Africa

  • Cristiana Muscardini torna in libreria con il libro ‘Safari’

    Dopo diverse pubblicazioni sui temi europei, sul terrorismo e sul covid Cristiana Muscardini torna in libreria con il libro Safari edito da Albatros.

    Oltre alle storie di italiani che hanno trascorso la loro vita in Africa, affrontando esperienze diverse, l’autrice ci porta a conoscere paesaggi, a provare sensazioni, a riscoprire la ineluttabile legge della catena alimentare affrontando, con lucide disamine, alcuni dei tanti problemi che ancora rendono non facile la comprensione reciproca tra le diverse culture.

    “I libri ed i film sono la nostra vita negli occhi degli altri”, scrive la Muscardini che crede che ognuno abbia qualcosa da dire e da dare ma spesso non se ne renda conto.

    In una società sempre più tesa a cercare altrove quello che non sappiamo riconoscere in noi, e nelle persone che ci camminano a fianco, il libro, tra leoni e gazzelle, paesaggi naturali e guaritori, esperienze vissute e bracconieri, ci porta a vedere quell’Africa nera, quell’Africa profonda che vide nella Rift Valley la nascita dei primi esseri umani.

  • Il Ghana deposita semi nella “cassaforte del giorno del giudizio” del Circolo Polare Artico

    Il Ghana ha depositato i semi nel cosiddetto “doomsday vault” (caveau del giorno del giudizio) del Circolo Polare Artico nel tentativo di garantire la protezione a lungo termine delle principali colture alimentari del paese.

    Lo Svalbard Global Seed Vault, una struttura annidata in una montagna artica sulla remota isola norvegese di Spitsbergen, salvaguarda oltre 1,2 milioni di campioni di semi, la più grande raccolta al mondo di diversità di colture in un singolo luogo.

    Il caveau è di proprietà del governo norvegese ed è progettato per resistere a tutti i disastri naturali e umani.

    Secondo i suoi operatori, la struttura fornisce protezione e preservazione permanenti delle colture alimentari per garantire la futura sicurezza alimentare globale in caso di disastro, guadagnandosi il soprannome di “archivio del giorno del giudizio”.

    Il deposito del Ghana è stato effettuato dal Plant Research Institute del paese dell’Africa occidentale e comprende colture chiave come mais, riso, melanzane e fagioli.

    Il Crop Trust, che gestisce il deposito di semi, ha affermato di avere semi provenienti da quasi tutti i paesi della Terra. Il Ghana segue nazioni africane come Etiopia, Kenya, Nigeria e Zambia nell’effettuare depositi.

  • In Congo 23 persone uccise dagli islamisti ugandesi

    Almeno 23 civili sono stati uccisi in un attacco da parte di ribelli armati nella travagliata regione orientale della Repubblica Democratica del Congo. Il sindaco di Oicha, cittadina nella regione di Beni, ha attribuito gli omicidi alle Forze Democratiche Alleate (ADF).

    L’ADF, gruppo armato ugandese con sede nella Repubblica Democratica del Congo orientale, ha giurato fedeltà allo Stato islamico e perpetrato frequenti attacchi. A giugno, i militanti dell’ADF hanno ucciso 42 persone, tra cui 37 studenti di una scuola superiore nell’Uganda occidentale. Anche la morte di due turisti e della loro guida in un parco nazionale nel sud-ovest dell’Uganda la scorsa settimana è stata attribuita alle ADF.

    Due anni fa l’Uganda e la Repubblica Democratica del Congo hanno lanciato un’operazione militare congiunta per cercare di sradicare gli insorti. L’esercito dell’Uganda ha dichiarato il mese scorso di essere riuscito a uccidere più di 560 combattenti e a distruggere alcuni dei loro accampamenti.

