società

  • I pifferai di Davos. Come il turbocapitalismo vuole stravolgere le nostre vite

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Franco Maestrelli apparso su Destra.it l’8 gennaio 2025

    Nella storia dell’umanità periodicamente qualche pensatore decide che la società che lo circonda vada distrutta alle radici fino alla tabula rasa e ricostruita daccapo e per farlo bisogna cambiare anche l’uomo: tra i primi il rivoluzionario francese di famiglia ugonotta Jean-Paul Rabaut Saint – Etienne (1743 – 1793) che nel 1790 affermava che “dobbiamo rinnovare questo popolo, per ringiovanirlo, cambiare le sue forme per cambiare le sue idee, cambiare le sue leggi per cambiare i suoi costumi, e tutto distruggere, sì, tutto distruggere, poiché tutto deve essere ricreato.”  Finì sulla ghigliottina giustiziato da chi era più rivoluzionario di lui, ma le sue idee contribuirono alla distruzione della società francese prima ed europea poi.

    Dopo la Rivoluzione francese seguirono molti altri pensatori che inseguendo l’utopia gnostica di rifare la società e l’uomo sconvolsero il XIX e XX secolo. I nostri giorni vedono alla ribalta nuovi tentativi utopistici di distruggere la nostra pur imperfetta società occidentale e tra questi quello che appare più minaccioso per l’impatto diretto che ha sulle vite dell’uomo contemporaneo è quello che parte dal World Economic Forum di Davos. In questa ridente località svizzera dal 1971 ogni anno si tiene un incontro che riunisce esponenti ai massimi livelli di colossi industriali e finanziari, i più importanti leader politici mondiali, realtà sovranazionali, banche centrali, primarie fondazioni, accademie, media e influencer globali.

    Il padre e animatore di questo Forum è il tedesco Klaus Schwab (1938) e da questa community globale si diramano le direttive volte a influenzare economia, finanza, politica e comunicazione globale. Questo progetto è definito The Great Reset e, per quanto se ne può sapere, non è affatto segreto ma ben descritto sia nel libro di Schwab e Thierry Malleret  Covid- 19: The Great Reset edito nel 2020 (curiosamente mai tradotto in italiano) e nei diversi video che vengono diffusi dallo stesso Forum. Tutto o quasi alla luce del sole, contrariamente a quel che pensano i “complottisti”. Del resto questa stessa area che vede ovunque complotti indica il Piano Kalergi come un piano segreto ma che in realtà riflette solo il contenuto del libro Paneuropa del filosofo e politico austriaco Richard von Coudenhove-Kalergi (1894 – 1972) pubblicato nel 1923 e tradotto anche in italiano (Il Cerchio, Rimini 2006).

    A seguito di grandi sconvolgimenti, fin da quelli delle guerre di religione del XVII secolo, alcuni filosofi elaborano progetti che conducano i popoli alla pace e anche Coudenhove –Kalergi, sconvolto dal disastro della prima guerra mondiale e dal crollo di tre imperi, volle suggerire una soluzione per la pace nel mondo. Ai tempi nostri Klaus Schwab e i suoi sodali di Davos considerano la devastante pandemia di Covid-19, che oltre a milioni di vittime ha sconvolto l’economia e la vita di tutto il mondo, una grande opportunità per imporre il loro progetto di rifare la società e l’uomo. Se ci trovassimo solo davanti al pensiero utopistico di un pensatore queste idee rimarrebbero confinate, come in molti casi della storia, nei suoi libri ma queste idee sono state fatte proprie da quella community del World Economic Forum e minacciano di sconvolgere le vite dell’uomo contemporaneo.

    Immersi da anni nella Grande Narrazione di questa agenda che muove dall’ideologia climatista e dalla digitalizzazione globale, il progetto apre a inquietanti prospettive transumane per ricreare un mondo nuovo. Senza cedere alla tentazione del “grande complotto” lo studioso di economia e finanza Maurizio Milano ha dato alle stampe il suo accurato saggio Il pifferaio di DavosIl Great Reset del capitalismo: protagonisti, programmi e obiettivi che ci conduce all’interno del World Economic Forum di Davos. Nella prima parte del volume Milano presenta i protagonisti. Un vero e proprio parterre de rois con tutte le maggiori aziende dei settori energetico, automobilistico, farmaceutico, finanziario, della consulenza, i colossi mondiali quali Amazon, Apple, Google, Meta, Microsoft, Alibaba Group nonché le primarie fondazioni globali quali la Bill & Melinda Gates Foundation e le Open Society Foundation di George Soros. A questi attori vanno aggiunti personaggi come Christine Lagarde, Kristalina Georgieva, Al Gore…

    Tra i politici presenti e passati si segnalano Angela Merkel, il canadese Justin Trudeau, l’argentina Cristina Kirchner e persino Vladimir Putin gradito ospite fino a quando ebbe la pessima idea di invadere l’Ucraina. In un’intervista Klaus Schwab dichiara che “noi infiltriamo i governi” e allora ci si rende ben conto della potenza di fuoco del World Economic Forum. Milano dopo i protagonisti tratta la grande opportunità offerta dal Covid -19 e la Grande Narrazione necessaria a creare il clima adatto a imporre il grande reset e l’Agenda ONU 2030.

    Nella seconda parte del saggio in brevi capitoli di agevole lettura l’autore passa in rassegna i contenuti dell’Agenda che formano tante tessere di un unico mosaico, da incubo. In questa agenda non manca nulla: il progetto dell’eliminazione del denaro contante sostituito dalla valuta digitale, l’abolizione delle auto a motore termico destinate a essere sostituite da quelle elettriche e i cui disastrosi effetti già si vedono nella crisi del mercato automobilistico. Le abitazioni dovranno essere energeticamente compatibili, dovremo cambiare le nostre abitudini alimentari, dovremo rinunciare alla privacy a favore della sicurezza.

    L’agenda di Davos riguarda tutti gli aspetti della vita, dagli investimenti all’energia, dalle automobili all’organizzazione urbana, dalle abitazioni all’alimentazione, dai costumi al denaro, dall’identità alla sanità, dalla famiglia alla vita sociale fino all’ibridazione uomo-macchina in una hybris prometeica e transumana. E tutti questi capitoli di questo progetto gnostico e disumanizzante sono ben documentati da Maurizio Milano con chiari riferimenti alle fonti ovvero quanto scritto o dichiarato in video da Schwab e soci. Lo scopo dichiarato dall’autore è di opporre alla Grande Narrazione una contro-narrazione che consenta al lettore un Great Awakening (grande risveglio) per far fallire questo Great Reset ma, a differenza di altri volumi sullo stesso argomento che vanno alla ricerca di un “grande vecchio” che tira le fila di tutto, vedendo complotti ovunque e inducono a un pessimismo deterministico che alla lunga facilitano solo il disimpegno e la resa, Maurizio Milano nella conclusione del libro offre anche alcune tracce utili all’azione perché la storia è frutto delle libere scelte degli uomini e finché esistono uomini liberi ogni progetto gnostico di costruire la società perfetta prescindendo da Dio è destinato a fallire come altri già nella storia dalla Torre di Babele in poi.

