studio

  • Spazio europeo dell’istruzione: prosegue il riconoscimento reciproco dei diplomi da parte degli Stati membri

    La Commissione ha presentato una relazione che valuta i progressi compiuti dagli Stati membri nel riconoscimento automatico e reciproco dei titoli dell’istruzione superiore e dell’istruzione e formazione secondaria superiore e dei risultati dei periodi di studio all’estero.

    La relazione fa seguito alla raccomandazione del Consiglio sulla promozione del riconoscimento reciproco automatico dei titoli dell’istruzione superiore e dell’istruzione e della formazione secondaria superiore e dei risultati dei periodi di studio all’estero, adottata nel novembre 2018. Dalla relazione emerge la necessità di maggiori sforzi per attuare pienamente la raccomandazione del Consiglio entro il 2025.

    Un codice a colori indica le misure che gli Stati membri hanno già attuato e quelle che devono ancora essere prese per garantire le condizioni quadro e la trasparenza necessari all’interno dei sistemi di istruzione.

    La piena attuazione da parte di tutti gli Stati membri dell’UE costituirebbe un elemento essenziale dello spazio europeo dell’istruzione, in quanto faciliterebbe la mobilità dei discenti in tutta l’UE. Ad esempio, uno studente con una laurea di primo livello che dà accesso a un master in uno Stato membro dovrebbe essere ammissibile a un master in tutti gli altri Stati membri.

  • La Commissione europea pubblica un invito a manifestare interesse per il programma di borse di studio sulla Cina

    La Commissione europea ha pubblicato un invito a manifestare interesse per il programma di borse di studio sulla Cina, con l’obiettivo di attingere alle ampie conoscenze disponibili all’interno e al di fuori dell’Europa e ampliare ulteriormente la sua base di conoscenze sul Paese asiatico.

    Il programma raccoglierà accademici provenienti da gruppi di riflessione e università di livello mondiale, il cui compito principale sarà di fornire consulenza orientata alle politiche in uno dei seguenti settori: 1. politica, geopolitica, sicurezza e/o storia; 2. scienze umane e/o sociali, 3. economia e/o finanza; 4. digitale e/o innovazione; 5. ambiente, clima e/o scienze della vita.

    I candidati possono partecipare al programma in uno di questi settori facendo domanda online e seguendo le istruzioni sulla piattaforma EU CV online. Il numero massimo di beneficiari che possono ricevere simultaneamente una borsa dalla Commissione è limitato a 15. I borsisti saranno assunti, per un periodo che va dai 6 ai 12 mesi, come personale statutario della Commissione europea, con i relativi diritti e obblighi.

  • La lingua inglese sta colonizzando il sapere e la cultura?

    Chi non parla inglese può scordarsi di trovare un lavoro, perché la lingua di Shakespeare è data per scontata anche in un Paese in cui non è poi così diffusa come l’Italia, dove i bambini incominciano la studiarla dai 6 anni ma dove il programma Intercultura, che consente agli adolescenti di trascorrere un anno all’estero imparando anche la lingua e la cultura del luogo, continua  a non prevederla come un requisito, nonostante sia richiesta per gli studenti che vogliano recarsi nei Paesi anglofoni. E se all’università, Erasmus ha contribuito a espandere l’uso dell’inglese per favorire gli scambi internazionali, molti atenei in Paesi non anglofoni hanno introdotto corsi in inglese.

    A dispetto della sua importanza, l’insegnamento dell’inglese anziché essere sollecitato continua a suscitare resistenze. Se in Olanda è lingua ufficiale insieme a quella originale del posto, nel Belpaese Claudio Marazzini, storico della lingua italiana e presidente dell’Accademia della Crusca, osserva che «La convivenza fra due lingue implica un equilibrio da perseguire con attenzione» e ammonisce che «l’inglese non deve diventare l’assassino dell’italiano» ricordando che ogni due settimane sparisce una delle circa 6800 lingue del pianeta. A difesa della biodiversità linguistica, peraltro, prende posizione anche Patricia Ryan, docente di inglese nei Paesi del Golfo per oltre 30 anni: «Se si usa un’unica lingua, il pensiero si può bloccare su una questione che diventa superabile, magari, ragionando in un idioma differente».