  • I paesi poveri sono più poveri

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 13 ottobre 2023

    I paesi a basso reddito, i cosiddetti low income countries (lic), hanno un pil complessivo di circa 500 miliardi di dollari, una goccia nell’immenso mare di 100 mila miliardi dell’economia globale. Il loro piccolo peso economico è proporzionale alla poca attenzione loro data dai paesi sviluppati. Infatti, i paesi più ricchi del mondo hanno scelto proprio il momento peggiore per diventare meno generosi con gli aiuti e l’assistenza allo sviluppo. I lic, però, rappresentano ben 700 milioni di persone che ambiscono agli stessi diritti umani e civili di un cittadino di Berlino o di Roma.

    Tante sono le astratte discussioni sulle ondate migratorie e sul sottosviluppo e si riempiono tanti salotti televisivi, ignorando, però, la dura realtà sottostante. Oggi, secondo i dati della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite, i 26 paesi più poveri del mondo si trovano ad affrontare crescenti difficoltà sociali, economiche e politiche, a causa dell’aumento del debito, della diminuzione delle prospettive di sviluppo e del cronico sottoinvestimento.

    Secondo i recenti criteri stabiliti dalla Banca Mondiale, i paesi più poveri sono quelli con un reddito annuale procapite inferiore a 1.135 dollari. Da 28 sono diventati 26 poiché, per una insignificante manciata di dollari, lo Zambia e la Guinea Bissau sono passati nella fascia “superiore”, quella dei paesi di reddito medio, cioè fino a 4.465 dollari procapite annui. Il valore di riferimento usato è il reddito nazionale lordo, gni è l’acronimo in inglese, che al pil aggiunge i profitti realizzati all’estero da parte di cittadini del paese meno i profitti fatti da compagnie e investitori stranieri sul territorio del paese in questione.

    La situazione dei paesi a basso reddito è peggiorata dal 2000. Ad esempio, la mortalità materna è ora più alta del 25% e la quota della popolazione con accesso all’elettricità è scesa dal 52% ad appena il 40%. L’aspettativa di vita media è oggi di soli 62 anni, tra i tassi più bassi del mondo. A peggiorare le cose, le probabilità che questi paesi ricevano aiuti dall’estero sono diminuite. I paesi più ricchi stanno reindirizzando una parte maggiore dei loro bilanci, destinati agli aiuti esteri, per coprire le spese generate dall’arrivo di rifugiati. Ben 22 dei 26 suddetti paesi sono nell’Africa sub sahariana. Tutti ricchissimi di materie prime. Alcuni, come l’Etiopia, la Repubblica democratica del Congo e il Sudan hanno una ragguardevole popolazione.

    Non ci sono solo negligenza e sfruttamento da parte delle economie avanzate e delle grandi multinazionali, ma anche i governi non si curano veramente delle loro popolazioni. Hanno altre priorità. Ad esempio, spendono circa il 50% in più per la guerra e la difesa rispetto alla sanità. Quasi la metà dei loro budget è destinata agli stipendi del settore pubblico e al pagamento degli interessi sul debito, mentre solo il 3% della spesa pubblica è per il sostegno dei cittadini più vulnerabili. Si tratta di un decimo della media nelle economie in via di sviluppo.

    Entro la fine del 2024 il reddito medio delle persone nei paesi più poveri sarà ancora inferiore di quasi il 13% rispetto a quanto previsto prima della pandemia. Tra il 2011 e il 2015, le sovvenzioni hanno rappresentato circa un terzo delle entrate pubbliche nei paesi più poveri. Da allora tale quota è scesa a meno di un quinto! I governi dei paesi poveri hanno colmato la differenza indebitandosi ulteriormente, penalizzati anche dagli alti tassi d’interesse. Il rapporto debito pubblico/pil in queste economie è salito dal 36% del 2011 al 67% dello scorso anno. È il livello più alto dal 2005. Quattordici di questi paesi a basso reddito, il doppio di appena otto anni fa, sono ora in grande difficoltà debitoria o corrono il rischio di esse

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Guinean cycles across six countries for spot at Egypt’s Al-Azhar University

    A student has cycled 4,000km (2,500 miles) across West Africa, enduring arrests and blazing heat, for a spot at his dream university.