    L’autore nella sua pregevole conclusione dopo averci dato alcuni spunti per “agere contra” ci offre l’ottimismo “che nasce dalla consapevolezza che il tempo è sicuramente destinato a svelare l’inconsistenza dei progetti umani, troppo umani condannati a un inevitabile fallimento per ragioni di ordine metafisico e morale. Una cosa è illudersi di resettare il mondo, tutt’altra riuscirci”, come ci insegna la teologia della storia. Il libro oltre ad essere strutturato in chiari paragrafi seguiti da brevi sintesi degli stessi si avvale di un’accurata bibliografia aggiornata e da un indice dei nomi e delle sigle nonché di un indice tematico ed è preceduto da un’introduzione di Marco Respinti, dotta e di piacevole lettura.

    Maurizio Milano, Il pifferaio di Davos. Il Great Reset del capitalismo: protagonisti, programmi e obiettivi. Introduzione di Marco Respinti. D’Ettoris Editori, Crotone 2024, pagine 333, euro 23,90

  • Musica e società

    L’arte non vuole più essere apparenza e gioco ma intende diventare conoscenza (T. Mann- Doctor Faustus)

    Hans Heinrich Eggebrecht (Musicologo tedesco, nato a Dresda il 5 gennaio 1919 e morto nel 1999) dichiarò: “emozione matematizzata, o mathesis emozionalizzata, la musica induce la sensualità alla ragione, l’emozione all’armonia, in questo sta la sua forza etica, formativa, religiosa, utopistica…”

    Ci sono molti modi di ascoltare la musica e altrettanti di considerarla. Il compositore americano Aaron Copland ne ha scelti tre: “l’amatore indifferente” che la ascolta magari come sottofondo o, comunque per distrarsi da altre occupazioni; il “tecnico” che ne coglie la costruzione, che sta attento a identificarne il tema o i temi, che la giudica in base alla sua originalità compositiva; l’”espressionista” che la ascolta nel suo insieme cercando di coglierne il significato intrinseco.

    Anche T. W. Adorno (Introduzione alla sociologia della musica – 1962 – ed ital. 1971) suddivide in modo simile i vari modi di ascoltare la musica. Per lui i tipi di ascolto sono sei. Comincia con il “professionista”, solitamente un esecutore o un compositore, che affronta ciò che sente in modo puramente tecnico-formale. Ciò che attira la sua attenzione è la logica costruttiva dell’opera. Poi c’è il “buon ascoltatore” che capisce la musica come ciascuno capisce la propria lingua: vi trova un significato che lui coglie (o crede di cogliere) e gli interessa poco la costruzione strutturale. Solitamente non è un tecnico e non dà particolare importanza ai dettagli musicali preferendo cercare di cogliere il filo conduttore di ogni composizione, ascoltata nel suo insieme dall’inizio alla fine. Il terzo tipo è il “consumatore di cultura”. Costui è informato sulla biografia dei compositori e la storia delle opere cui assiste nei concerti con una certa assiduità. Il quarto è colui che non si interessa per nulla della partitura e del compositore e preferisce abbandonarsi al semplice flusso sonoro. Quasi come lui è il quinto ascoltatore che, tuttavia, predilige la musica detta “leggera”. Questo tipo può essere un ferrato seguace di tale tipologia musicale oppure uno che ascolta le note per puro passatempo ed è indifferente, o quasi, a chi canta o cosa è suonato. L’ultimo tipo identificato da Adorno, il sesto, è lo “ascoltatore risentito” che suddivide in due categorie: chi ascolta solo musica pre-romantica e disprezza il resto e chi ama soprattutto il jazz. Il primo è un fan acceso di Bach e magari apprezza pure il canto gregoriano o la monodia secentesca. Il secondo è un esperto del jazz e considera “superata” o “inutilmente intellettualistica” la musica detta “classica”. Costui vede nel jazz una forma di ribellione alle regole sociali consuetudinarie. Ciò avviene nonostante anche il jazz, come successo pure al rock, sia oramai totalmente integrato nella comune vita sociale e sia stato assorbito dalla logica del mercato.

    Se consideriamo utile accettare le suddivisioni sopra citate di Copland e di Adorno, noteremo che il tipo “espressionista” espresso dal Copland e il “buon ascoltatore” identificato da Adorno sono pressoché coincidenti. È ovvio che, come in tutte le ripartizioni in tipologie, non esistano tipi “puri” e tra di loro esistano sfumature e sovrapposizioni.

    A prescindere in quale “tipo” ci si immedesimi nell’ascoltarla o per giudicarla, nella musica succede ciò che caratterizza tutte le altre forme artistiche: gli stili, i concetti, le forme appartengono all’epoca in cui sono concepite e, consciamente o inavvertitamente, ne sono l’espressione. Quasi sempre, indipendentemente dalla volontà dell’autore, ogni opera d’arte esprime un pensiero che non può prescindere dalle circostanze culturali dell’epoca o del segmento di società in cui si trova l’autore.

    Adorno scrive: “…quel che la musica dice è determinato in quanto cosa che appare, ma che è anche nascosto…la musica coglie l’assoluto senza mediazioni…” E il sociologo Gilbert Durand attribuisce alla musica “la funzione di metaforizzare, nel contrasto delle sonorità, l’intero dramma cosmico”. Schopenhauer, ancora più precisamente sostenne che ogni tipo di musica rappresenta una weltanschauung, cioè una “visione del mondo”.

    Nella formazione di un brano musicale la capacità tecnica del compositore è sicuramente importante e fa la differenza verso quella composta da chi è meno preparato o meno abile. Tuttavia, Croce sosteneva che nell’arte la “forma” è, in sé, anche “contenuto” e nella musica questa realtà diventa particolarmente evidente.

    Ogni autore è contemporaneamente, spesso inconsciamente, figlio del suo tempo oppure propositore di uno nuovo. Ciò non significa che tutte le opere musicali rappresentino nella loro completezza l’intera società o rispecchino esattamente tutto il periodo in cui vengono composte, né che la “proposta” tecnicamente più innovativa anticipi sempre il mondo che verrà. Comunque, che il compositore lo sappia o no, ciò che sta scrivendo risponde almeno in parte a quello che l’epoca gli chiede. O gli sta suggerendo.

    La musica di Bach, ad esempio, è “perfetta”, rassicurante, ordinata. Se riandate alle composizioni del periodo bachiano è naturale sentire come tutto sia perfettamente equilibrato e confortante. Non che manchi il movimento, tutt’altro, ma avviene all’interno di una struttura ben ordinata. “Matematica”, sostiene qualcuno. Non va dimenticato che si trattava di un artista che componeva da “direttore di Cappella” e che il clero e i nobili, suoi maggiori fruitori (e finanziatori), avevano tutto l’interesse a vedere la società come armonica e stabile. Tale doveva essere la percezione che si voleva fosse trasmessa al popolino e lì dentro non dovevano avere spazio sentimenti o desideri che si contrapponessero all’ordine costituito. Nessuna rivoluzione sociale, dunque: solo perenne stabilità. Esattamente come a molti potrebbe piacere che fosse la società in cui vivere. Anche ai nostri giorni. L’amatore di Bach è, magari inconsapevolmente, un conservatore.

