accordo

  • Il Parlamento inglese sospende i lavori per cinque settimane

    Come era stato annunciato, il governo inglese ha deciso di sospendere i lavori del Parlamento fino al 15 ottobre, permettendo in questo modo al premier Johnson di avere il più ampio margine di manovra sulla Brexit, senza le interferenze dei parlamentari che dall’inizio del mese erano riusciti a ribellarsi alle sue imposizioni. Prima, togliendogli la maggioranza, sia pure di un voto, poi, votando una legge contro il “no deal”. Infine, impedendogli una maggioranza di due terzi per decidere di giungere ad elezioni anticipate. A tutto ciò si è aggiunta la decisione dello Speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, di lasciare l’incarico a fine ottobre, come segno di dissenso nei confronti della politica distruttiva di Johnson. Cosa è possibile fare, dunque, in questa confusa e caotica situazione? Essendoci una legge che impedisce a Johnson di fare un “no deal” (di cui Johnson potrebbe non tenere conto) e non essendoci la maggioranza necessaria per indire nuove elezioni prima della scadenza della proroga per la Brexit, cioè il 31 ottobre, a Johnson non rimangono che due scelte: o negoziare un nuovo accordo con l’Unione europea, o chiedere l’estensione dell’art. 50 per una proroga che vada oltre la fine di ottobre. Johnson è contrario ad entrambe le ipotesi, ma essendo costretto dalla realtà a dover scegliere, egli preferirebbe la prima scelta, cioè l’apertura di un nuovo negoziato con l’UE per il raggiungimento di un accordo che superi quello stabilito con Theresa May e bocciato per ben tre volte dal Parlamento. Non a caso, ieri a Dublino in visita ufficiale, ha dichiarato inaspettatamente che la soluzione “no deal” sarebbe un fallimento. Fino al giorno prima il non accordo era uno sbocco inevitabile, una soluzione da perseguire se si voleva l’uscita dall’UE. I tre rifiuti parlamentari all’accordo raggiunto dalla May non esprimevano, forse, la volontà di una rottura netta con i legami europei? O erano soltanto un no netto al Primo ministro? I lavori del negoziato erano durati tre anni, a testimonianza dell’accuratezza con la quale entrambi i negoziatori avevano affrontato i punti dirimenti causati dall’uscita. Lo stesso punto relativo al confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda era stato affrontato nella preoccupazione di non creare una frontiera rigida. E l’accordo fu concluso proprio sull’accettazione provvisoria di una frontiera leggera, aperta, che non richiedesse il ripristino di una dogana, soluzione che fu respinta sempre dai Brexiteers. Come mai ora, a tempo quasi scaduto, si riparla di rinegoziare e si invia a Bruxelles, con il Parlamento chiuso per ferie, un interlocutore ufficioso per saggiare la possibilità di una riapertura delle trattative? E’ la forza delle cose concrete che spinge Johnson a ritornare sui propri passi, o è un barlume d’intelligenza politica che mostra in modo lampante l’eventuale fallimento del “no deal”? Comunque sia, soltanto a cose avvenute si può comprendere meglio le ragioni della May che non ha esitato a diventare il capro espiatorio di un accordo che probabilmente era il migliore che si potesse ottenere in quei frangenti, senza venir meno ai sacrosanti principi della sovranità e dell’indipendenza, nel rispetto della volontà degli inglesi espressa dai risultati del referendum del 2016.  Ora non si parla più della frontiera tra le due Irlande, ma di quella del canale che divide l’isola irlandese da quella inglese. La May non poteva sostenere questa proposta perché il partito nordirlandese Dup che le garantiva la maggioranza, non era d’accordo. Che ora si riparli della cosa dimostra che la May aveva visto bene e che il dissenso dimostratogli non poggiava su soluzioni alternative. Era un NO e basta. Riuscirà Johnson a evitare tutti gli scogli e a navigare in acque sicure per l’uscita? E’ ancora presto per dirlo, ma la dichiarazione rilasciata dal Premier a Dublino segna una svolta, non risolutiva ma almeno che tiene conto della realtà difficile e controversa della Brexit. Il vero problema – come afferma Paola Peduzzi su Il Foglio del 10 ottobre – non era la May, ma la Brexit stessa. A noi pare una verità sacrosanta.