    La spinta a privilegiare l’inglese ha portato il Politecnico di Milano al centro di una lunga diatriba. Nel 2012 l’ateneo decide che i corsi per le lauree magistrali e i dottorati per ingegneri e architetti devono svolgersi solo in inglese. Ne deriva una battaglia legale a colpi alterni, in cui sono coinvolti Tar, Corte Costituzionale e Consiglio di Stato, che nel 2017 ha riconosciuto la libertà d’insegnamento in inglese, purché affiancato da un numero adeguato di corsi in italiano, il cui numero resta a discrezione dell’ateneo. Attualmente al Politecnico i corsi di dottorato sono tutti in inglese, mentre dei 48 corsi della magistrale 35 sono solo in inglese, 4 solo in italiano e 9 in entrambe le lingue. Marazzini rimane critico: «La nostra classe dirigente non ha capito come dovrebbe essere il rapporto fra italiano e inglese, che dovrebbe affiancare e non sostituire la nostra lingua. Eppure, il bando ministeriale per il Fondo Italiano per la Scienza (del 2021, ndr) chiede di presentare le domande solo in inglese, e a eventuali colloqui è bandito l’italiano. Capirei in presenza di commissari stranieri, ma altrimenti perché non usare la nostra lingua?».

    Lo stesso scenario si ripete nel mondo delle pubblicazioni degli studiosi. «L’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) considera superiori quelle in inglese, senza tenere conto che in materie come la letteratura o la filosofia è una forzatura».

  • Il Censis stima due milioni di Neet in Italia e ne individua al Sud quasi 1 su 3

    “Il fenomeno della dispersione scolastica dei 18-24enni riguarda in Italia in media il 12,7% di loro, percentuale che al Sud sale al 16,6%con un distacco di 7 punti dalla media europea del 9%”.

    Allarmano il mondo della scuola i dati forniti oggi dal direttore del Censis, Massimiliano Valerii, nell’ambito del convegno annuale dell’Associazione nazionale presidi, una intensa giornata di talk, workshop e tavole rotonde che ha acceso i riflettori su tutte le criticità del panorama scolastico.

    Non confortanti sono anche i dati sui Neet, gli under 30 che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in un percorso di formazione  su cui lo stesso ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, è al lavoro per avanzare una proposta. “La media europea – ha spiegato sempre Valerii – è del 13,1%, in Italia del 23,1%, cioè riguarda due milioni di persone. Al Sud il dato è ancora più drammatico salendo al 32,2%, 19 punti in più della media europea”.

    La dispersione scolastica si riaffaccia dunque con tutta la sua drammaticità in una scuola, ha ribadito oggi il ministro, che vuole rimettere al centro i principi di merito, autorevolezza, rispetto e tornare ad essere “ascensore sociale”. Con un chiarimento da parte del titolare del dicastero sull’idea di sanzioni contro gli studenti violenti che prevedano il ricorso ai lavori socialmente utili: “Se sospendo per un anno un ragazzo – ha spiegato davanti all’assemblea di dirigenti scolastici – non faccio il bene del ragazzo e della società, quel ragazzo magari diventerà persino un deviante e quindi accentuerà le sue propensioni devianti verso altre derive che possono essere socialmente pericolose mentre invece molto meglio sarebbe coinvolgerlo in lavori socialmente utili.  Dobbiamo insegnare ai ragazzi a maturare e a crescere”.

    La dispersione scolastica in Italia è figlia in gran parte dell’indigenza delle famiglie, dal momento che un milione e 400mila giovani vivono in condizioni di povertà assoluta. Ma trae la sua origine anche dai fattori che determinano le disuguaglianze educative, rimuovere i quali è l’obiettivo dei Patti Educativi Territoriali, accordi tra istituzioni scolastiche, Enti Locali e associazioni del Terzo Settore, che coinvolgono intere comunità locali in progetti di crescita e di sviluppo per il rilancio di territori marginali.

  • Il Covid aumenta i Neet, 34% tra i 25-29enni e soprattutto tra le donne

    Istruzione e conoscenza aumentano, c’è un progresso nel bagaglio di competenze ma il ritmo è lento e l’Italia non riesce a portarsi ai livelli dei Paesi più moderni. In 20 anni – come spiega il report dell’Ocse ‘Education at a Glance – Uno sguardo sull’istruzione’ – il livello è aumentato più lentamente rispetto alla media dei Paesi dell’Organizzazione.