    Già le cose cambiano con Vivaldi. Se si va a guardare la sua vita privata si scopre che pur facendo in qualche modo parte dell’élite non vi si trovava completamente a suo agio. Probabilmente ciò era dovuto al suo essere un prete, professione che, molto probabilmente, non viveva con intima convinzione. Era il tempo in cui nella sua società nascevano fermenti disorganici: le guerre che colpivano i vari territori arrivavano sempre più vicine e Venezia, dove viveva il “prete rosso”, era una realtà in espansione. Non una città ripiegata su sé stessa in un’auto-contemplazione, ma lanciata verso commerci ogni volta più lontani. Quella società ambiva a conquistare nuovi mercati, lottava contro i concorrenti. In altre parole era sempre alla ricerca di un nuovo “futuro”. È per questo che la sua era una musica viva, forte, evocativa. Pur rispettando i canoni tecnici richiesti dall’epoca, non si trattava di una musica “rilassante”. Era “ambiziosa” e, in un certo senso, sempre insoddisfatta.

    Con Mozart le cose furono ancora diverse. Gli esecutori (i “professionisti”), per loro natura più attenti alla forma che ai contenuti, lo trovano “geniale” e nessuno potrebbe affermare che i suoi pezzi musicali manchino di alcunché. La sua capacità creativa era eccezionalmente multiforme e, per lui come per tutti gli altri maestri, dobbiamo guardare le opere nel loro complesso e non considerarle singolarmente. Poiché nella sua epoca tutti i musici vivevano grazie al favore dei committenti, era naturale che componessero quel che loro era richiesto anche se personalmente avrebbero preferito fare altro. A suo modo, Mozart fu contemporaneamente a disagio e a suo agio nella società in cui viveva. Aveva un carattere giocoso e la sua ironia musicale divertiva e contestava nello stesso tempo. Rimaneva però attento ad offrire un piacere immediato agli ascoltatori. A rischio di diventare perfino “superficiale”. La sua musica non entra mai nel merito di possibili conflitti sociali esistenti e, tantomeno, fa riferimento a possibili drammi esistenziali individuali. È un’eccezione la sua “Messa da Requiem” nella quale il dramma della vita e della morte emergono con forza. In questa sua ultima opera, nemmeno da lui completata per morte sopraggiunta, viene a galla un’intima disperazione e per quanto anch’essa fosse stata commissionata probabilmente vi affioravano i suoi sentimenti più nascosti. Chissà se il motivo stava nella sensazione che la sua fine fosse vicina… Una composizione ben diversa dalle sue solite composizioni fu, stranamente, il concerto per clarinetto K622 ove si respira una certa volontà di affermare sé stesso e non solo assecondare l’auditorio. Anche lo “Scherzo musicale” K522 è dissonante rispetto alle sue solite composizioni. Lì sembra prendersi gioco degli ascoltatori dipingendo una vera e propria parodia in musica.

    Con una capacitò creativa quasi uguale a quella di Mozart si distinse in quell’epoca il nostro Boccherini. Anch’egli seppe sviluppare una originale capacità tecnica ma, forse per la ragione che non “serviva” alla Corte Reale e stava invece presso il fratello cadetto del Re, era molto più libero di “contestare” il potere costituito, pur senza esagerare. Non a caso le sue opere offrono al “buon ascoltatore” spunti concettuali a loro modo “rivoluzionari”.

    Nietzsche, che di musica ne capiva molto, aveva visto in Wagner il portatore di una musica “dionisiaca”, e la identificava in una volontà di affermazione virile, immediata, a suo modo sposa del mondo, della natura e dell’uomo che si “impone”. Quando entrambi cambiarono il loro modo di vedere il mondo, la loro amicizia finì. Wagner compose il Parsifal cedendo a sentimenti meno “rivoluzionari” anche per l’età che avanzava o perché non era più un paria musico-sociale come in gioventù ma era diventato, nel frattempo, una “star” riconosciuta. Le sue opere divennero più “mistiche” e più conformiste. Nietzsche, che intanto aveva approfondito il suo distacco dai valori dominanti (contemporaneamente alla “conversione” di Wagner, lui pubblicava “Umano troppo Umano” dedicandolo a Voltaire), lo rinnegò e per contrapporsi a lui decise di preferirgli Brahms o, soprattutto, Bizet. Brahms era un nuovo “classico” che tuttavia rompeva gli schemi precedenti e Bizet, da vero musicista mediterraneo, suggeriva una visione del mondo immediata, solare, vitalistica. Dionisiaca, appunto (Di certo, questa scelta portò Nietzsche anche ad esagerarne i meriti artistici ma ciò era legato al suo bisogno di “liberarsi” da Wagner). A proposito della musica wagneriana, non è per caso o per i contatti personali di Hitler con la famiglia del compositore che Wagner divenisse il compositore prediletto dai nazisti: la sua musica, piena di melodie che si accavallano e intrecciano e non lasciano alcuno spazio uditivo libero per l’ascoltatore è esattamente “totalitaria” così come voleva esserlo il mondo nazista. Una delle accuse che Nietzsche fece alla musica wagneriana fu proprio di voler arrivare al “ventre” saltando ogni contatto con il “cervello” dell’ascoltatore.

    Prima di Wagner, Beethoven e Schubert hanno descritto e rappresentato un mondo che voleva cambiare ed è quello che stava accadendo attorno a loro. In Europa c’era stata la Rivoluzione Francese e in tutto il continente le domande di rinnovamento della società e l’avanzare verso il potere di nuove classi sociali imponevano nuove sensibilità e un nuovo modo di essere. L’individuo diventava più importante della società nel suo complesso e l’affermazione personale, per realizzarsi, richiedeva una descrizione ottimista, forte, vincente. Tali sono le sinfonie di Beethoven: un singolo che si afferma contro tutti e davanti a tutto. Dice: io ci sono, esisto come individuo e mi relaziono con gli altri mettendo in evidenza le mie speranze e le mie ambizioni. Nessuna mediazione sociale, né verso il potere né verso la natura. L’individuo, in quanto tale, diventa “padrone del mondo”. Ecco il Romanticismo! Meno “romantiche” alcune delle Sonate, e soprattutto le ultime, la numero 31 opera 110 e la 32 Op. 111. Queste due, pur molto innovative nella forma, riportano al trionfo dell’ordine sul caos, della certezza contro l’incertezza. Della “pace” sulla “guerra”. Fu l’avanzare dell’età a spingerlo verso un atteggiamento più conservatore? O fu solo una questione anagrafica coincidente con la società stanca delle “rivoluzioni”?