  • Con Boris Johnson la Brexit diventa un rebus

    L’ipotesi più probabile è che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea avvenga il 31 ottobre senza nessun accordo per il dopo (no deal). Boris Johnson, il primo ministro, punta a questa soluzione, pur di mettere la parola fine alla Brexit, che da tre anni infierisce sulla politica britannica, contando le dimissioni di due primi ministri e di numerosi ministri, senza, per ora, cavare un ragno dal buco. L’accordo raggiunto infatti da Theresa May con l’UE è stato respinto tre volte dal parlamento e l’attuale governo insiste per modificarlo entro la fine d’ottobre, non si sa bene se è perché ci crede o se ne fa finta, tanto per prender tempo. Il pomo della discordia è rappresentato dal confine dell’Irlanda del Nord con la Repubblica d’Irlanda. Nell’accordo con la May, l’UE garantirebbe un confine aperto, senza dogane, in attesa di trovare una soluzione definitiva comune con il R.U. dopo la sua uscita dall’Europa. Ma è proprio su questo tema che si sono scatenati i fautori della Brexit. Nessun legame, sia pure provvisorio, con l’Unione doganale europea. L’uscita deve essere netta, senza addentellati, sia pure provvisori, con le strutture dell’UE. L’atteggiamento di rifiuto del Primo ministro Johnson e la sua richiesta di un nuovo accordo sembrano provocatori. Come è possibile in due o tre settimane raggiungere un risultato che non è stato possibile raggiungere in tre anni di negoziati? Non a caso l’opposizione chiede una nuova proroga fino al gennaio dell’anno prossimo. Ma Johnson è irremovibile. Non solo ne ha fatto un’altra delle sue, chiudendo il Parlamento per cinque settimane, in modo da impedire dibattiti che potrebbero, forse, modificare la situazione; non solo ha perso la maggioranza, per un voto, sulla quale si reggeva il suo governo; non solo ha dovuto subire una legge che vieta un’uscita “no deal” dell’UE¸ non solo ha subito le dimissioni del ministro del Lavoro, Amber Rudd, una Tory moderata, che non condivideva le sue posizioni radicali, ma ha rimpiazzato seduta stante la dimissionaria e minaccia inutilmente elezioni anticipate da effettuarsi in ottobre, prima dell’uscita preventivata. Diciamo inutilmente perché i due terzi dei voti necessari per giungere alle elezioni Johnson se li sogna. Non esiste questa maggioranza in Parlamento e la minaccia fa parte di un inutile ricatto teso a confermare che in caso di elezioni lui ne uscirebbe vittorioso. È di ieri, infatti, il risultato di un sondaggio promosso dall’istituto YouGov che dà ai Conservatori il 35%  dei voti, con 14 punti di scarto sul Labour di Corbyn, indicato in calo al 21%, con i LibDem al 19% e il Brexit Party di Farage al 12%. Nessuna elezione in vista, quindi, e corsa verso l’uscita senza accordo. Il “no deal”, tanto temuto dal mondo economico e finanziario, potrebbe diventare realtà e rappresentare la scelta definitiva di Johnson per realizzare la Brexit. Le conseguenze di un’uscita senza accordo coinvolgerebbero anche i Paesi dell’UE con i quali il Regno Unito ha intensi rapporti commerciali, ma è indubbio che le conseguenze peggiori le subirebbe la Gran Bretagna, nonostante le offerte del presidente americano Trump per accordi commerciali privilegiati tra Usa e RU. La situazione è ingarbugliata, non c’è dubbio, e la politica del Primo ministro Johnson non tende a sbrogliarla, anzi! I britannici devono ringraziare i 92 mila iscritti al partito conservatore, responsabili della sua nomina in sostituzione di Theresa May, 92 mila contro 66 milioni di britannici. 92 mila che rappresentano il popolo sovrano. E’ certo comunque che questo tipo di sovranità lascia molto a desiderare e le conseguenze della sua scelta sono subite da una stragrande maggioranza di cittadini. E’ una sovranità che, mutatis mutandi, assomiglia un po’ a quella recentemente espressasi in Italia, con 79 mila cittadini “grillini” che hanno dato il via libera, tramite un voto elettronico, al governo Pd/M5s (79mila contro 60 milioni di cittadini italiani). Le rassomiglianze non finiscono qui. L’Italia ha scelto come prima forza politica un movimento fondato da un teatrante comico. Il Regno Unito ha scelto come Primo ministro un personaggio considerato da molti un guitto, un clown, capace di decisioni spassose e bizzarre. Dipenderà anche da questo se la situazione politica nei due Paesi si trova in uno stato confusionale?

  • Se minaccia l’Accordo del Venerdì Santo il Congresso USA non ratificherà l’accordo commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito. Parola del senatore dem Chris Murphy

    Mentre il Presidente statunitense Donald Trump dichiara di non vedere l’ora di negoziare un “accordo commerciale su larga scala” con il Regno Unito il Senatore democratico Chris Murphy del Connecticut precisa, con toni forti, che un simile patto non passerà mai attraverso il Congresso se dovesse violare l’Accordo del Venerdì Santo che pose fine al conflitto decennale tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda. Di fatto, annullando quel trattato di pace, potrebbe essere reintrodotto il confine tra le due parti dell’isola, di cui una completamente legata al Regno Unito. “Penso che l’UE sia altrettanto impegnata come la Gran Bretagna a garantire che ci sia un flusso libero di persone e merci. C’è ancora questo conflitto esistenziale tra ciò che il referendum ha richiesto e ciò che è necessario per mantenere l’Accordo del Venerdì Santo di Belfast”, commenta Murphy, che aggiunge: “Trump in definitiva non controlla se il Congresso approva o meno un accordo commerciale negoziato con la Gran Bretagna. Ci sono abbastanza amici dell’Irlanda del Nord e amici d’Irlanda nel Congresso degli Stati Uniti che ci porteranno a chiedere che il processo di pace sia protetto”. Secondo Murphy se le possibilità di accordo commerciale sono poche, malgrado le parole del Presidente, diventerebbero nulle nel caso fosse reintrodotto il confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord.

