tra Macerata e Roma dove, da ultimo, una anziana senza tetto ha subito violenza – come pare – da un immigrato nordafricano.

    A tacere di questi episodi, l’incandescente dialettica sull’argomento è stata rinfocolata dalle polemiche che sono seguite all’incidente probatorio celebratosi a Firenze nel processo in cui due carabinieri sono indagati per violenza sessuale con riferimento alle modalità con cui i difensori dei militari hanno gestito il contro interrogatorio delle presunte vittime.

    Detto per i lettori non tecnici che l’incidente probatorio consiste in una anticipazione nella fase delle indagini di un passaggio tipico del dibattimento, cioè a dire l’interrogatorio davanti al Giudice ed in contraddittorio con il P.M., di testimoni o persone offese di un reato che non sia opportuno differire nel tempo. Nel caso che oggi ci interessa è stata stigmatizzata da un lato la durezza dei difensori nel porre domande alle ragazze, dall’altro si è enfatizzata la sensibilità del giudice nel porvi freno.

    Si è scritto su autorevoli organi di stampa a diffusione nazionale che un simile modo di procedere comporta una vittimizzazione secondaria cioè a dire la sottoposizione a nuovi traumi, durante un processo, a chi abbia già subito un’offesa.

    Sembrerebbe tutto ineccepibile ma…chi scrive (e verosimilmente neppure i redattori degli articoli cui si allude) non dispone degli atti integrali del processo la cui conoscenza sarebbe chiarificatrice per comprendere ed eventualmente condividere la scelta difensiva.  Invero, solo dall’insieme degli elementi di prova sin’ora acquisiti, che necessitano di una convalida o smentita proprio attraverso gli strumenti tipici previsti dal codice  può  valutarsi la fondatezza di un’accusa basata esclusivamente sulla parola di chi accusa e cui – pertanto – incombe l’onere di provare le proprie ragioni a fronte della presunzione di rango costituzionale di non colpevolezza  dell’accusato.

    Proprio perché è carente in radice la conoscenza del fascicolo non appare condivisibile la scelta di schierarsi dalla parte di qualcuno, facendo solo chiacchiere da Bar Sport; tutto ciò, come anticipato, vale anche per chi scrive: tuttavia non può non osservarsi che un difensore ha  il compito di far emergere – laddove traspaia – l’infondatezza dell’accusa: e ciò non solo è possibile ma è doveroso farlo anche con ferma determinazione e durezza.

    Si sappia che il codice che regola il processo penale prevede proprio che la prova si formi nel contraddittorio delle parti e che – quindi – il momento cruciale di un’attività difensiva risiede nel controesame dei testimoni ostili e nella capacità di condurlo nelle due modalità tipiche: costruttivo ma anche distruttivo, volto cioè a rappresentare se non il mendacio la scarsa attendibilità dell’accusatore.

    Almeno sotto questo profilo qualcosa da imparare dagli americani ce lo abbiamo: nel loro sistema la cross examination è un istituto processuale rispetto al quale la competenza è stata affinata da epoca molto risalente e, per un confronto caratterizzato da forti analogie può essere l’interessante lettura dei verbali di “Florida vs. William Smith Kennedy” processo celebratosi del 1991 e che vide un rampollo della nota famiglia imputato di stupro davanti alla Corte della Contea di Palm Beach.

    L’Avv. Black, suo difensore, partì da dei dati di fatto (proprio quelli che oggi noi non conosciamo in dettaglio) per dimostrare l’inverosimiglianza della ricostruzione fornita dalla presunta parte lesa, una giovane donna sottoposta per undici ore ad un interrogatorio che generò una tensione emotiva tale che alcuni giurati  svennero.

    Pragmaticamente, si era scelto solo di provare a dimostrare che la vittima non poteva essere creduta a prescindere dalla prova provata di una falsità del narrato: concetti solo apparentemente simili.

    Nessuno si stupì in quel caso, neppure i giurati che pronunciarono un verdetto di non colpevolezza e, forse, non ci dobbiamo stupire o – peggio – indignare nemmeno noi, men che mai qualora la conoscenza dei fatti e degli atti sia parziale, se gli avvocati fanno il loro dovere, nell’osservanza della legge non meno che nel rispetto del dovere che su di loro incombe di assolvere ad un impegno che è sacralizzato da canoni costituzionali. A tacer del fatto che, per restare, a quanto accaduto nell’incidente probatorio di Firenze, essendo un’udienza a porte chiuse, neppure sul contenuto dei magnificati interventi del Giudice vi sono dati di completezza.

    Dare addosso ai difensori, peraltro, è un esercizio che sembra non esaurire risorse: dimenticando però che l’attesa di giustizia non può essere solo quella di una sentenza che individui un colpevole purchessia per placare la sete di vendetta sociale.

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