    La metà dell’ottocento vide in tutta Europa il nascere di sentimenti di appartenenza nazionale e anche la musica, così come la letteratura, la pittura ecc., ne risentì. Smetana, Glinka, Dvorak e Liszt tra gli altri lo testimoniarono, recuperando e rielaborando le musiche popolari tradizionali. Ciò sta a dimostrare che ogni forma artistica risente allo stesso modo delle tendenze culturali della società che cambia (Un esempio più vicino a noi è rappresentato dalle reazioni localistiche alla globalizzazione: mentre le comunicazioni e gli intrecci si fanno sempre più veloci, si riscoprono i canti popolari e le canzoni in dialetto).

    Piu’ tardi, Stravinskij fu un maestro tra coloro che ruppero con il passato. I suoi balletti all’inizio fecero scandalo perché totalmente anticonformisti. Diede l’addio alla melodia, simbolo di valori comunemente riconosciuti e portatori di certezze. Pezzi come Il Rito della Primavera o Pulcinella sono la testimonianza immediata della natura che si auto-impone. Si affermano in modo autonomo, sfuggono gli schemi, suggeriscono la forza che la natura esprime, senza mediazioni: il mondo si afferma da sé!

    Che dire degli impressionisti? Come nella pittura, rinunciano alla razionalizzazione costruita dalla mente umana e si limitano a “sentire” ciò che li circonda. In Debussy, nonostante la tecnica usata sia sempre “umana”, sono le cose a imporsi, anche qui senza mediazione. Vi si ribellano gli espressionisti come Schoenberg e Webern che tornano a voler “leggere” il mondo scavando dentro sé stessi e riportando a galla un loro estremo soggettivismo come reazione alla solitudine e alla crisi create da un mondo alienato. La loro musica è a-tonale. Anch’essi contestano la tradizione, fino al punto in cui Schoenberg se ne scosta del tutto aprendo alla dodecafonia che è il vero rifiuto di ogni ordine costituito. Non è per caso che questa tendenza musicale sia contemporanea all’astrattismo pittorico di vario genere: è immediatezza e tuttavia soggettiva e interpretativa. I valori di riferimento sono sempre meno comuni e condivisi all’interno delle singole società e la loro assenza la si “vede” esplicitamente nella musica di Stockhausen o, per esempio, nel nostro Nono. In loro tutto è musica e niente lo è. Mancano i canoni comuni, i suoni si impongono tutti allo stesso modo e uno vale l’altro. È la società frammentata, conflittuale, che si auto-presenta come rifiuto dell’ordine costituito. È la perdita dei “valori comuni” o, in altre parole, l’atomizzazione del sociale. È quindi naturale che tutte le società totalitarie, sia comuniste sia fasciste, abbiano combattuto con tutti i mezzi questa forma artistica.

    Forse più di tutti, Il primo compositore (inizio novecento) che coscientemente e razionalmente (e pur rispettando i canoni classici) ha voluto rappresentare una sua personale e manifesta Weltanschauung attraverso le note è Gustav Mahler. Nelle sue opere diventa evidente come lui stesso identifichi la musica con la filosofia e gran parte del suo fascino, apprezzato da molti anche ai nostri giorni, sta esattamente in questo. Meno melodico, ma ugualmente “filosofo” seppur con un’altra “visione del mondo” fu anche Richard Strauss (In una società molto diversa perché di un altro tempo, pure il suo bisavolo Johann Strauss i cui valzer restano contemporaneamente la celebrazione di un impero e la premonizione della sua fine raffigurò perfettamente il tempo e il mondo in cui viveva.).

    Chi non ascolta la musica con costanza trova difficile coglierne il senso intimo e la dimostrazione del perché di questa difficoltà la si ha nella musica dodecafonica. Pensiamo, per capire tale meccanismo, a ciò che accade con le lingue straniere: se non le conosci, alle tue orecchie quel suono si presenta semplicemente come un insieme di rumori vocali senza significato. In quel caso, e nella migliore delle ipotesi, ci si limita ad apprezzare o, al contrario, essere negativamente colpiti dal loro puro tono, come se fosse fine a sé stesso. Di una lingua straniera che non si riesce a decifrare sfugge totalmente il senso, cioè il significato che chi la parla attribuisce ai suoni che pronuncia. Claude Levi-Strauss: “Fra tutti i linguaggi, soltanto la musica riunisce i caratteri contradditori di essere a un tempo intelligibile e intraducibile”.

    La difficoltà per molti di “leggerla”, e quindi capirla, fu la fortuna personale di Dimitri Shostakovich. Costui certamente non fu propriamente “organico” al sistema politico in cui si trovò a vivere. Eppure compose di tutto, dal jazz al balletto leggero, alle opere celebrative (vedi ad esempio la sinfonia N.7, Leningrado). A volte, pur correndo dei rischi, seppe musicare una critica sardonica allo stesso sistema totalitario che lo circondava (es.: la sinfonia N.3- Il primo di maggio oppure il concerto N.1 per piano, violino, orchestra e tromba N.35 del 1933). Nelle sue opere più intime, i quartetti, la sua anima si evidenzia in una weltanschauung esistenziale e il suo tema discorsivo è l’angoscia dell’esistere. A differenza di Tchaikovsky, pure autore di eccezionali opere drammatiche (vedi ad es. la sinfonia N. 4), per Shostakovich la sofferenza intima non è dramma: è tragedia.  i drammi colpiscono la vita degli individui, le tragedie sono universali. Il primo, attraverso sinfonie e balletti, è l’autore di un sistema musicale che resta organico con la società circostante e vive il personale disagio (era omosessuale in una società ancora omofoba) quasi intimamente, subendone le conseguenze senza ribellarsi. Il secondo, invece, vive virilmente il senza-senso del quotidiano essere: conosce il vuoto dell’esistenza, sa che la vita non ha un fine trascendente ma finisce con sé stessa. Allora vi si contrappone come uomo pensante e indomito. Fa venire alla mente Camus con il suo Prometeo: chi comanda è Zeus ma: “O Zeus, io sono un uomo è in quanto tale io sono la mia libertà”. Shostakovich non era ligio alle tematiche che il partito si aspettava da lui e il suo sentire non era quello del “realismo socialista”. Pur senza comprenderne il significato intrinseco, i gerarchi del PCUS (e lo stesso Stalin) a volte “percepivano” che la sua musica non era in linea con i “dettami” che avrebbe dovuto rispettare.  I custodi dell’ortodossia sovietica capivano che qualcosa non andava ma non riuscivano a coglierne esattamente il perché. Ogni tanto i sospetti furono così forti che il compositore fosse messo sotto accusa ed emarginato dalla nomenclatura artistica. Allora, come fece con la terza sinfonia chiestagli affinché celebrasse il Primo Maggio dei Lavoratori, compose qualcosa che potesse sembrare “organica” al regime eppure, se la si ascolta tenendo presenti le altre sue composizioni, si capisce che in fondo finisce con l’essere una parodia di quella stessa celebrazione. Un’altra ancora più evidente parodia del sistema totalitario sovietico la si coglie nel Concerto N. 1 citato poco sopra. Questa composizione è, di fatto, una caricatura. Comincia con citazioni pianistiche classiche che si trasformano in una marcia militare festosa e celebrante. Ben presto, tuttavia, si tramuta per ben due volte in una musica da circo, tipo quelle usate in quelle occasioni per accompagnare l’apparizione dei clown.