    Intanto da Bruxelles fanno sapere che l’Unione europea non accetterà alcun accordo di ritiro del Regno Unito che non garantisca che il confine di 500 km rimanga aperto.

  • Italia-Cina: un errore accettare negoziazioni bilaterali senza l’Europa, già la Germania se ne pentì

    Il nostro Governo sembra non aver data alcuna importanza alla valenza strategica (che io giudico pericolosa anche per l’Italia) del progetto cinese One Belt, One Road (da noi conosciuta come Nuova via della Seta) e, infischiandosene degli appelli provenienti dai nostri alleati americani e soprattutto da Bruxelles, ha firmato in pompa magna un pre-accordo con Pechino. Supponendo (e non abbiamo ragione di dubitarne) la buona fede dei nostri governanti, dobbiamo immaginare che abbiano sperato in chissà quali enormi contropartite commerciali che Pechino ci accorderebbe.

    In effetti, la nostra bilancia commerciale con la Cina è fortemente sfavorevole per noi: se guardiamo alle cifre del nostro export e le confrontiamo con quelle di altri paesi europei c’è anche da capire perché a Roma qualcuno ha deciso che dovevamo fare da soli e non ascoltare i richiami dell’Unione.

    Nel 2018 la Germania ha esportato in quel paese merci per ben 95 miliardi di euro, la Francia 21, la Gran Bretagna 23 e noi solo 13 miliardi (ci segue l’Olanda con 10). La quota di mercato tedesca verso la Cina costituisce il 5 per cento del totale delle loro esportazioni e per Berlino è il mercato più importante in assoluto al di fuori dell’Europa. Le merci più esportate sono quelle su cui anche noi potremmo agevolmente concorrere: l’automotive, la meccanica strumentale, l’elettrotecnica e la farmaceutica.

    Purtroppo, o per fortuna, la normale intelligenza auspicherebbe che nessun Governo agisca e prenda decisioni in base a puntigli o a rivalse, ma che, al contrario, si valutino tutti i pro e contro e si faccia tesoro delle altrui conosciute esperienze. Probabilmente, se fosse stato quest’ultimo atteggiamento ad ispirare Di Maio e compagni, ci saremmo rifiutati di incontrare i nostri interlocutori da soli e avremmo invece fatto come Macron, cioè avremmo accettato di negoziare con Pechino non in modo bilaterale ma soltanto a livello di Unione Europea. Naturalmente, lo avremmo fatto pretendendo dai partner le dovute garanzie per il rispetto del nostro ruolo di seconda potenza industriale del continente.

    La conferma che sia un errore accettare negoziazioni bilaterali viene proprio da chi ha saputo sfruttare, molto meglio di noi, le potenzialità del mercato cinese: la Germania.

    I tedeschi hanno investito in Cina cifre enormi (al 2016 erano già 76 miliardi di euro che davano lavoro in 5200 strutture a circa un milione di lavoratori) e grazie alla differenziazione delle produzioni tra i due Paesi hanno dato vita a una certa sinergia produttiva. Purtroppo per loro, col tempo si sono accorti che la differenziazione è andata riducendosi e che, anche a causa del non rispetto cinese della proprietà intellettuale (cioè dei brevetti) i cinesi stavano diventando sempre piu’ spesso concorrenti sui mercati di tutto il mondo delle stesse aziende tedesche.

    Resisi finalmente conto di quanto sta accadendo e del trend che si è innescato, la Confindustria tedesca ha elaborato all’inizio di questo anno un documento indirizzato al Governo di Berlino e alla Commissione di Bruxelles. Il testo chiede con forza che ogni trattativa con Pechino sia condotta dall’Europa soltanto in modo unitario, sia per avere un maggior potere contrattuale, sia per poter imporre condizioni che obblighino i cinesi ad attenersi alle vere regole del libero mercato.