    Tra il 2000 e il 2021, la percentuale di giovani tra i 25 e i 34 anni con un’istruzione accademica è cresciuta in media di 21 punti percentuali, in Italia di 18, dal 10% nel 2000 al 28% nel 2021. L’Italia resta inoltre uno dei 12 Paesi in cui la laurea non è il titolo di studio più diffuso tra i gli under 34. Il Covid, poi, ha avuto un impatto pesante sulla formazione: è aumentata la quota dei Neet, i giovani adulti che non hanno un lavoro né studiano. Nella fascia 25 e 29 anni era al 31,7% nel 2020 e ha continuato ad aumentare fino al 34,6% del 2021, più giovani donne (il 39%) che uomini.

    Il ritardo dell’Italia viene da lontano: la quota di persone tra i 25 e i 64 anni è del 20%, meno della metà della media dei Paesi dell’Ocse. Eppure studiare conviene: “Il livello di istruzione – sottolinea il rapporto, che fotografa il grado di salute della scuola e dell’università in 38 Paesi membri dell’Ocse e in alcuni Paesi partner –  influisce non solo sulle prospettive di occupazione, ma anche sui livelli salariali”. I laureati in media guadagno il doppio di quelli che non hanno un titoli di studio, in Italia poco meno, il 76% in più. Un discorso che sembra non valere tanto proprio per chi lavora nel mondo della scuola, perché le retribuzioni dei docenti si confermano più basse degli altri laureati (circa il 27% in meno in Italia, e un dato simile anche considerano il valore medio).

    Non è solo e non è tanto una questione di spesa, perché se è vero che investiamo il 3,8% del Pil – oltre un punto in meno rispetto alla media dei Paesi (4,9%) – in numeri assoluti per studente la spesa è pienamente nella media. L’importo totale del finanziamento per studente da 6 a 15 anni è 105.754 dollari, la media di 105.502. E’ ampio, invece, il divario nella spesa per l’istruzione universitaria, in Italia di 12.177 dollari, contro 17.559.

    I dati “sono lo scenario che ci siamo trovati di fronte quando è iniziata l’esperienza di governo, che va vista nella sua interezza, compreso il fatto che è stata troncata”, ha detto il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, che rivendica la riforma degli Its e la scelta di aver investito per l’infanzia 4,9 miliardi del Pnrr, ma si congeda con il rammarico di non aver potuto lavorare sulle scuole medie: “Non ci sono arrivato, avevo bisogno di 6 mesi”. “Sarebbe necessario – ha sottolineato Andrea Govosto, direttore della Fondazione Agnelli – ripensare cosa si insegna e come. E c’è l’esigenza di attrarre i migliori laureati”. Secondo Save the Children, che ha ospitato la presentazione del report, “l’analisi individua nodi critici che devono essere messi al centro dell’agenda del nuovo Parlamento e governo”.

  • Studiare la Storia per evitare errori ed orrori

    Gli insegnanti protestano in piazza, una recente ricerca denuncia che il 51% dei quindicenni non è in grado di comprendere un testo scritto, bullismo, violenza ed ignoranza avanzano di pari passo e stiamo sempre aspettando, illusi, che ci sia una riforma della scuola che sia formativa per i giovani per il loro domani.

    Una scuola formativa nel senso che oltre ad informare deve educare e cioè spiegare come si utilizzano le nozioni che si apprendano, come si fa a far lavorare il cervello per imparare a ragionare con la propria testa rispettando gli altri.

    Una scuola che spieghi e che rimetta al centro dei suoi programmi lo studio della Storia perché, come scriveva lo studioso francese Marc Bloch ucciso dai nazisti nel 1944,”L’oggetto della storia sono gli uomini“ e perciò se non si studia la Storia non si comprendono gli uomini, le loro azioni, le conseguenze dei loro pensieri di potere.

    Vico parlava dei corsi e ricorsi storici e mai come in questo momento, osservando le nefaste e criminali azioni dell’esercito russo sotto la guida di Putin, compendiamo come la Storia resti strumento necessario, imprescindibile, per comprendere motivazioni e decisioni che periodicamente sconvolgono gran parte del mondo.

    La Storia strumento per analizzare e in certi casi per prevenire il ripetersi di errori ed orrori.