    Dove la vera weltanschauung di Shostakovich appare in tutta la sua evidenza è soprattutto nei quartetti. Di loro si potrebbe dire che, se anziché musica fossero state prosa, avrebbero potuto essere libri scritti da qualche esistenzialista alla Jaspers o alla Sartre.

    L’intrinseco significato filosofico e sociale della musica si riscontra anche nella musica cosiddetta “leggera”. Non è per caso che dopo la guerra le canzonette italiane furono sempre edificanti, melodiche, e i loro testi toccassero solamente temi intimi come l’amore o la natura. Più tardi, durante il miracolo economico e con l’avvicinarsi del sessantotto. si cominciò anche da noi a importare lo stile e i testi dei cantautori francesi alla Boris Vian, ai Brassens e ai Brel. Il benessere sembrava raggiunto e si cominciava la critica della società dei consumi e del perbenismo conformista. Fu in quel periodo che nacquero i nostri famosi cantautori, più o meno contestatori e più o meno politicamente impegnati. Detto ciò, una vera contestazione (anche generazionale) verso la società costituita arrivò in tutto il mondo con il rock. Questo ritmo fu una vera cesura col passato della musica “facile”. Basta con le melodie scontate: si imponeva la “protesta”, simbolizzata dallo spazio e dal ruolo dati alla batteria. Il ritmo diventa sincopato e dominante e rappresenta musicalmente la ribellione contro la società che altri, i “vecchi”, ancora controllano. La società dei consumi, però, sa tutto conglobare e perfino i Beatles, nati contestatori, furono presto trasformati in prodotto di consumo. Anche i Rolling Stones che sembravano essere impossibili da “assorbire” seguirono la stessa sorte. In poco tempo il rock fu assimilato smussandone la valenza “anarchica”. Nacque allora l’”hard rock”, ultimo tentativo di mostrarsi, in qualche modo, “contro”. In Francia i primi a provarci furono, con i loro testi e meno con la musica, gli Antoine e, dopo di loro, i Renaud. Quest’ultimo cantava esplicitamente: “Société tu m’aura pas”.

    Anche per loro, tuttavia, il destino è stato quello di essere inglobati e, se non è avvenuto a livello personale (nel caso di Renaud), lo è stato per la loro musica.

    Quella che non è mai stata inglobata, almeno fino a ora, è la musica dodecafonica. In questo caso la rottura di ogni ritmo o melodia è talmente difficile dall’essere accettata dal comune sentire che la sua diffusione popolare diventa pressocché impossibile. Eppure, è la rappresentazione più evidente delle società odierne nelle quali è impossibile identificare i valori comuni di riferimento. È la dissoluzione dei valori condivisi, la mancanza di orientamento collettivo nelle comunità. In questo tipo di musica ogni rumore diventa suono musicale e il pentagramma viene abbandonato per note nuove, improbabili, irripetibili nella razionalità quotidiana pur essendo proprio niente di più che totale quotidianità.

    Un’osservazione a parte merita il jazz. Nato come espressione di gruppi emarginati, ha trovato una ampia legittimazione in tutti gli strati della società nonostante fosse inizialmente la voce di chi di quella “società” non faceva parte. Con il tempo, anche questa musica è stata assorbita e introiettata. Questo stile musicale è sempre più diffusamente popolare e apprezzato anche da chi ne era contestato, fino a snaturarsi totalmente nel diventare perfino un sottofondo musicale da supermercato o da musica per le hall degli alberghi. “La funzione sociale del jazz coincide con la propria storia, che è la storia di un’eresia recepita dalla cultura di massa” (Adorno, op. citata).

    Tecnicamente, a suo modo e pur nella grande diversità formale, il jazz è come la musica dodecafonica: senza schemi, con il rifiuto (o almeno la lontananza) dall’ordine costituito. A differenza della dodecafonica però resta più “digeribile” e popolare. Questa accessibilità non è necessariamente una virtù perché il fatto che il jazz sia improvvisato, sedicente “spontaneo” e comprensibile da chiunque, deriva proprio dal fatto che non richiede né in chi lo suona né in chi lo ascolta, studi, regole, “letture” filosofiche. Ovviamente non alludo alla bravura necessaria in chi lo esercita perché, comunque, occorre essere in grado di ben padroneggiare note e strumenti. Penso, piuttosto, al fatto che chi lo suona vuole lasciarsi andare al sentimento del momento e, se non è solista, si coordina con gli altri esecutori che lo seguono o lo anticipano in modo istintivo come fa lui. È la vittoria del contingente sul necessario, dell’improvvisazione sull’elaborato. È il tipico sintomo di una società senza prospettive, senza meritocrazia. Una società ove studiare, programmare, razionalizzare non sono più valori riconosciuti e condivisi. Una società abbandonata a sé stessa, una società che non vede futuro o che non ha nemmeno più la consapevolezza di poterlo costruire.

    Quali saranno le future evoluzioni della musica nelle società del futuro? Quali le nuove “visioni del mondo” che troveranno forma attraverso i suoni? Nessuno, per ora, lo può prevedere con certezza salvo affidarsi agli indovini. Comunque, poiché l’arte, musica compresa, è sempre lo specchio della società che la circonda, poco per volta, qualche nuovo artista comincerà ad esserne interprete.

    Dario Rivolta (dicembre 2024)

  • Nel Paese del ‘volemose bene’ dilaga la solitudine

    In Italia la percentuale delle persone che vivono da sole è aumentata dal 12,9% del 1971, al 35,5% del 2022. Osservando i numeri assoluti si scopre che le persone che vivono sole crescono: infatti si è passati dai 4,6 milioni nel 1998 ai 7 milioni nel 2010, per arrivare ai quasi 9 milioni nel 2022. Secondo una indagine di Eurostat, l’Italia è il Paese in Europa in cui ci si sente più soli: il 12-13% degli italiani, dai 16 anni in su, ha infatti dichiarato di non aver nessuno con cui parlare dei propri problemi, più del doppio della media Europea. L’istituto di Fisiologia clinica di Pisa sostiene che in Italia ci siano almeno 50 mila ragazzi Hikikomori, rinchiusi nelle loro camerette (gli hikikomori sono persone che si ritirano dalla società evitando qualsiasi contatto sociale, spesso adolescenti o giovani adulti).

    La solitudine ha peraltro ricadute sulla salute. Maoqing Wang, Yashuang Zhao e colleghi hanno condotto una revisione sistematica e una meta-analisi di studi condotti tra il 1986 e il 2022, su un totale di 2.205.199 persone. Hanno scoperto che sia l’isolamento sociale (limitazione di contatto sociale con gli altri), sia la solitudine (quando una persona si disconnette consapevolmente dalla socialità) risultavano significativamente associati ad un aumento del rischio di mortalità per tutte le cause e di mortalità per cancro, e che l’isolamento sociale era associato ad un aumento del rischio di mortalità per malattie cardiovascolari.