    In particolare, l’Associazione degli industriali tedeschi esprime 54 richieste sotto un titolo molto significativo: “Partner e competitore sistemico: Come trattare con l’economia cinese controllata dallo Stato?”. Nel documento si sottolinea che, contrariamente alle generali aspettative, “la Cina non sta sviluppando un’economia di mercato, né abbraccerà il concetto di libero mercato in un futuro prevedibile”. Continua affermando che, nonostante si voglia continuare ad approfittare delle opportunità offerte da quel mercato, “nessuno dovrebbe semplicemente ignorare le sfide che la Cina pone all’Europa e alla Germania”. Si chiede esplicitamente che l’Unione introduca regole che obblighino chiunque voglia avere a che fare con il nostro mercato unico a rispettare le stesse condizioni imposte alle nostre aziende e soprattutto che si escludano quelle società che beneficiano di aiuti di Stato. Non è infatti razionale che a operatori stranieri sia concesso ciò che è proibito alle nostre aziende. I venditori di prodotti con prezzi in dumping devono essere controllati attentamente per verificare se hanno ottenuto aiuti pubblici e si deve imporre a Pechino di intervenire ogni volta che si realizzi una violazione dei brevetti internazionali.

    E’ dunque evidente anche per chi ha una posizione dominante nei commerci con la Cina che un singolo Paese non è in grado, da solo, di competere politicamente con un gigante di tal fatta e solo una dimensione economica importante come quella europea, se unita, puo’ tenervi testa. Solo così si potrà proteggere le nostre aziende produttrici e quindi il nostro mercato del lavoro.

    Forse anche i “sovranisti” di vario genere dovrebbero andare a sentire cosa pensano, non per teoremi ma in base alla loro esperienza, gli industriali tedeschi.

    *Deputato dal 1996 al 2008

  • Il terzo no liquida definitivamente l’accordo May con l’UE

    E’ la terza volta che la maggioranza della Camera dei Comuni respinge l’accordo negoziato dalla May con l’UE per l’uscito del Regno Unito dall’Europa. 344 sono stati i no e 286 i sì, più delle due volte precedenti, ma di gran lunga insufficienti per l’approvazione. Sembrano avere una simpatia particolare per il no i parlamentari britannici. Soltanto due giorni fa, in un solo giorno hanno detto no otto volte, senza mai proporre alternative. Tutte le ipotesi in ballo sono state sonoramente bocciate. Questo ultimo e definitivo no è arrivato, nonostante la premier avesse offerto le sue dimissioni se i si avessero avuto la maggioranza. Di fronte a questo ennesimo rifiuto, il leader laburista Corbyn ha reiterato la sua richiesta di dimissioni del governo, che ci sarebbero state se l’accordo sull’uscita fosse stato approvato. Ma anche il Labour ha una grande responsabilità in tutto quanto di caotico e di incomprensibile è avvenuto. Il suo continuo atteggiamento negativo, senza proporre mai alternative serie alle proposte del governo, lo rende corresponsabile della situazione attuale. Di fronte a questa situazione di stallo, resta in piedi solo un mini rinvio limitato al 12 aprile, data entro la quale il RU dovrà decidere se chiedere a Bruxelles un ulteriore allungamento della proroga, purché debitamente motivata, oppure procedere a un’uscita no deal, cioè senza accordo. L’ulteriore proroga, però implicherebbe la partecipazione britannica alle elezioni europee. Non a caso, subito dopo il voto, la May ha definito “quasi certa” la partecipazione alle elezioni di maggio, ritenendo grave la decisione negativa dei Comuni ed evocando la richiesta di un rinvio prolungato all’UE. La May inoltre ha rinfacciato alla Camera di non avere un piano alternativo maggioritario, avendo detto no all’accordo, ma anche a un no deal, a una no Brexit e a un referendum bis. Nonostante tutti questi no contradditori, la premier ha insistito sul fatto che il governo continuerà ad agire affinché la Brexit sia attuata. Il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, intanto, ha deciso di convocare un vertice UE il 10 aprile. Negli ambienti di Bruxelles si prevede uno scenario no deal a partire dalla mezzanotte del 12 aprile. Sembra la soluzione più probabile e in una nota la Commissione si rammarica del voto negativo della Camera dei Comuni. “L’UE resterà unita ed è pienamente preparata ad una hard-Brexit” si afferma nella nota di Bruxelles. La situazione è pesante e gli osservatori si chiedono, senza avere una risposta, che cosa potrebbe creare una maggioranza parlamentare. Nemmeno la proposta di Corbyn sembra raccogliere la maggioranza. La May deve andarsene indicendo subito nuove elezioni, l’accordo da lei sottoscritto va cambiato. La May deve consentire al Paese di decidere il suo futuro attraverso elezioni generali – ha dichiarato Corbyn ai Comuni. Benissimo! E la Brexit? Come si attuerà? Chi ha la formula magica da proporre? E’ l’ulteriore dimostrazione che i no alla May erano riservati alla sua leadership. La Brexit non era, non è che un pretesto per eliminarla dal potere.