    Mamadou Safayou Barry set off from Guinea for Egypt’s prestigious Al-Azhar in May, hoping he would be accepted.

    The 25-year-old cycled for four months through countries wracked by Islamist militants and coups.

    He told the BBC he was “very, very” happy to have been given a scholarship when he finally reached Cairo.

    The married father of one said although he could not afford the Islamic Studies course at Al-Azhar, or flights to Egypt, the university’s reputation spurred him to take his chances on the epic trek through Mali, Burkina Faso, Togo, Benin, Niger and Chad.

    Al-Azhar is one of the most influential centres for Sunni Islamic learning in the world. It’s also one of the oldest, having been founded in the year AD670.

    Mr Barry set off from his home “seeking Islamic knowledge” but experienced suspicion and adversity in some of the countries he biked through.

    In Mali, Burkina Faso and Niger, attacks by Islamist militants on civilians are frequent and recent coups have led to political instability.

    “To travel through these countries is very hard because they don’t have security at this time,” he said.

    “They have so many problems and people there are very scared – in Mali and Burkina Faso people were looking at me like I am a bad man. All over I was seeing the military with their big guns and cars,” Mr Barry said.

    He said that he was arrested and detained three times for no good reason – twice in Burkina Faso and once in Togo.

    However, Mr Barry’s luck took a turn when he reached Chad. A journalist interviewed Mr Barry and posted his story online, prompting some good Samaritans to fund a flight to Egypt for him.

    This meant he avoided cycling through Sudan, parts of which are currently war-zones.

    On 5 September, he finally arrived in Cairo. His determination earned him a meeting with the Dean of Islamic studies, Dr Nahla Elseidy. After speaking to Mr Barry, Dr Elseidy offered him a place on Al-Azhar’s Islamic Studies course, with a full scholarship.

    The dean said on her social media channels that the university was keen to offer its knowledge to students worldwide and that this philosophy “not only covers international students in Egypt but also extends abroad. Al-Azhar receives students from all countries, takes care of them, and offers them grants”.

    Mr Barry said he was “very, very happy” to have received the scholarship.

    “I cannot tell you how happy I was. I thanked God,” he said.

    Mr Barry added that the trials of his expedition are long forgotten – erased by the joy of being able to call himself an al-Azhar scholar.

  • Senza una visione del futuro non si può risolvere quello che sta accadendo

    Stupisce lo stupore di coloro che si chiedono come il governo italiano e l’Europa non riescano a gestire ed impedire il sempre più ingente flusso di migranti.

    Premesso che l’Italia ha la responsabilità di aver firmato, nel 2003, il Trattato di Dublino e di non aver saputo, con nessuno dei molti governi che si sono succeduti, di ogni colore politico, modificarlo, riaffermato che quel trattato, per altro nato in una diversa situazione di immigrazione, era comunque miope e sbagliato, dobbiamo nuovamente rimarcare oggi l’incapacità dell’Unione Europea, priva di una politica comune, di gestire un fenomeno diventato di proporzioni bibliche.

    Il Consiglio europeo, cosi come le altre istituzioni europee, non è in grado, perché obsoleto nella sua forma, di gestire le rivalità, gli interessi nazionali, le diverse visioni, anche dovute a culture e latitudini diverse, che esistono tra i suoi Stati Membri. Se a questo aggiungiamo che in ogni Paese si è già in campagna elettorale, per le elezioni che in primavera eleggeranno il nuovo Parlamento e ridisegneranno gli equilibri futuri, ben si comprende come ogni giorno ci siano dichiarazioni e smentite e non si arrivi a nulla di concreto…

    Se a tutta questa incertezza, confusione e ridda di paure e divieti aggiungiamo le incontrovertibili realtà:

    1) molte popolazioni africane soffrono la fame e la sete e vivono in condizioni di esagerante precarietà e povertà;

    2) in molti Paesi ci sono conflitti, guerre, presenza di terroristi, regimi totalitari, mancanza di libertà;

    3) piaccia o meno abbiamo lasciato credere che nei paesi europei tutti avevamo tutto, addirittura che il lavoro, la sanità, la casa, e via  discorrendo, erano assicurati;

    4)i recenti colpi di stato, il terremoto in Marocco, la tragica inondazione in Libia, la gravissima crisi economica tunisina, aggiunte alla ben nota situazione siriana, somala, afgana, solo per citare alcune delle situazioni di crisi che hanno creato nuove disperazioni, comprendiamo bene che, complici le condizioni climatiche, era evidente che gli sbarchi sarebbero aumentati in modo esponenziale e che non c’è possibilità di fermarli solo con decreti o blocchi navali.

    Quello che occorre è, da subito, pur sapendo che servirà tempo per la realizzazione, una politica europea che affronti in modo totalmente nuovo il problema, tenuto anche conto che proprio all’Europa occorrono immigrati per molte attività lavorative e che questi immigrati devono essere preparati alle nostre regole, alle nostre lingue, alle attività che dovranno svolgere per costruirsi quella vita dignitosa alla quale  giustamente aspirano.

    Come abbiamo già avuto modo di suggerire da tempo la soluzione è che l’Unione europea chieda ad alcuni Paesi del nord Africa, come la Tunisia, il Marocco, l’Egitto l’affitto per 50 anni di un’area di 100 ettari ciascuno per costruire direttamente veri e propri villaggi, non campi profughi ma villaggi, organizzati e gestiti da personale europeo.

    In questi villaggi, con  scuole di lingue e di orientamento professionale, i profughi potrebbero ritrovare la serenità e la speranza che cercano, le famiglie non sarebbero smembrate, i bambini ed i giovani avrebbero l’istruzione necessaria per essere avviati un domani verso i paesi europei, le donne non subirebbero le violenze di ogni genere alle quali  sono ora continuamente sottoposte.

    In questi villaggi sarebbe più facile individuare 1) chi non dovrebbe arrivare in Europa perché pericoloso e deve  essere rimpatriato, 2) chi può avere diritto ad un asilo immediato, 3) chi ha bisogno di cure sanitarie, 4) chi in certi casi potrebbe scegliere di tornare al paese d’origine.

    Se non si ha il coraggio di guardare avanti e di impostare in modo nuovo la risoluzione di un problema, che sta diventando una catastrofe umanitaria per tutti, la situazione rischia di degenerare ulteriormente con conseguenze gravissime.

    Il progetto di aiutare l’Africa in Africa va realizzato senza chiudere le frontiere ma trovando da subito concrete possibilità per una integrazione vera ed utile agli  europei come agli africani, è l’unica ragionevole soluzione, senza la visione del futuro non si riuscirà a risolvere quello che sta accadendo, non solo in Italia.

  • Circa il 10% delle vittime delle inondazioni libiche erano migranti

    Il 10% circa delle persone morte nelle inondazioni che hanno colpito la Libia sono migranti, stando a quanto dichiarato alla BBC dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Secondo i dati dell’OIM, organismo delle Nazioni Unite, nel febbraio 2023 nel paese nordafricano vivevano oltre 706.000 migranti, alcuni erano lì da tempo per lavoro, mentre per la Libia era un punto di transito nel tentativo di raggiungere l’Europa.

    Secondo l’OIM sono quattrocento i migranti morti nelle inondazioni ma il bilancio delle vittime potrebbe cambiare man mano che i corpi saranno recuperati.

    Al momento per l’OIM e l’Organizzazione Mondiale della Sanità il bilancio delle vittime confermato è pari a 3.900, tuttavia, i funzionari che utilizzano metodologie diverse hanno fornito statistiche molto diverse, come il sindaco della città libica Derna che stima siano morte più di 20.000 persone.