    Il Corriere della Sera ha riferito che nel 2022 sono stati ritrovati a casa, dopo mesi, almeno 100 morti in solitudine in Italia, dato ovviamente sottostimato. In Giappone, invece, li hanno contati: sono 30mila i morti definiti “kodokushi” (tradotto significa “morte solitaria)”, di cui il 25% di questi tra i 40 e i 50 anni. Un problema serio affrontato nel 2021 con l’istituzione di un ministero apposito “alla solitudine”. Stessa scelta fatta dall’Inghilterra nel 2018 che ha dotato il nuovo ministero “alla solitudine” con 20 milioni di sterline per affrontare questo problema. In Italia? Un rapporto dell’Istituto superiore di sanità del 2017 stimava che la solitudine costi all’economia italiana circa 10 miliardi di euro l’anno, ma non esistono strategie per affrontarlo. Questo costo è dovuto alle spese sanitarie conseguenti alla condizione di solitudine, alla perdita di produttività e alla riduzione della qualità della vita delle persone sole. Un problema serio con sintomi per noi curiosi e incomprensibili: in Sud Corea si affittano compagni virtuali per pranzare e in Giappone dove invece si “pagano” le amicizie e i gesti affettuosi. Vivek Murthy, ovvero il massimo funzionario federale ad occuparsi di questioni di salute pubblica in America, parla esplicitamente della solitudine come di un’epidemia più pericolosa del Covid stesso. Secondo lui per affrontarlo servirebbe uno stanziamento di fondi gigantesco, capace di rivoluzionare i principi dell’assistenza sanitaria. La Scuola del Popolo non si avventura nel proporre soluzioni. Di certo, nel suo piccolo, ha dimostrato che è possibile intervenire e che l’animazione culturale favorisce l’interazione sociale “cambiando” le persone. Per questo proporre una riflessione su questi temi può diventare un suo impegno.

  • Confessioni

    Ho pensato di fare anch’io una confessione, probabilmente per molti scandalosa in una società ed in un tempo dove non c’è più né scandalo né stupore per qualsiasi notizia o rivelazione.

    Confesso: non ho canali personali sui social, non ho un blog, chi, per qualche motivo, vuole sapere chi sono, se non lo chiede a me, può andare su Google dove, ovviamente, trova chiunque e per contattarmi può scrivere alla mia mail, dove rispondo io e non altri, o alla segreteria del Patto Sociale.

    Resta perciò un mistero, per me, la necessità che hanno in tanti, troppi, di comunicare tutti i passaggi del loro quotidiano al mondo, che per altro se ne infischia, e di mostrare a persone, spesso sconosciute. o conosciute solo virtualmente, ogni aspetto della loro vita.

    A chi veramente importa di vedere il piatto che stiamo mangiando al ristorante o la casa dell’amico che siamo andati a trovare, a chi importa il selfie che ci siamo fatti da soli o in compagnia di persone più o meno sconosciute e quale gloria, o vantaggio, ci porta la foto postata mentre, casualmente o no, eravamo con qualcuno di noto?

    A parte i coyote da tastiera come è possibile che persone ‘normali’ (termine che forse non è più politicamente corretto) passino, secondo i dati pubblicati in varie ricerche, diverse ore al giorno attaccati alla rete e non per motivi di lavoro o di studio?

    Che senso ha un responsabile nazionale della privacy quando nessuno di noi ha più la possibilità di vedere rispettato un minimo di riservatezza sia per sua scelta che per scelta altrui! Chiunque può entrare in casa tua fotografare e postare, i droni ti seguono dall’alto, le persone con te a cena invece di parlarti postano a tutto spiano e leggono le cose postate da altri, tutti perennemente connessi o forse sarebbe meglio dire sconnessi.

    Ci si licenzia o si è licenziati, si troncano rapporti anche sentimentali con un sms o meglio su skype, si dichiarano guerre, si lanciano bombe, si fanno campagne elettorali nel giro di pochi istanti e senza mai guardarsi in faccia.

    Intano giochi violenti hanno creato confusioni estreme tra virtuale e reale creando quel disagio mentale, specie tra i più giovani, che porta a troppe azioni violente ed irreparabili e tutto ciò, in questi anni, ha reso spesso l’uso di internet da bene comune a male collettivo.

    In una società e in un tempo nel quale i super miliardari passeggiano nello spazio, i civili muoiono sotto le bombe in Ucraina o in Medio Oriente, per non parlare dei tanti altri luoghi di guerra, un tempo nel quale più o meno ogni due giorni una donna è uccisa e ragazzini ammazzano genitori o coetanei con la stessa indifferenza e naturalezza con la quale si può accendere un computer o bere una bibita forse è ormai il tempo di darsi una calmata e di prendersi una pausa di riflessione.

  • Il pressapochismo e le sue conseguenze

    Negli ultimi anni abbiamo visto, in troppe occasioni, molti capi di Stato, primi ministro, leader d’opposizione che non sempre sembravano consapevoli delle loro dichiarazioni e relative conseguenze, in altre consapevoli ed in totale spregio delle conseguenze.

    La teoria che l’inquinamento, non solo ambientale, possa avere colpito le capacità di ragionamento ed essere la causa non è stata al momento né suffragata da prove scientifiche ma neppure smentita, certo è che l’inquinamento emotivo ha procurato un’escalation di violenza in ogni strato della popolazione.

    Quello che oggi preoccupa ulteriormente è l’inconfutabile certezza che tutto si va deteriorando anche negli apparati più sensibili, non per nulla nessuno avrebbe potuto immaginare una sconfitta così tragica come quella subita dai servizi d’informazione israeliani il 7 ottobre.

    Che gli Stati Uniti abbiano periodicamente un attentato ad un presidente o ad un leader politico è cosa nota ma non può che stupire come si è compiuto l’atto scellerato, ma altrettanto maldestro, di chi ha sparato a Trump, uccidendo un inerme cittadino, nella disattenzione generale di chi era preposto, sul campo, alla sicurezza.

    I molto gravi attentati terroristi degli ultimi anni, che hanno colpito anche la Russia, e i tanti attentati minori, compiuti da persone già segnalate come pericolose, dimostrano purtroppo uno scadimento sempre più preoccupante dei sistemi di sicurezza.

    Viviamo in una società ad alto rischio ma i rischi maggiori sono dovuti allo scollamento delle istituzioni ed al pressappochismo.

  • Anas non basta, lo Stato si intasca altre autostrade

    Il crollo del Ponte Morandi ha portato a una sanzione di 8 miliardi incassata dai Benetton. Già, perché l’idea che i privati non sappiano gestire le autostrade e la voglia dei grillini allora al governo di riportarle sotto la mano pubblica ha portato alla revoca della concessione ai Benetton, con relativo indennizzo – 8 miliardi appunto – dovuto a norma di legge.

