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L’arredo-design italiano cerca la sua dimensione sui mercati

Le aziende italiane si trovano in un limbo: rimanere piccole realtà d’élite o trasformarsi in colossi internazionali

Il settore dell’arredamento e del design in Italia è sempre più florido. A dimostrarlo non solo i numeri sempre positivi di questi anni ma soprattutto le fiere e gli eventi, la Milano Design week su tutte, che riscuotono sempre maggior successo.

Nonostante questi dati, il settore è sempre alla ricerca della sua dimensione. La chimera che in molti stanno inseguendo è la creazione di un gruppo da un miliardo di euro di fatturato. Se ne parla da tempo, ma solo negli ultimi tre anni – tra fusioni e acquisizioni, l’interventismo dei fondi, l’ampliamento e il consolidamento di vecchie operazioni – le imprese italiane dell’arredo-design intravedono la possibilità di creare holding in grado di reggere la sfida dei mercati globali. Da Design Holding a Poltrona Frau Group, da iGuzzini a Calligaris, solo per citare i più recenti protagonisti di operazioni societarie così complesse.

Recentemente due casi, diversi tra loro, ma emblematici della vivacità del settore: iGuzzini passata sotto il controllo di Fagerhult e la padovana Saba Italia acquisita da Italian Design Brands (Idb).

Nel caso della marchigiana iGuzzini – 232 milioni di euro di ricavi, in rampa di lancio per la quotazione in Borsa, ma acquisita a sorpresa dal gruppo di Stoccolma Fagerhult, 500 milioni di euro di fatturato – nascerà un colosso dell’illuminotecnica a controllo svedese.

Un caso simile a quello di Poltrona Frau Group che, con il controllo del fondo Charme (famiglia Montezemolo), era il perno per la creazione di una holding italiana dell’arredo-design di alto livello (con i marchi Poltrona Frau, Cassina e Cappellini), sul modello di quanto creato nella moda dai francesi Lvmh e Kering. Ma nel 2014, nel pieno del processo, il gruppo è stato acquisito dall’americana Haworth, colosso mondiale del settore di mobili per l’ufficio, con un fatturato di 1,8 miliardi di dollari e molte idee di sviluppo.

Nel caso Idb-Saba Italia, invece, continua il progetto di aggregazione di brand made in Italy di alto standing: il polo nato tre anni fa e arrivato ora oltre i 100 milioni di euro di fatturato aggregato comprendeva già Gervasoni, Meridiani, Cenacchi International e Davide Groppi. Perché anche le conglomerate a controllo italiano hanno accelerato le operazioni. A settembre c’è stata la creazione di Design Holding, il nuovo soggetto partecipato dai gruppi finanziari Investindustrial (che ha già in portafogli B&B Italia, Flos e la danese Louis Poulsen) e Carlyle, che ha per obiettivo la crescita per acquisizioni internazionali e la quotazione a Piazza Affari entro tre anni (si veda l’intervista accanto).

Guarda alla Borsa anche l’azienda friulana Calligaris, 140 milioni di fatturato, che a inizio agosto ha raggiunto un accordo con il fondo Alpha per la cessione, da parte della famiglia, dell’80% delle quote dell’azienda che controlla anche Ditre Italia.

“Sono operazioni sempre più frequenti – dice Claudio Feltrin, presidente di Assarredo e dell’azienda di famiglia, la veneta Arper – motivate dalla necessità di restare competitivi in uno scenario globalizzato. Fino a dieci anni fa un’impresa con 20 milioni di euro di fatturato poteva vivere tranquillamente, ma oggi è necessario crescere e per farlo occorrono grandi risorse”. In un settore dominato dalle imprese familiari, servono professionalità manageriali che spesso possono arrivare soltanto dall’esterno. Anche per questo, osserva Feltrin, “il modello più efficace sembra quello dell’ingresso nel capitale di investitori finanziari e industriali. Vedo un crescente interesse da parte del mondo della finanza nei confronti dell’industria italiana dell’arredo – aggiunge -. Sia perché la finanza in questo momento è ricca di risorse, sia perché il nostro comparto è rimasto indietro e offre molte opportunità interessanti per i fondi e gli altri investitori”.

Se la qualità del design made in Italy è fuori discussione a livello internazionale, l’appetibilità delle aziende produttrici per gli investitori è, tuttavia, tutta da dimostrare. “La debolezza del settore – dice Antonio Catalani, professore di Management del design alla Bocconi e allo Iulm – affonda le radici in una logica vetero-familiare della struttura con poco supporto di capitale e scarsa internazionalizzazione. Il cambio generazionale ha aiutato pochi brand a rifocalizzarsi tornando sui fondamentali dell’impresa. Ma resta la difficoltà a fare massa critica e contrariamente a quello che si crede i brand davvero appetibili sono al massimo una trentina. C’è molto da fare per riorganizzare la gran parte del sistema”.

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