    Derna è stata, di gran lunga, la più colpita dalle inondazioni. Due dighe sono crollate a causa delle forti piogge e parti della città sono state sommerse dall’acqua. Circa 10.000 migranti vivevano nella città portuale prima dell’alluvione e l’OIM prevede che il bilancio delle vittime sarà particolarmente alto, considerando che molti vivevano in zone pianeggianti.

  • Summit di Pietroburgo: l’Africa fa sentire la sua voce

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi  apparso su notiziegeopolitiche.net il 10 agosto 2023

    Il 28 luglio scorso è terminato a San Pietroburgo il secondo summit Russia – Africa. Vi hanno partecipato 49 Stati africani, rappresentati in alcuni casi da capi di governo, in altri da ministri degli esteri o da ambasciatori. Il primo summit fu organizzato a Sochi nell’ottobre del 2019. Nel frattempo il mondo è stato profondamente cambiato dal Covid e dalla guerra in Ucraina.
    Molta stampa ha cercato di presentare il summit come un fallimento, poiché, rispetto a quello di Sochi, a San Pietroburgo sarebbe stato presente un numero inferiore di capi di Stato e di governo. Il fatto è vero, si è passati da 43 capi di Stato a 17, frutto di grandi pressioni occidentali. Anche se questa volta sono venuti altri capi di Stato importanti, come quello del Camerun, che non erano stati a Sochi.
    A nostro avviso sarebbe un grave errore di calcolo geopolitico se l’Occidente, e in particolare l’Unione europea, valutasse il summit semplicemente come un atto di propaganda di Mosca o come un cedimento dell’Africa alle pressioni e alle supposte “manipolazioni” della Russia.
    Sarebbe invece opportuno leggere la Dichiarazione finale non come un compromesso di posizioni ma come una dichiarazione programmatica e d’intenti dei paesi dell’Africa nei confronti del mondo intero. Ovviamente, la mano del Cremlino c’è stata ma si è limitata a far si che la parola “Ucraina” non fosse mai menzionata nella Dichiarazione.
    L’Africa riafferma la necessità di opporsi al neocolonialismo, che impone condizioni e doppi standard, e di non permettere che queste pratiche privino gli Stati e i popoli del diritto di compiere scelte sovrane nei loro percorsi di sviluppo. Chiede di “contrastare l’imposizione nelle organizzazioni internazionali, principalmente nelle Nazioni Unite, di linee di divisione che ostacolano l’effettiva ricerca di soluzioni a questioni urgenti nell’agenda dell’Onu, comprese quelle che riguardano interessi vitali degli Stati africani… L’Africa vuole contribuire alla creazione di un ordine mondiale multipolare più giusto, equilibrato e stabile”. Ciò non è cosa da poco anche rispetto alle chiusure degli Usa e dell’Occidente in genere rispetto a tale necessità.
    Nel campo economico e programmatico le posizioni dell’Africa sono anche più precise. Si afferma “l’opposizione all’applicazione di misure restrittive unilaterali illegittime, anche secondarie, e alla pratica del congelamento delle riserve valutarie sovrane.” Ovviamente è un’affermazione anche nell’interesse della Russia, per via delle sanzioni imposte dall’Occidente, ma riflette soprattutto la crescente preoccupazione, più volte espressa da tutti i Paesi emergenti, sull’utilizzo generalizzato delle sanzioni come arma di guerra.
    Il sostegno dell’Africa a un processo politico multilaterale è manifestato chiaramente quando si dichiara di voler contribuire a una crescita economica sostenibile e globale e a un sistema più rappresentativo di governance economica internazionale per rispondere efficacemente alle sfide economiche e finanziarie globali e regionali. E anche quando si vuole “facilitare la ristrutturazione dell’architettura finanziaria globale per affrontare meglio le crescenti esigenze di sviluppo e riflettere gli interessi e la crescente influenza dei paesi in via di sviluppo e per superare l’impatto negativo delle condizioni loro imposte in relazione al pieno ed effettivo godimento dei diritti umani.”
    Naturalmente si esprime profonda preoccupazione per le sfide legate alla sicurezza alimentare globale, compreso l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e dei fertilizzanti, e l’interruzione delle catene di approvvigionamento internazionali, che hanno un impatto sproporzionato sul continente africano. Si sostiene, inoltre, la necessità di misure finanziarie multilaterali inclusive che alleggeriscano l’onere del debito per i paesi a basso e medio reddito.
    Decisivo per l’Africa è “il rispetto dei principi e degli scopi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite per promuovere il ruolo centrale di coordinamento dell’Onu come il principale meccanismo multilaterale globale.” L’adesione dell’Unione africana (Ua) al G20 sarebbe un passo importante nella giusta direzione, così come l’auspicata partnership dell’Ua con i Brics.
    Particolarmente rilevante è proprio la centralità data all’Onu rispetto al ruolo assegnatole dai 193 paesi aderenti. Purtroppo, nonostante la drammaticità di questo delicato momento, i paesi europei hanno scelto di svolgere un ruolo subalterno.