    Crollato il grillismo al governo resta tuttavia in piedi la statalizzazione delle Autostrade, tramite la costituzione della Spa pubblica Autostrade dello Stato, interamente partecipata dal Mef e sottoposta al controllo del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti che gestirà le reti autostradali a pedaggio. Insomma, come i Comuni fanno cassa sugli automobilisti grazie ai pedaggi per entrare in centro (Milano) e per posteggiare (praticamente qualsiasi città), così lo Stato intende far cassa grazie ai pedaggi autostradali. Man mano che le concessioni oggi in essere a varie società per varie tratte autostradali la nuova società rileverà quelle stesse tratte che non saranno più affidate in concessione a privati. In Spagna le concessioni autostradali a privati hanno portato Florentino Perez, che gestisce appunto autostrade, a fare della squadra del Real Madrid un brand di valore economico assoluto (con ricadute positive anche sugli affitti a breve, altro tabù in Italia, nella zona contigua allo stadio dove gioca il Real), ma come si dice: mogli e buoi dei Paesi tuoi.

    Lo Stato peraltro già detiene alcune autostrade e la nuova società dovrebbe inglobare Anas, che oggi appunta gestisce le autostrade già in mano pubblica: le Autostrade meridionali, i trafori del Frejus e del Monte Bianco, Cav (autostrade venete) e Sitaf, nonché Cal, società concedente delle lombarde Brebemi, Teem e Pedemontana di cui Anas è azionista.

  • Cupio dissolvi

    Il latino andrebbe riportato, urgentemente, in tutte le scuole di ordine e grado in quanto unica lingua capace, con poche parole, di sintetizzare situazioni, sentimenti, costumi, e di individuare il motivo conduttore di un intera società.

    La nostra società, per meglio dire la nostra epoca storica, al di là di qualche regione del pianeta non ancora contaminata, si identifica spesso con il cupio dissolvi, l’irragionevole volontà di annientamento.

    Lo vediamo nelle correnti di pensiero, la parola pensiero è un eufemismo, che ardono dal desiderio di cancellare la storia distruggendo i monumenti che l’hanno rappresentata e la rappresentano, nel bene e nel male, nello scorrere dei millenni.

    Da quando i talebani, nel 2001, distrussero i Buddha di Bamiyan, bene dell’umanità, poi imitati dall’Isis, che per altro salvò una parte dei beni archeologici apparentemente distrutti per rivendere i vari pezzi a collezionisti malfattori, lentamente ma inesorabilmente, da più parti nel mondo, vediamo distruggere, o proporre di distruggere, monumenti, statue che rappresentano il passato nel tentativo di ridisegnare la storia, rimuoverla, come se abbattendo le statue si potesse cancellare quello che è stato il passato.

    Cupio dissolvi, dissolvere la Storia, ma non basta, in molti vogliono cancellare, modificare se stessi anche con i tatuaggi che ricoprono gran parte del corpo, per diventare altro da quello che sono.

    Non vogliamo essere noi stessi o, ancor meglio, vogliamo ogni giorno cambiare ciò che eravamo il giorno prima, ancor meglio vogliamo non avere nessuna identità chiara ma solo liquida, in una società altrettanto liquida dove solo chi ha veramente il potere sa invece benissimo chi è e cosa vuole.

    Una società liquida e senza Storia per popoli di uomini e donne con identità confuse, negate, perdute, collegati in un mondo virtuale, sostituiti nel pensiero dall’intelligenza artificiale e sempre più, inesorabilmente, pedine di quei pochi che detengono il potere economico e tecnologico, poteri che si supportano, vicendevolmente.

    Cancellare, uccidendoli o abbandonandoli, i bambini che impediscono ai genitori di sentirsi completamente liberi e senza responsabilità.

    Cancellare, usando anche la violenza estrema, le donne che non si assoggettano ad essere maltrattate, che vogliono chiudere un rapporto malato, cancellare, uccidere chi non accetta di essere proprietà altrui.

    Cancellare nazioni, popoli, per odio o per impadronirsi di beni e territori ai quali non si ha diritto, e non importa se con le guerre, con il terrorismo, muoiono migliaia, decine di migliaia di persone ed ogni legge internazionale diventa evanescente.

    Cancellare gli altri, cancellare se stessi, il cupio dissolvi diventa ogni giorno di più la dissolvenza della nostra società.

  • Educazione e nuove regole per tutti

    Secondo quanto riportato, più o meno quotidianamente, dai giornali che riprendono i dati ufficiali pubblicati dai vari enti preposti, un considerevole e sempre più preoccupante numero di incidenti d’auto è causato da abuso di alcool e sostante stupefacenti o comunque in grado di alterare la capacità del guidatore.

    In aumento esponenziale sono le violenze sulle donne e spesso la loro uccisione e i bambini sono sempre più a rischio, come dimostrano anche le cronache degli ultimi giorni.

    Sempre più comuni nelle scuole episodi di violenza e bullismo, non solo tra coetanei ma anche verso gli insegnanti e spesso da queste intimidazioni non si dissociano i genitori degli alunni.

    Troppi giochi sulla Rete hanno superato il livello di guardia con messaggi che invitano o al suicidio o alla violenza contro altri, ”giochi“ estremi con conseguenze tragiche mentre vere e proprie bande cittadine, composte da ragazzi sempre più giovani, non hanno nessuna remora a colpire di giorno come di notte.

    La capacità di usare la Rete da parte di bambini, fin dalla più tenera età, ormai consente loro di navigare senza controllo su qualunque sito, compresi  quelli pornografici più spinti, quelli che incitano alla violenza e la descrivono come un fatto normale.

    La totale ignoranza su come decodificare i messaggi ed essere in grado di utilizzare i sistemi informatici con responsabilità rende, sempre più, molte persone vittime di truffe e ricatti e causano un grave danno sociale.

    L’aumento di violenze verso gli animali, come dimostra l’uccisione a calci di una innocua capretta da parte di adolescenti, durante una festa di compleanno, o quello dell’orsa Amarena simbolo dell’Abruzzo denotano ulteriormente un’incapacità da parte di troppi di comprendere la gravità dei gesti che compiono, incapacità sempre più dovuta alla incapacità di comprendere la differenza tra reale e virtuale, l’ignoranza e l’indifferenza verso il dolore altrui.
    Abbiamo elencato, senza approfondire, solo alcuni dei tanti dati che ciascuno può leggere o vedere ogni giorno in televisione e che, a maggior ragione, dovrebbero essere all’attenzione di ogni forza  politica, amministrativa e delle associazioni  della cosiddetta società civile, anche perché, da tempo, scienziati e ricercatori hanno lanciato, seppur tardivamente, una serie di allarmi.

    Tutto resta però senza risposta sia nella scuola che nel quotidiano.

    La libertà, che gli stati democratici devono saper garantire e tutelare, è un bene prezioso ed irrinunciabile e proprio per questo va difesa attraverso regole comuni e condivise che sanciscano in modo chiaro che non vi è libertà ove vi è sopruso, menzogna, tentativo di prevaricazione di pochi contro l’intera collettività, in sintesi, per tornare alle origini, la libertà di ciascuno trova limite nel rispetto della libertà altrui e le istituzioni devono essere garanti.