  • Le tempeste della Brexit si stanno calmando

    Si è sempre in alto mare con la Brexit, ma le onde più tempestose si stanno calmando. Due elementi nuovi hanno contribuito a questo rallentamento della tempesta. Da un lato la dichiarazione formale della premier Theresa May di essere disposta ad abbandonare i suoi incarichi: leader dei Tory e capo del governo, a condizione che il suo accordo con l’UE trovi una maggioranza in Parlamento, e, dall’altro, una serie di votazioni, conseguenti alla decisione di lunedì scorso di avocare al Parlamento il potere decisionale sul processo d’uscita dall’UE. Quella decisione infatti prevede un voto prioritario sulle eventuali proposte “indicative” riguardanti soluzioni alternative alla linea May. La minaccia delle dimissioni ha spostato qualche intenzione di voto sull’accordo con l’UE. L’ex ministro degli Esteri Boris Johnson, ad esempio, ha cambiato parere, ma si è molto distanti ancora da una maggioranza, tanto più che il partito unionista nordirlandese, DUP, alleato di governo della May, è irremovibile e ha ribadito il suo no. “I primi ministri vanno e vengono – ha dichiarato – ma le questioni commerciali e costituzionali toccate dall’accordo di ritiro, restano”. Sul terzo voto da effettuare eventualmente sull’accordo May resta l’incognita dello speaker della Camera, John Bercow, che fino ad ora ha impedito il voto e che sarebbe disponibile a concederlo soltanto se vi fossero modifiche sostanziali. Da parte sua la May ritiene che già la proroga dell’uscita e i chiarimenti sulla questione del confine  dell’Irlanda del Nord ottenuti a Bruxelles durante l’ultimo Consiglio UE siano una novità da non negligere. Bercow ha confermato che sarà lui solo a decidere e l’annuncio potrebbe aver luogo la sera prima del voto, quindi questa sera. Il Parlamento ha poi bocciato, nelle votazioni di ieri, tutte e otto le alternative al piano Brexit della May, approvando soltanto una modifica della data della Brexit nella legge britannica con 441 voti a favore e 105 contrari. Si è rimossa quindi la data del 29 marzo per portarla al 22 maggio, come la May aveva concordato con i partner UE. Se tuttavia l’accordo non verrà approvato, la data è anticipata al 12 aprile. Il fatto che non sia stata trovata una maggioranza su nessuna delle opzioni presentate, significa che il Parlamento non ha ancora trovato un modo per uscire dal guado in cui si trova da tre anni. Le onde della tempesta si sono un po’ calmate, ma non è ancora possibile intravvedere l’approdo. Secondo referendum come chiedevano più di un milione di persone per le strade di Londra? No, respinto ieri. Revoca dell’art. 50 come l’hanno chiesto 5,6 milioni di firme? Nemmeno. Rimanere nell’Unione doganale e rendere soft la Brexit? Neppure. Uscire senza accordo (no deal)? Assolutamente no. Le due opzioni più votate sono state quelle a favore di un referendum bis, con 268 sì, ma 295 no; e quella favorevole all’unione doganale, con 264 sì e 272 no, la più vicina alla maggioranza. Il risultato che sembra da stallo totale, non impedirà comunque un ballottaggio lunedì primo aprile, fra le ipotesi meno sgradite. La May, combattiva come sempre, ha tagliato la testa al toro con l’offerta delle sue dimissioni ed ha commentato: “So che c’è il desiderio di un nuovo approccio e una nuova leadership nella seconda fase dei negoziati, e io non mi metterò di traverso. Ma prima dobbiamo far passare l’accordo e portare a compimento la Brexit. Sono pronta a lasciare il mio posto prima di quanto intendessi, in modo da fare ciò che è giusto per il nostro Paese. Chiedo a tutti in questa stanza di appoggiare l’accordo, così che possiamo compiere il nostro dovere storico: dar corso alla decisione del popolo britannico e lasciare l’Unione europea in maniera ordinata. Sarà testarda, questa May, ma le si deve riconoscere una grande coerenza ed uno spessore politico molto lontano dai giochetti politicanti che invece hanno usato fino ad ora, tra la maggioranza e tra l’opposizione, tutti coloro che hanno strumentalizzato la Brexit a fini di potere.