    *già sottosegretario all’Economia   **economista

  • I sostenitori del golpe in Niger assaltano l’ambasciata francese, Parigi pronta a reagire

    Alcuni giorno dopo il colpo di Stato, migliaia di sostenitori della giunta militare al potere in Niger dal 26 luglio hanno manifestato a Niamey, prendendo di mira anche l’ambasciata della Francia. Video della protesta sui social network mostrano i manifestanti che intonano slogan antifrancesi e chiedono la chiusura della sede diplomatica. Un’insegna dell’ambasciata è stata rimossa e una porta è stata incendiata. In mattinata una folla si è radunata anche a Place de Concertation, dove si sono viste sventolare bandiere della Russia. Il generale Abdourahmane Tchiani (o Omar Tchiani), insediatosi dopo la destituzione con il golpe del presidente democraticamente eletto Mohamed Bazoum, ha scritto su Twitter che la “marcia di sostegno” è una “dimostrazione di forza inaudita nella capitale da più di dieci anni”. La giunta ha rilasciato un comunicato ieri invitando i cittadini a scendere in piazza oggi per protestare contro la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), in concomitanza col vertice straordinario dei leader dell’organizzazione convocato per oggi ad Abuja, in Nigeria.

    Il summit della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale è stato convocato da Bola Ahmed Tinubu, presidente della Nigeria e dell’Autorità dei capi di Stato e di governo della Cedeao. Nell’incontro potrebbero essere decise sanzioni, come la sospensione. Il Niger potrebbe essere escluso anche dall’Unione economica e monetaria ovest-africana (Uemoa), di cui fa parte insieme ad altri sette Paesi della Cedeao. In vista della riunione odierna, ieri sera il colonnello Amadou Abdramane, portavoce della giunta che ha preso il potere in Niger, ha letto una dichiarazione in un intervento trasmesso dalla televisione di Stato nigerina, attribuendo alla Cedeao un “piano di aggressione contro il Niger attraverso un imminente intervento militare a Niamey”, in collaborazione con altri Paesi africani e con alcuni Paesi occidentali. Il colonnello ha dichiarato che la giunta è determinata a “difendere la patria”.

    Tinubu ha avuto un colloquio telefonico col segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken. I due interlocutori, secondo una nota del dipartimento di Stato Usa, hanno condiviso la profonda preoccupazione per gli eventi in Niger e per la detenzione del presidente nigerino Bazoum. Il responsabile della diplomazia statunitense ha ringraziato Tinubu per la sua leadership come presidente della Nigeria e come presidente della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale nella crisi in corso e ha assicurato il sostegno di Washington agli sforzi per ripristinare l’ordine costituzionale in Niger.