    È perciò evidente che ciascuno può avere diritto, ad esempio, di ubriacarsi ma se le sue condizioni alterate procurano danno ad altri ne deve pagare le conseguenze così come dovrebbero pagare le conseguenze ed essere fermati prima coloro che incitano alla violenza, all’odio, all’autodistruzione, siano essi singoli, provider, opinionisti od altro.

    Ed è anche evidente che, in una società che è diventata più violenta, nella quale molti sfuggono alle regole ed alle leggi ed hanno una percezione esagerata della loro impunità, del loro diritto di appagare qualunque impulso, senza conoscere più né rispetto, né sentimenti ed empatia, ciascuno deve vigilare su stesso per non rendersi più fragile di fronte alla violenza.

    Non è questione di rinunciare al nostro diritto di vestirci come ci pare, di bere più del dovuto, di assumere sostanze che ci rendono non in grado di percepire il pericolo, la realtà, ma di sapere che quando il concetto di libertà è stravolto da una minoranza è necessario, in attesa di un futuro migliore, prevenire, autolimitarci, saper rinunciare a volte anche  a qualche piacere o  conoscenza occasionale.

    “Estote  parati”, una discoteca a notte fonda, un bicchiere di troppo, una pastiglia in più, un passaggio in macchina trovato per caso, qualcuno che propone incontri: chi  ha il coraggio di dire che ci sono situazioni a rischio e di spiegare come tentare di evitare questi  rischi! Scuola, genitori, istituzioni, media tutti dormono, tacciono.

    Oggi i partiti politici hanno scoperto l’estremo degrado di troppe realtà urbane di periferia, dei ghetti nei quali prosperano la delinquenza e la violenza, ma tutti i partiti politici hanno, a turno, governato in questi anni e nulla è stato denunciato, nulla è stato fatto, ci volevano questi ultimi stupri per capire il baratro sul quale siamo sospesi.

    Vogliamo credere che ora si farà qualcosa, speriamo che tutti collaborino in ogni città e luogo ma se, contestualmente, non si affronteranno i problemi di una diversa educazione scolastica, fin dalle primarie, di una diversa educazione nelle famiglie, di pene più certe e severe, di nuove regole anche per i siti pornografici e per l’orario di chiusura dei  locali notturni, insomma nuove regole di vivere civile, temiamo che ancora una volta dovremo registrare tragedie e violenze.

  • Il Centro italiano femminile “provoca” una riflessione sul ruolo delle associazioni oggi

    Venerdì 10 marzo  presso la sede di Palazzo Pirelli a Milano – via Fabio Filzi, 22- Sala del Gonfalone – dalle ore 14:00 alle 18:00, il Centro italiano femminile (Cif) celebrerà l’8 marzo nazionale.
    Con l’occasione, grazie alle risultanze della ricerca realizzata da Euromedia Research, saranno verificate le priorità, le esigenze, la propensione alla partecipazione della popolazione femminile italiana e, soprattutto, l’importanza dei corpi intermedi, quali il Cif, per la costruzione della vita sociale e del corretto vivere civile.

    Ne discuteranno S.E. Mario Delpini, Arcivescovo di Milano; Alessandra Ghisleri, Presidente Euromedia Research; Giorgio Vittadini – docente universitario e Presidente Associazione Sussidiarietà; Renata Natali Micheli, Presidente CIF Nazionale e Laura Caradonna, Presidente della Consulta Femminile Interassociativa di Milano.

    Aprirà i lavori Milena Bertani, Presidente AICCRE Lombardia; coordina il giornalista Nicola Varcasia.
    Il Cif vuole mettere a fuoco il presente ed il futuro dell’associazionismo, soprattutto quello cattolico, che si inserisce nella trama e nell’ordito dei rapporti che collegano i sistemi sociali alle strutture istituzionali in un intreccio di “flussi” (interscambi) che rendono possibile, o mantengono o rafforzano, la vita democratica.

  • Mala tempora currunt et peiora parantur

    Al Festival di Sanremo, evento ormai da tempo diventato internazionale e visto anche da adolescenti, due personaggi hanno mimato, in prima fila, un atto sessuale anale, poi si sono baciati lingua in bocca. Si è poi saputo che non si è trattato di deprecabili improvvisazioni ma di gesti programmati, per fare notizia tutto è consentito.
    Ormai basta andare in certi comuni e si può cambiare sesso sulla carta d identità, femminile, maschile, liquido, neutro, chi ha più fantasia si faccia avanti.
    Si è festeggiato come un grande evento la comunicazione di un noto calciatore della sua omosessualità, cosa c’è di nuovo? L’hanno già fatto in tantissimi in ogni categoria sportiva, dello spettacolo e della società, stupisce l’enfasi decisamente inutile se non per ragioni di proselitismo, pratica che non ha nulla a che vedere con l’individuale diritto alla libertà di scelta. Anche le sette fanno proselitismo, vogliamo che la differenza sessuale dia spazio a nuove sette, nuove lobby? Ma di fatto è già così.
    Decine di migliaia di adolescenti, senza avere ancora raggiunto la maturità fisica, oltre quella anagrafica, modificano irreversibilmente il proprio corpo: cambio di sesso, tatuaggi molto invasivi e spesso con sostanze pericolose, drastiche operazioni estetiche le conseguenze delle quali si fanno sentire negativamente dopo qualche anno. E molti, dopo qualche anno, vogliono tornare al sesso precedente.
    Nessuno è più contento di come è, non si tratta di aggiustare qualche  difetto fisico o di migliorare un po’ il proprio aspetto, il problema è che nessuno vuole più essere se stesso, bisogna diventare qualcun altro, usare il proprio corpo per modellare un’altra persona.
    In alcuni Stati americani ed europei è consentita, ed è anche di moda, la sepoltura green, sembra che consista nel congelare il corpo del defunto per poi sminuzzarlo in pezzetti e buttarlo sotto un po’ di terra e di foglie, così diventa concime naturale.
    La violenza, specie adolescenziale, è in continuo aumento alimentata dalla rete, dalla confusione tra il virtuale ed il reale, dall’insoddisfazione crescente, dall’incapacità di autorevolezza, di esempio positivo di scuola, famiglia, istituzioni, mass media.
    Il covid non ha insegnato nulla e neppure la ferocia della guerra in Ucraina, la tragedia del terremoto in Turchia e Siria, il sempre più evidente pericolo di un conflitto allargato e di una siccità che sta mietendo migliaia di vittime in Africa procurando una imminente escalation dell’immigrazione.
    Più i pericoli aumentano, più sarebbe necessario ritrovare un senso alla nostra vita, individuale e collettiva, e più ci si rifugia nella ricerca di una diversità spesso costruita a tavolino, ricercata come fonte di una pace interiore che non può esserci quando tutto diventa esteriorità ed il pensiero, l’introspezione, la conoscenza dei problemi, l’empatia verso gli altri, la consapevolezza di se sono banditi.
    Mala tempora currunt et peiora parantur

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