  • La Brexit è ancora in alto mare

    Nonostante la sfilata di più di un milione di persone tra le strade Londra per dire no alla Brexit, nonostante la raccolta di più di 5 milioni di firme per revocare l’art. 50 del Trattato UE che regola la data d’uscita, nonostante la richiesta di un secondo referendum, nulla per ora è cambiato nel bailamme politico che da tre anni attenta alla reputazione del Parlamento e della classe politica del Regno Unito. E’ dal 23 marzo 2016, cioè 1.007 giorni fa, che il Regno Unito si è espresso per referendum per uscire dall’Unione Europea. Ma un conto è decidere l’uscita e un conto è scegliere il modo per realizzarla. L’uscita è stata decisa, ma il modo lo stanno cercando ancora, perché quello intrapreso dalla Premier Theresa May e confermato dal suo governo, vale a dire un’intesa negoziata con l’UE che regola anche i rapporti tra le due parti, una volta effettuata l’uscita, è già stato respinto due volte dal Parlamento. L’accordo, siglato il 25 novembre scorso dal Governo di Londra e dai 27 Paesi dell’UE, è un documento diviso in due parti. La prima è formata da 585 pagine legalmente vincolanti, che stabiliscono i termini del divorzio dall’UE. La seconda parte, di 26 pagine, non legalmente vincolante, riguarda le relazioni future tra Regno Unito e UE in ambiti rilevanti, quali commercio, sicurezza, difesa. E’ previsto anche un periodo di transizione di due anni, dal 29 marzo 2019 al 31 dicembre 2020 ed è applicabile soltanto se entra in vigore questo accordo. Nell’avvicinarsi della data d’uscita stabilita nel 29 marzo prossimo, in applicazione del citato art. 50, il Parlamento ha votato una mozione per affermare che non vuole un’uscita senza accordo, un’uscita “no deal”, dopo aver votato due volte contro l’accordo negoziato dal governo. E in vicinanza del 29 marzo, per non uscire senza accordo, la May ha chiesto all’UE una deroga alla data d’uscita, ottenendo in cambio quella del 22 maggio, a condizione che entro il 12 aprile il RU indichi con chiarezza le sue scelte, le scelte del parlamento, non del governo che poi è messo in minoranza. Se così non fosse, per allungare la deroga, il RU dovrà partecipare alle elezioni europee di fine maggio, creando altri problemi sulla legalità dell’evento. Tutto si muove nei corridoi del Parlamento e nelle aule dei gruppi parlamentari, ma tutto rimane fermo. La sola novità è rappresentata dal voto di un emendamento, osteggiato dal Governo, avvenuto nella serata di lunedì 25 marzo. Con 329 voti a favore e 302 contrari si è deciso di passare al Parlamento il compito di votare prioritariamente le sue proposte “indicative” di piani alterativi alla linea May, ribaltando in questo modo l’equilibrio delle istituzioni democratiche, come la May aveva scongiurato di non fare prima del voto. Da sempre, infatti, è il Governo che decide cosa deve trattare il Parlamento, ma trenta deputati conservatori si sono ribellati e tre sottosegretari hanno dato le dimissioni per poter votare a favore dell’emendamento secondo coscienza. La May dopo il voto ha dichiarato che non intende rispettare la volontà del Parlamento anche se ci fosse una maggioranza a favore di un’opzione alternativa al suo accordo. Ha detto esplicitamente che si opporrà a qualsiasi tentativo di restare nell’Unione doganale o di indire un secondo referendum. Il voto del Parlamento di lunedì sera è indicativo e non vincolante, quindi la May può rifiutarlo, ma non può dimenticare il rischio di esacerbare le divisioni e di aggravare la crisi politica in atto. “Continuo a credere – ha insistito la May – che la strada da me tracciata è l’unica percorribile e che il percorso giusto sia lasciare la UE il prima possibile con un accordo entro il 22 maggio”. C’è da chiedersi tuttavia se, per come stanno le cose in Parlamento, c’è ancora abbastanza sostegno per ripresentare l’accordo per un terzo voto significativo. Ciascuno, per ora, rimane fermo sulle posizioni di partenza. L’impegno del governo rimane quello della difesa dell’accordo convenuto, già respinto. La May attenderà le proposte “indicative” del Parlamento, ma aggiunge che se i deputati non fossero in grado di approvare qualche strategia positiva differente dalla sua intesa, entro il 12 aprile, Bruxelles non accorderebbe una deroga più lunga, con la conseguenza di andare incontro al traumatico sbocco del “no deal”, come epilogo automatico, che la Commissione europea considera a questo punto sempre più verosimile. L’UE e gli Stati membri, infatti, hanno completato i preparativi per far fronte e ridimensionare gli effetti del contraccolpo. Tra i Conservatori nel frattempo si discute di possibili vie d’uscita con le dimissioni della May, o meglio, di un suo possibile impegno a farsi da parte fra qualche mese con una exit strategy dignitosa  e responsabile. Ma la premier si rifiuta di parlarne e risponde agli avversari dicendo che “c’è un lavoro da fare e intendo continuare a svolgerlo”. Situazione di stallo, abbiamo detto. Per quanto ancora? Riuscirà il Parlamento a fornire soluzioni “indicative” che possano sbloccare la situazione? Se fino ad ora non è riuscito a trovare una maggioranza risolutiva, ci riuscirà ora senza che nessun progetto sia stato discusso o presentato? Qualunque opinione di abbia sulla Brexit, una cosa appare certa nel caso britannico: il referendum del marzo 2016 ha avuto un indubbio potenziale disgregativo rispetto al parlamentarismo, che fino ad ora è stato incapace di trovare il modo di realizzarlo, dando un’immagine negativa della funzione legislativa e una cattiva reputazione della storica istituzione.