    Mentre si moltiplicano le condanne da parte della comunità internazionale, i leader regionali – riuniti domenica 30 luglio ad Abuja per un vertice straordinario della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao) – hanno imposto sanzioni immediate alla giunta golpista, arrivando a minacciare l’uso della forza in caso di mancato ripristino dell’ordine costituzionale. Una simile posizione potrebbe essere assunta dalla Francia, sempre più preoccupata per l’evolversi degli eventi in un Paese ritenuto strategico da Parigi sia per la massiccia presenza militare sia – e soprattutto – per le riserve di uranio presenti in Niger, da cui dipende buona parte del fabbisogno energetico francese. L’attacco all’ambasciata ha suscitato la pronta reazione di Parigi, l’Eliseo che ha fatto sapere che “non tollererà alcun attacco contro la Francia e i suoi interessi”. Il presidente Emmanuel Macron ha avvertito che “non tollererà alcun attacco contro la Francia e i suoi interessi” in Niger. “Chiunque attacchi i cittadini francesi, l’esercito, i diplomatici e la sedi francesi vedrà la Francia reagire in modo immediato e inflessibile”, ha fatto sapere l’Eliseo in una nota. Un possibile intervento francese è stato paventato anche dalla stessa giunta militare di Niamey, che ha accusato la Francia di voler cercare “modi e mezzi per intervenire militarmente in Niger”. In un comunicato letto in diretta dal colonnello maggiore Amadou Abdramane, portavoce del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp), la giunta ha denunciato il fatto che sarebbe avvenuto un incontro tra i soldati francesi, l’ex ministro delle Finanze, Hassoumi Massaoudou, e l’ex capo della Guardia nazionale del Niger, Midou Guirey, per firmare un documento che autorizzi la Francia a compiere attacchi contro il palazzo presidenziale. Secondo fonti citate da “Tchad One”, inoltre, Guirey sarebbe stato arrestato dalle autorità golpiste, così come altri quattro ministri del governo deposto e il capo del Partito nigerino per la democrazia e il socialismo (Pnds) di Bazoum: si tratta del ministro del Petrolio Mahamane Sani Mahamadou, figlio dell’influente ex presidente Mahamadou Issoufou, e quello delle Miniere Ousseini Hadizatou. In manette, parimenti, è finito il capo del comitato esecutivo nazionale del partito, Fourmakoye Gado. In precedenza erano stati arrestati anche il ministro dell’Interno Hama Amadou Souley, quello dei Trasporti Oumarou Malam Alma e l’ex ministro della Difesa Kalla Moutari, attualmente membro del parlamento.

    L’impressione è che, a differenza di quanto accaduto negli ultimi tre anni con i colpi di Stato in Mali, Guinea e Burkina Faso, questa volta la Francia difficilmente potrà tollerare la perdita d’influenza in quello che da anni era il suo principale alleato nel Sahel, nonché l’ultimo bastione “democratico” in una regione ormai quasi interamente formata da Paesi guidati da giunte militari golpiste riconducibili all’orbita russa. È al Niger che la Francia, l’Unione europea e i suoi alleati occidentali – in primis gli Stati Uniti – si erano finora aggrappati per non vedersi definitivamente estromessi nel Sahel a scapito della Russia. Ed è in Niger che Parigi ha ricollocato i circa 2.400 militari della missione francese Barkhane precedentemente stanziati in Mali, come voluto dal presidente Emmanuel Macron in seguito all’escalation delle tensioni tra Bamako e Parigi. Stessa sorte è toccata ai militari della task force europea Takuba (cui l’Italia contribuiva con circa 200 uomini), ora riposizionati al fianco delle forze armate del Niger alla frontiera con il Mali, in seguito alla chiusura delle basi militari maliane di Gossi, Menaka e Gao. Un eventuale scivolamento del Niger in orbita russa sancirebbe dunque la definitiva estromissione francese ed europea dal Sahel, con conseguenze che andrebbero ben oltre la dimensione militare. Con due miniere di uranio – quelle di Acuta e di Arlit – gestite entrambe dalla controllata nigerina della società francese Orano, il Niger è infatti il primo fornitore di uranio dell’Ue, assicurando il 24 per cento del fabbisogno comunitario.