    La storia per comprendere gli abissi di crudeltà, la potenza delle passioni, la cecità di fronte alle ragioni dell’altro, l’ambiguità di tante parole e promesse, la forza del desiderio di potere, dovrebbe essere una delle materie più studiate a scuola ed essere riconosciuta strumento indispensabile per potere poi ragionare di geopolitica.

    Ma non è così purtroppo e le conseguenze si vedono nella povertà di ragionamento anche di tanta parte della classe politica e dei media e nella incolpevole superficialità di quei giovani che non capiscono, non si informano o al massimo si rivolgono velocemente alla Rete.

    Come sosteneva Lucio Villari l‘opinione ha sostituito l’analisi scientifica ed io aggiungo che l’opinione individuale tenta sempre di più di soppiantare la realtà.

    Quello che è certo è che la Storia è ridotta a una sine cura, una sola ora di insegnamento negli istituti professionali mentre nelle università si è perso ben il 30% delle cattedre di Storia.

    Non abbiamo molta fiducia ma ci resta il dono della caparbietà e della speranza per questo continuiamo a sperare che il governo Draghi riporti nella scuola, insieme ai tanti cambiamenti necessari, lo studio della Storia.

  • La Rete non può sostituirsi alla scuola

    Nell’ultimo concorso di selezione per posti di magistrato ordinario la commissione ha giudicato idonei solo 220 elaborati su 3797 e alcuni membri della stessa commissione hanno parlato di elaborati neppure valutabili perché privi dei requisiti minimi.

    Lingua italiana primitiva, nessuna logica argomentativa, errori concettuali ed errori di diritto e un altissimo numero di refusi hanno fatto scartare la maggior parte dei testi scritti, sono risultati  idonei solo il 5,7% degli elaborati con il risultato che all’orale si presenteranno meno candidati dei posti disponibili.

    Questa notizia, unita a quella di pochi giorni fa che sottolineava come il 51% dei quindicenni non sia in grado di comprendere completamente un testo scritto, deve indurre tutti ad una seria riflessione e a conseguenti immediate decisioni da prendere sulla scuola e sull’Università ma anche a ragionare sulle conseguenze di un uso eccessivo della rete che porta troppi all’incapacità di ragionamento. Non si leggono libri, non si leggono giornali, non si discute e non ci si confronta né in famiglia né a scuola.

    Il linguaggio è sempre più povero, le immagini sostituiscono le parole ed i contenuti, l’improvvisazione ed il pressappochismo si sono sostituiti allo studio ed all’analisi, la mancanza di concetti va di pari passo con la perdita delle più elementari nozioni di sintassi e di grammatica.

    Le conseguenze sono gravi perché anche la democrazia, la libertà di parola, la certezza della giustizia, la convivenza civile si basano su una maggior cultura e non, come sta succedendo, con una costante e pericolosa regressione culturale ed incapacità di ragionamento.

    Se una persona non è in grado di esprimersi in modo compiuto, di decodificare correttamente i messaggi, palesi o surrettizi, che arrivano da tutte le parti, false notizie comprese, questa persona non è più libera e se non è libera non sarà in grado di difendere se stessa, di comprendere gli altri, di vivere dando il suo contributo al rafforzamento della democrazia, unico strumento per mantenere la pace e raggiungere un autentico equilibrio nella società.

    L’ignoranza non è mai una scusa e diventa una colpa sopratutto di chi consente che intere generazioni siano state e siano di fatto escluse, emarginate o comunque più deboli per colpa di sistemi scolastici inefficienti e perché si è in gran parte lasciato ai sistemi informatici l’educazione culturale e sociale.

  • I ministri del G20 adottano una dichiarazione per mettere la ricerca, l’istruzione superiore e la digitalizzazione al servizio della lotta contro il coronavirus

    I ministri della ricerca e dell’istruzione superiore presenti alla prima riunione del G20 sulla ricerca e l’istruzione hanno adottato la “Dichiarazione dei ministri del G20 sulla mobilitazione della ricerca, dell’istruzione superiore e della digitalizzazione a favore di una ripresa sostenibile, resiliente e inclusiva”. La dichiarazione è incentrata su tre pilastri: 1. far fronte alla natura mutevole delle competenze; 2. principi e valori etici della ricerca e dell’istruzione superiore; 3. verso una comprensione comune degli spazi digitali.