  • Anche in Giappone spazio per il falso made in Italy dopo l’accordo con l’UE? Coldiretti ne è convinta

    Via libera in Giappone al falso Made in Italy, dal Grana al Parmesan, dall’Amarone al Greco di Tufo fino a molte altre imitazioni dei prodotti nazionali più tipici che potranno essere liberamente prodotte e commercializzate in Giappone. E’ quanto afferma la Coldiretti nell’evidenziare gli effetti dell’entrata in vigore all’accordo di libero cambio tra Unione Europea e Giappone JEFTA che, come prevedibile, peggiora le condizioni fissate nell’’accordo di libero scambio con il Canada (Ceta).
    L’aggravante nel caso del Giappone è che non è stata neanche prevista la ratifica dei parlamenti nazionali per un accordo che – sottolinea la Coldiretti – prevede la protezione di appena 18 indicazioni geografiche italiane agroalimentari sul totale di 293 (appena il 6%) e 28 vini e alcolici sul totale delle 523 denominazioni di origine e indicazioni geografiche riconosciute in Italia (5%). Nessuna delle tipicità piacentine è inserita. La mancata protezione dei marchi storici del Made in Italy – precisa la Coldiretti – non riguarda solo le produzioni nei Paesi con i quali è stato siglato l’accordo ma anche la possibilità che sui quei mercati giungano imitazioni e falsi realizzati altrove.
    Peraltro – continua la Coldiretti – anche se per Grana padano, Pecorino Romano e Toscano, Provolone Valpadana, Mozzarella di bufala campana e Mortadella Bologna viene garantita la protezione del nome complessivo, potranno essere comunque utilizzati i singoli termini (ad es. Grana; Romano, Bologna, pecorino, mortadella, provolone, mozzarella di bufala, ecc.) e – aggiunge la Coldiretti – si potrà addirittura produrre e vendere Asiago, Fontina e Gorgonzola non italiani per i prossimi sette anni.
    Gravi criticità – prosegue la Coldiretti – presenta anche l’accordo UE–Singapore che protegge appena 26 prodotti a denominazione di origine italiana, 21 vini oltre alla grappa e prevede la possibilità di utilizzare termini contenuti in una denominazione (es. Grana), il nome di una varietà di uve utilizzate nel territorio dell’altra parte (es. Nebbiolo) e addirittura di non proteggere un’indicazione geografica dell’altra parte in presenza di un marchio “famoso, rinomato, ben conosciuto”.
    Dall’intesa con il Canada (Ceta) a quella siglata con il Giappone e Singapore fino alla trattativa in corso con i Paesi del Sudamerica (Mercosur, – conclude la Coldiretti – si assiste al moltiplicarsi di accordi di libero scambio da parte dell’Unione Europea che legittimano a livello internazionale la pirateria alimentare a danno dei prodotti Made in Italy piu’ prestigiosi.