    Nel frattempo sono entrate nel vivo le trattative diplomatiche per cercare di mediare nella crisi. Il presidente del Ciad, Mahamat Idriss Déby Itno, altro alleato della Francia nel Sahel, ha effettuato una visita di qualche ora a Niamey per trovare una soluzione negoziata. All’opera anche l’ex presidente nigerino Mahamadou Issoufou, al potere per due mandati dal 2011 al 2021. “A Niamey ho avuto colloqui approfonditi con i leader del Cnsp, in particolare con il generale Abdourahamane Tchiani, con il presidente Mohamed Bazoum e con l’ex presidente Mahamadou Issoufou, in un approccio fraterno che mira a esplorare tutte le strade per trovare una soluzione pacifica alla crisi che sta scuotendo questo Paese vicino”, ha scritto Deby su Twitter, pubblicando una foto che lo ritrae seduto accanto ad un sorridente Bazoum, che appare in buone condizioni. Il lavoro diplomatico prosegue intanto a livello regionale. Mentre a Niamey andavano in scena partecipate proteste in cui i manifestanti hanno sventolato bandiere della Russia e hanno preso d’assalto anche l’ambasciata francese, i leader della Cedeao si riunivano ad Abuja per un vertice straordinario convocato dal presidente nigeriano Bola Tinubu. Nel comunicato congiunto diffuso al termine del vertice, i leader regionali hanno concesso un ultimatum alla giunta militare, imponendo sanzioni immediate e minacciando l’uso della forza.

    Alla giunta nigerina, si legge nel comunicato, è stato inoltre chiesto di rilasciare immediatamente il presidente eletto democraticamente, Mohamed Bazoum, ed è stata concessa una settimana di tempo per cedere il potere. In caso contrario saranno prese le misure necessarie, che potranno includere l’impiego della forza. Sono state annunciate con effetto immediato la chiusura delle frontiere aeree e terrestri dei Paesi membri e l’interdizione di sorvolo degli aerei commerciali provenienti dal Niger o diretti in Niger. Sono state sospese, anch’esse con effetto immediato, tutte le transazioni commerciali e finanziarie tra gli Stati membri e il Niger, e congelate tutte le risorse statali nigerine nelle banche centrali dei Paesi Cedeao, così come gli asset delle imprese statali nelle banche commerciali. Tra le misure c’è anche il divieto di ingresso e il congelamento dei beni per i militari nigerini coinvolti nel colpo di Stato, per i loro familiari e per i civili che accettano di assumere incarichi nel governo militare.

  • Ethiopia restores social media access after five months

    Ethiopia is allowing people to access Facebook, Telegram, TikTok and YouTube for the first time in more than five months.

    The blackout was imposed on 9 February this year after tensions between the Ethiopian Orthodox Church and the government.

    Only those with access to virtual private network (VPN) software could get on to the social media platforms – something that cost them additional data.

    The Orthodox Church faced a split in February when some archbishops from the Oromia region said they wanted to form a new synod as they wanted to hold services on the Oromo language.

    The move triggered deadly clashes, but a mediation effort by the government has now papered over the cracks.

    There has been no statement from the authorities over the decision to lift the ban.

    Last month, the head of Ethio Telecom said the blockage was not a decision that had been taken by the state-owned company.

    According to the Internet Society, the outage has cost Ethiopia $42m (£32m) because of the knock-on effect on businesses. Others say the figure is higher.

    Some areas of the northern region of Tigray, where a brutal two-year conflict came to an end last November, remain without access to the internet.

Pulsante per tornare all'inizio