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Anche l’ambiente tra le vittime di Putin in Ucraina

Anche l’ambiente è tra le vittime di Putin in Ucraina, come riferisce un reportage del Corriere della Sera.

Nella foresta rossa, uno dei luoghi più contaminati in seguito all’incidente di Chernobyl nel 1986, ci sono ancora i segni delle trincee scavate disperdendo terreno radioattivo dopo l’attacco russo all’Ucraina. L’imponente sarcofago del reattore numero quattro, più alto della Statua della Libertà, ha ancora un gigantesco buco di quindici metri quadrati causato dall’esplosione di un drone russo. «Il sogno del ritorno della natura a Chernobyl si sta infrangendo con la realtà della guerra» dice Oleksandr Muzychenko, direttore della riserva istituita poco prima della guerra per proteggere l’incredibile rinaturalizzazione che stava prendendo piede nel territorio abbandonato intorno alla centrale. «Ma è l’ambiente di tutta l’Ucraina a subirne le conseguenze in realtà».

In Ucraina il territorio è di grande valore naturalistico ma reso fragile da anni di inquinamento e dalla pesante eredità sovietica, ed è sotto attacco costante dall’inizio dell’invasione. I campi sono stati e vengono tuttora minati perché l’agricoltura ucraina fallisca. Centrali elettriche e sistemi di depurazione delle acque sono tra i bersagli più frequenti dei bombardamenti russi per costringere la popolazione ucraina alla resa, e così le industrie chimiche e petrolchimiche diventate bombe a orologeria per la popolazione che vive lì vicino. Migliaia di ettari di foreste vengono bruciati nei bombardamenti certe volte per facilitare i movimenti di truppe, la maggior parte delle volte solo per creare una distrazione. Il panorama nel parco naturale di Sviati Hory lascia in effetti senza fiato: chilometri e chilometri di alberi bruciati di cui rimane solo uno stelo annerito, come quello di un fiammifero. «I bombardamenti hanno distrutto oltre seimila ettari di foreste, inclusi boschi di specie ormai rarissime» dice Serhiy Pryimachuk, direttore del parco, mentre parla da una terrazza che si affaccia su tutto il territorio dello Sviati Hory. «Abbiamo provato a salvare il possibile, nonostante ci avessero distrutto i mezzi antincendio, nonostante i bombardamenti, nonostante le mine. Nonostante gli uomini persi durante i tentativi di salvataggio» dice Serhiy, indicando le macchie scure di alberi bruciati all’orizzonte

Lo Sviati Hory ha patito particolarmente perché si trova in Donbass, a una manciata di chilometri dal fronte e in mezzo a una delle zone più colpite dalla guerra: le campagne intorno sono ancora devastate da incendi causati dall’abbandono e dai bombardamenti costanti, i villaggi sono rovine. La maggior parte dei parchi e delle riserve ucraini ha però comunque patito, e il Mar Nero è forse l’area che più ha sofferto. «I danni degli sversamenti di petrolio, dei bombardamenti sono giganteschi, ma è difficile capire esattamente quanto perché non possiamo accedere a buona parte della costa» dice Ivan Rusev, il direttore del parco delle lagune di Tuzly, vicino Odessa. Nel parco sono cadute centinaia di bombe, e tuttora viene bersagliato dai droni russi. «È successa la stessa cosa con i delfini» aggiunge, mentre mostra una decina di teschi dell’animale, raccolti negli anni della guerra. L’uso di sonar militari e le mine nel Mar Nero ne hanno causato una moria senza precedenti, ma è quasi impossibile fare una stima precisa al momento. «Ne potrebbero essere morti a centinaia, forse migliaia» conclude. Nel Mar Nero si sono però anche riversati i 18 chilometri cubici di acqua della diga Kakhovka, fatta saltare in aria nel luglio 2023. E insieme all’acqua sono arrivati i pesticidi, inquinanti, mine ed esplosivi dei terreni e villaggi travolti dal piccolo tsunami che ha seguito lo svuotamento del bacino.

Quello che era uno dei laghi artificiali più grandi d’Europa è ora una pianura verde, dove è ricresciuta la vegetazione ma che è ormai inaccessibile; dal belvedere di Prymors’ke, l’ultimo villaggio ancora controllato dagli ucraini e a sette chilometri dal fronte, si sente il tonfo sordo delle bombe da 250kg sganciate dai russi sulle postazioni ucraine. Poco più in là c’è la centrale nucleare di Zaporizhzhya, la più grande in Europa, occupata dai russi dal 2022 e al centro di un pericoloso fuoco incrociato tra le due parti. Le infrastrutture energetiche sono in effetti un altro dei bersagli più comuni dei bombardamenti, parte di una campagna russa diretta a mettere in ginocchio il sistema energetico ucraino e intensificatasi soprattutto dal 2024. La distruzione delle centrali e della rete hanno ridotto a un terzo la capacità energetica ucraina rispetto a prima dell’invasione, con un impatto devastante sulla popolazione ma anche sull’ambiente, soprattutto per il rischio di sversamento di combustibile. Il petrolchimico, ma anche fabbriche di fertilizzanti e altri composti chimici sono stati infatti colpiti di frequente, e di incidenti simili se ne contano a decine: nel febbraio 2024 un drone russo ha colpito un deposito a Kharkiv, creando un fiume in piena di petrolio incendiato che ha ucciso sette persone e devastato le case e l’area intorno. Nemmeno le infrastrutture per l’acqua sono state risparmiate: il quasi mezzo milione di persone della città di Mykolaïv si lava con acqua salmastra a seguito della distruzione russa delle condotte, che hanno costretto le autorità ad approvvigionarsi dalle lagune.

Condotte e canali distrutti sono un’immagine comune anche nei dintorni di Mykolaïv e in molte altre campagne ucraine, dove l’agricoltura ha forse subito i danni peggiori della guerra. «L’Ucraina è il Paese più minato al mondo» dice Dmitro, sminatore per la cooperazione norvegese. Il suo team lavora con cani, imponenti macchine sminatrici e metal detector per liberare i campi sia dalle mine antiuomo e anticarro lasciate dai russi in ritirata a fine 2022, sia dai missili inesplosi e soprattutto le bombe a grappolo che continuano ad arrivare. Non tutti hanno questi mezzi: poco distante Olena e Oleksandr, due giovani agricoltori ucraini, provano a rendere sicuri i campi con attrezzature improvvisate, vecchi trattori e aratri dismessi. «Ci rendiamo conto che è pericoloso, ma che alternativa abbiamo?» Dice Olesksandr, seduto sullo scheletro di una mietitrebbia distrutta da una mina. «Siamo tornati dopo la liberazione, abbiamo trovato la casa e i campi distrutti. Ma non vogliamo andarcene più. Vogliamo iniziare a ricostruire». Alle sue spalle c’è la sua abitazione, il piano superiore distrutto da una cannonata di carrarmato. I fossi intorno ai campi sono zeppi di bossoli di artiglieria e brandelli di missile raccolti dagli agricoltori lì vicino.

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