    Da Piacenza.Coldiretti .it del 1 febbraio 2019

  • Brexit: la quadratura del cerchio non è ancora riuscita

    E’ stata secca la risposta dell’Unione europea alla richiesta di Londra di aprire nuovi negoziati per modificare l’accordo che era stato accettato in dicembre dal governo di Theresa May, ma respinto a grande maggioranza dalla Camera dei Comuni. Il punto più caldo in discussione, dopo il voto avvenuto il 29 gennaio, era il rinegoziato sul backstop, cioè sulla frontiera che dovrebbe rimanere aperta tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, con o senza l’appartenenza del Regno Unito all’unione doganale. Davanti al Parlamento europeo, tanto Juncker, presidente della Commissione, che Barnier, capo negoziatore europeo, hanno dichiarato che l’accordo Brexit non sarà rinegoziato, tanto sul punto del confine irlandese, quanto sulla proroga della data d’applicazione dell’art. 50. Tutte inutili allora le due sessioni parlamentari durante le quali parte dei conservatori e gli oppositori laburisti si sono trovati uniti il 15 gennaio nel respingere in toto l’accordo e si sono trovati disuniti nel richiedere l’apertura di nuovi negoziati il 29 gennaio. Il perché di queste contraddizioni si spiega col fatto che anziché dialogare per la riuscita della Brexit, in realtà il dibattito è stato centrato surrettiziamente sull’indebolimento e la sconfitta della May, ma con una contraddizione più grande che è stato il voto di fiducia riservatole il giorno successivo al voto negativo sull’accordo già approvato dal governo. La sessione del 29 gennaio, durante la quale sono stati discussi e votati alcuni emendamenti, era stata prevista proprio per mettere ulteriormente in difficoltà la May, ma alcuni osservatori, dopo il voto su alcuni di essi, hanno riconosciuto che la May stessa era uscita dal dibattito più forte di prima. Come conciliare il problema dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, che è una questione molto, ma molto importante, con i tatticismi di entrambi i partiti in lizza per diminuire, se non per liquidare, come vorrebbero i laburisti, il potere della May tanto nel suo partito che nel governo? La non chiarezza degli intenti, l’assenza di una strategia chiara e comprensibile, ha prodotto il risultato che è sotto gli occhi di tutti, vale a dire che il parlamento non ha una posizione maggioritaria sulla Brexit, sui modi della sua uscita, sugli eventuali rapporti da definire con l’UE dopo l’uscita, ecc. Se la data dell’uscita rimane quella fissata con l’applicazione dell’art. 50, venerdì, 29 marzo 2019, che succederà in assenza di un accordo? Il no deal, tanto deprecato da Corbyn a parole, ma per evitare il quale nulla ha concretamente fatto il suo partito, provocherà certamente disastri, anziché benefici. Uno dei suoi principali effetti riguarderà certamente il commercio con l’Europa. Attualmente, infatti, il RU fa parte del mercato unico europeo, che rende molto semplice esportare e importare merci con il resto dell’Unione. Senza accordo, il Regno Unit sarà considerato dal resto dell’Unione come un paese estraneo e questo comporterà un notevole aggravio in termini di permessi da ottenere, documenti da compilare e nuove procedure da seguire. Un documento del governo britannico consiglia esplicitamente alle aziende impegnate nel commercio con l’Europa di dotarsi di consulenti specializzati e di affidarsi a società che si occupano di svolgere questo tipo di pratiche burocratiche, senza parlare dei tempi da rispettare alla dogana per il disbrigo delle formalità che verrebbero richieste. Gli esperti parlano già di code che intralceranno il traffico a partire dal porto di Dover, ad esempio. La situazione non ci rallegra, avremmo auspicato un accordo per evitare le conseguenze negative da tutti temute, ma al punto in cui sono giunte le cose, il timore del no deal è reale e concreto, anche per l’Europa, sia pure in misura inferiore. La Brexit infatti era stata vista come un grande danno anche per l’Unione europea, perché l’uscita del Regno Unito avrebbe potuto rappresentare l’inizio di una fase discendente, seguita da altri Paesi. Due anni e mezzo dopo, la percezione delle cose è cambiata. L’UE ha assunto sempre una posizione comune durante i negoziati, proteggendo il paese membro che avrebbe potuto risultare il più danneggiato da una hard Brexit, cioè l’Irlanda, mentre il Regno Unito si è diviso profondamente e non è ancora riuscito a venir fuori dal caos politico che si è creato attorno alla Brexit. Per questo condividiamo l’interessante l’opinione espressa dal giornalista Steven Erianger sul New York Times: “Niente ha unito di più l’UE che la caotica rottura col Regno Unito”, anche se siamo convinti che l’uscita non risolva affatto i problemi che l’UE ha di fronte, compreso quello delle forze cosiddette sovraniste che minano alla base le ragioni dello stare insieme e le prospettive di uno sviluppo dell’Unione politica.

  • EU – US face off over opening up the EU’s Single Market to US agriculture

    Formal EU-US trade talks begin in February but the two trade delegations met on Tuesday to firm up the bloc’s parameters for talks; Brussels focused on taking agriculture off the negotiating agenda.

    Opening the Single Market to US agricultural goods is a non-starter for a number of EU member states, despite the insistence of successive US administrations.

    “We have been very clear that from the EU side that we will not discuss agriculture,” Trade Commissioner Cecilia Malmström told the press last week. The statement was in direct opposition to 17-page paper submitted by U.S. Trade Representative Robert Lighthizer, defining the US objective as “comprehensive market access for U.S. agricultural goods in the EU by reducing or eliminating tariffs.”

    If Washington were to insist on agricultural concessions, negotiations could falter as they did during talks on the foiled Transatlantic Trade and Investment Partnerships talks pushed by the Obama Administration.

    As always, there are differences between the two sides, not least European objections to genetically modified food and chlorinated chicken. US trade negotiators also have little patience for European geographic indicators for dairy products. In any event, both the US and the European farming sectors are heavily subsidized, an issue that is politically challenging to address either in Washington or in Brussels without spending considerable political capital.

    US legislators have made it clear that access to Europe’s agricultural market is a precondition to a Free Trade Agreement. The stakes are high, as the Trump Administration is threatening Europe with auto-industry tariffs, citing “national security” risks. If tariffs go ahead, they would be a great blow to the German €36bn market share of the US market.

    France is usually the champion of the agricultural cause in the EU. However, opening the agricultural would be a blow to a number of EU member states, from Poland and Italy to Ireland and Romania. As late as September 2018, the Italian government was threatening not to ratify the EU-Canada Free Trade Agreement (CETA), arguing that its agricultural products were not sufficiently protected.

    Following the visit by the President of the European Commission Jean-Claude Juncker to Washington in July, the EU doubled the volume of US soybean imports, cushioning the effect of the Sino-American trade war. For the moment, talks are not expected to make any more progress on the agricultural front.

    For the EU, the focus is on non-tariff barriers, namely the mutual recognition of testing, inspection and certification of manufactured goods, ranging from electrical equipment to toys. The US is seeking greater access to government procurement while preserving the “Buy American” limits in the U.S., the Wall Street Journal reports.

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