    La Commissaria per l’Innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e i giovani Mariya Gabriel, che ha partecipato virtualmente alla riunione, ha commentato: “Questo processo permetterà di sfruttare al meglio tutto il potenziale della digitalizzazione nell’istruzione superiore e nella ricerca. È nostra intenzione sviluppare una forza lavoro digitale qualificata e un ecosistema connesso di infrastrutture di ricerca digitale basato su principi scientifici aperti e valori etici condivisi.”

    La dichiarazione è in linea con i lavori dell’UE diretti a realizzare e rafforzare lo Spazio europeo della ricerca e lo Spazio europeo dell’istruzione, ad attuare il nuovo  piano d’azione per l’istruzione digitale e a sfruttare il potenziale di ricerca e innovazione degli istituti di istruzione superiore in Europa.

    Fonte: Commissione europea

  • African universities face greatest-ever challenge to educate future digital revolution leaders

    Sub-Saharan Africa has the lowest rates of access to quality education in the world. A recent UNESCO report shows that well over half of teens aged 15 to 17 are out of school, without the possibility of resuming school.  Access to education is a prerequisite enabler in achieving the United Nation’s Sustainable Development Goal 4 by “ensuring inclusive and equitable quality education and promoting lifelong learning”, but, unfortunately, the continent is projected to fall short of its education commitments for 2030.

    As governments commit available, but meagre, resources to combat the raging coronavirus pandemic and to bolster their dwindling economies, analysts fear that education will miss out on the priority list despite its critical relevance to the development of Sub-Sahara Africa.

    While primary education remains a most pressing matter in terms of international development initiatives, the Sub-Saharan university system has peculiarly escaped the attention of policymakers. Keeping African youth invested in the continent’s, in spite of its high levels of brain drain, is an emerging concern.

    “If we don’t look after them, if we don’t equip them, if we don’t give them the propers skills and prepare them, then they’re not going to be useful in the labor market”, Cynthia Samuel-Olonjuwon, the International Labour Organisation Regional Director for Africa, told African leaders.

    Angolan entrepreneur, Mirco Martins, warns that the continent risks the consequences of creating a lost generation if Africa’s youthful population does not acquire relevant education and skills. In what he called a “double-edged dynamic” of African demographics, Martins observes that whereas Africa boasts of a population growing younger by the day compared to the global North, its immensely untapped human resources will likely waste away, instead of benefiting it.

    Martins advises that African leaders should expand access to higher education on key enabling technologies to underpin the youthful Sub-Saharan workforce as the backbone of the region’s digital revolution.

    Writing in the Africa Report, Kenyan-born Dr. Lydiah Kemunto Bosire contests the argument that brain drain is a factor in the diminishing returns of Africa’s education system. She argues that more sophisticated analyses are needed to understand migratory flows in and out of the continent. Instead, she opines, African leaders “should be alarmed about our low capacity to compete in a context where talent is global.”

    University World News’ Chang Da Wan points to the African continent’s universities as the problem. Graduates in the global South “are trained for jobs in a more advanced economy, but may not have the knowledge, skills and capability to contribute meaningfully to the society to which they belong,” he writes.

    The technology magazine Interesting Engineering notes that by 2050, growing access to the internet; improvements in technology; distributed living and learning; and a new emphasis on problem-solving will have changed the nature and trajectory of education in the global South.  Africa’s growing digitization may accelerate the quicker upskilling and access to higher education.

    Digitization of education in Africa is corroborated by a recent report suggesting that South Africa leads globally in learning practical STEM trades via smartphones. “We’re seeing more people learning online, especially women, who have since embraced what has historically been seen as male-oriented disciplines,” Anthony Tattersal, vice-president of Coursera EMEA, who published the study, told ItWeb.

    A number of initiatives are underway to ensure the most marginalised are not left out of the digital revolution. For instance, the University of Pretoria’s Future Africa partnership with Nepoworx is training students on green skills and enabling undertake enterprise development, and sustainability research. The program seeks to upskill 900 youth, women and entrepreneurs over the next three years to enable them to participate in the green economy.

    Undoubtedly, advancing practical skills in engineering, science, and technology is essential in closing in on unemployment, inequality, and infrastructural gaps. With foreign direct investment targeting SDGs, private sector financing for higher education, both locally and abroad, could come in handy. Such investment in human capital is a sure way to supply the human resources that are necessary to shake up the whole of Africa with innovative and new ways of thinking.

  • La sanità sconta 14mila cervelli via in 10 anni e chiede investimenti nella ricerca

    La ricerca clinica in Italia langue. Da un lato, infatti, il finanziamento pubblico alle sperimentazioni indipendenti mirate allo sviluppo di nuove cure ancora insufficiente, dall’altro le regole attuali ostacolano gli scienziati e vanno velocizzate le procedure autorizzative e le approvazioni dei Comitati Etici. Senza contare ‘l’emigrazione’ dei cervelli verso l’estero, con una perdita di circa 14mila ricercatori dal 2008 ad oggi. Per questo – come da richiesta avanzata in una conferenza stampa dai principali gruppi di esperti che si occupano di sperimentazioni nel nostro Paese, cioè ACC (Alleanza Contro il Cancro), FADOI (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti), FICOG (Federation of Italian Cooperative Oncology Groups), Fondazione GIMEMA (per la promozione e lo sviluppo della ricerca scientifica sulle malattie ematologiche) e GIDM (Gruppo Italiano Data Manager) –  è necessario che finanziamenti dai 20 miliardi del Recovery Plan indirizzati alla sanità siano riservati proprio alla ricerca clinica indipendente.

    Servono, innanzitutto, più fondi. Nel 2018, rilevano le associazioni, solo 24 milioni 163mila euro sono stati erogati dal Ministero della Salute per sostenere le sperimentazioni non sponsorizzate dall’industria. Un abisso separa questa cifra dagli 806 milioni di dollari erogati negli Stati Uniti nel 2017 solo per gli studi sul cancro. Ma non solo. I gruppi di ricerca hanno anche inviato alle Istituzioni un documento in cui vengono delineati i tre capisaldi per il rilancio della ricerca clinica: semplificare e velocizzare le procedure autorizzative, stabilizzare contrattualmente il personale di supporto, potenziare le infrastrutture digitali per garantire un salto di qualità degli studi. E’ inoltre necessario, affermano, istituire al più presto un tavolo tecnico istituzionale.

    “Nel 2019, in Italia, sono state autorizzate 672 sperimentazioni, 516 profit e 156 no profit. E quasi il 40% ha riguardato l’oncologia – afferma Carmine Pinto, Presidente FICOG -. Le difficoltà a cui va incontro la ricerca non sponsorizzata dall’industria sono sintetizzate nella diminuzione del 4,1% del numero di studi indipendenti dal 2018 (27,3% del totale) al 2019 (23,2%). La parola d’ordine deve essere innanzitutto semplificazione poiché è eccessivo il peso della documentazione richiesta e richiede troppo tempo la necessità di ottenere l’autorizzazione di tutti i Comitati Etici ai quali afferiscono i centri coinvolti”. Altra criticità è quella del personale addetto in ricerca e sviluppo, che in Italia è intorno a 9 per 1000 unità di forza lavoro, rispetto a 15 per 1000 della Germania e a una media dell’Ue di circa il 12 per mille. E il nostro Paese è fanalino di coda fra i Paesi OCSE anche per numero di ricercatori occupati e figure specifiche necessarie. “Assistiamo – rileva Marco Vignetti, presidente Fondazione GIMEMA – a una estrema difficoltà ad ottenere una continuità di prestazioni lavorative e ad una costante migrazione di personale esperto verso aziende farmaceutiche, con la creazione di un preoccupante gap che rischia di compromettere la qualità della ricerca, soprattutto quella accademica”. In generale, in Italia la spesa in ricerca è pari all’1,2% del Pil, mentre la media dei Paesi Ue raggiunge il 2%, con la Germania quasi al 3%. Tuttavia il nostro Paese si distingue nel contesto europeo proprio per la qualità della ricerca. “Pur avendo poche risorse, gli studi condotti in Italia hanno cambiato la pratica clinica a livello internazionale ad esempio in diversi tumori, portando alla modifica di linee guida e raccomandazioni. E i lavori scientifici italiani in ambito oncologico – conclude Ruggero De Maria, Presidente ACC – sono tra i più citati al mondo, subito dopo quelli del Regno Unito”.

Pulsante per tornare all'inizio