Dazi

  • Coldiretti invoca lo Stato per fare fronte a Trump

    Enzo Gesmundo segretario generale della Coldiretti, prevede che i dazi americani impatteranno pesantemente sul sistema agroalimentare italiano: «A pagarne le conseguenze potrebbero essere tutti i cittadini italiani, non solo le imprese che sul mercato statunitense rischiano di perdere 1,6 miliardi. L`Italia non è solo un grande esportatore ma è anche un forte importatore di prodotti agricoli: nel 2024 ha raggiunto la cifra record di 22,5 miliardi con un aumento dell`8%. Dazi, contro-dazi e altre misure nocive rischiano di comprimere rapidamente mercati di prodotti come mais, soia e grano per i quali siamo autosufficienti rispettivamente per il 46%, 32% e 44% Si tratta di elementi determinanti per la dieta degli italiani, in maniera diretta come il grano per la pasta o indiretta come il mais e la soia destinati all`alimentazione degli animali da allevamento che poi producono il latte, la carne e i formaggi che finiscono sulle nostre tavole».

    Di fronte a questo scenario, Gismundo invoca «un nuovo piano agricolo nazionale che consente di colmare il gap produttivo, ma anche di generare effetti positivi su ambiente e paesaggio» argomentando che «la scomparsa dì terreni fertili ha bruciato 21 miliardi in valore di prodotti agricoli in poco meno di un ventennio, Confrontando i risultati dei censimenti agricoli dal 2000 al 2020, la superficie agricola totale è passata da 18,8 milioni di ettari a 16,1, con un calo netto di 2,7 milioni di ettari. Se si guarda più lontano, a causa della cementificazione e dell`abbandono l`Italia ha perso quasi 1/3 dei terreni agricola nell`ultimo mezzo secolo. Un fenomeno che ha avuto gravi ripercussioni sui raccolti ma anche sulla gestione del territorio e sulla stabilità idrogeologica del Paese, aggravando gli effetti dei cambiamenti climatici e delle condizioni meteo estreme».

    «Garantire un giusto reddito alle imprese agricole, che resta il nostro principale obiettivo» afferma Gismundo, e dichiara: «Partiamo ad esempio dall`emergenza siccità, ormai strutturale e che inevitabilmente limita le capacità agricole di vasti territori, in particolare al Sud. Pensiamo che un piano di invasi su larga scala, capace di garantire acqua ed energia e di prevenire gli effetti dei cambiamenti climatici, debba essere una risposta non più rimandabile. Oggi l`acqua piovana va a finire nei 230mila chilometri di canali lungo il Paese e sprecata nel mare. Insieme all`Anbi, l`Associazione nazionale delle bonifiche, abbiamo elaborato un progetto per la realizzazione di un sistema di bacini di accumulo con un metodo di pompaggio che garantirebbe riserve idriche nei periodi di siccità ma anche di limitare l`impatto sul terreno di piogge e acquazzoni sempre più violenti che accentuano la tendenza allo scorrimento dell`acqua nei canali asciutti. Fondamentale quindi il recupero degli invasi già presenti sul territorio».

  • Accordo con gli Stati Uniti ma no ai loro prodotti Ogm o alla carne

    Tutti speriamo che l’incontro tra Giorgia Meloni e Donald Trump dia buoni risultati e aiuti le trattative del Commissario europeo, occorre infatti essere capaci di dare vita ad una mediazione, un compromesso, utile all’economia ed ai cittadini dell’Unione Europea e degli Stati Uniti.

    Tra i problemi che ostacolano l’accordo è l’eventuale insistenza del Presidente americano a voler esportare in Europa prodotti alimentari che non sono in sintonia con le regole europee.

    Carni di animali allevati in modo difforme ai nostri protocolli di allevamento e tutti i prodotti Ogm non possono essere merce di scambio per ottenere il via libera ad altre nostre esportazioni perché la nostra salute resta un bene primario.

    Su questi problemi è da anni che si discute e che gli Stati Uniti insistono, siamo però ragionevolmente convinti che sia la Presidente del Consiglio che il Commissario europeo terranno fede all’impegno preso con i cittadini e col mondo dell’agricoltura.

    Sarà una trattativa difficile ma il Presidente americano ha tutto l’interesse ad evitare che si stringano, per colpa sua, maggiori rapporti tra l’Europa e la Cina che ci sta sempre più inondando di prodotti di largo consumo a basso prezzo, per non parlare di quanto è contraffatto e venduto sulla rete nonostante i molti controlli della Guardia di Finanza e dei nuclei anti contraffazione.

    Pur continuando ad avere seri dubbi sulla ragionevolezza di Trump sappiamo anche che ha già una volta fatto parziale marcia indietro e che vi sono, anche nei repubblicani, molti che non condividono la linea oltranzista e vogliono un accordo.

  • Niente dazi a Russia, Bielorussia, Corea del Nord, Cuba

    La decisione di Trump di non mettere dazi a Russia, Bielorussia, Cuba e Corea del Nord, tutti Stati collegati tra loro non solo da una comunanza di sistema politico ma anche da importanti alleanze militari, non è una scelta economica, come sostiene la portavoce della Casa Bianca, ma politica.

    Caroline Leavitt ha sostenuto, ad esempio, che la Russia sia stata esclusa dai dazi in quanto non vi sono scambi commerciali significativi con gli Usa. In effetti, dopo l’invasione dell’Ucraina, gli scambi economici tra Russia e Usa sono calati a 3,5 miliardi di dollari nel 2024.

    La Leavitt ha però dimenticato un dato molto significativo che dimostra l’infondatezza delle sue argomentazioni: i dazi Trump li ha imposti anche a Paesi infinitamente piccoli, come Tokelau, Paese del Pacifico che ha 1500 abitanti, o le Isole Svalbard nel circolo polare artico, che conta 2500 abitanti e dazi sono stati imposti anche a Paesi come Mauritius e Brunei con i quali gli Usa hanno scambi economici molto inferiori rispetto a quelli con Mosca.

    Può sembrare fantapolitica immaginare che la decisione di Trump su Russia, Bielorussia, Cuba e Corea del Nord sia originata dalla ‘simpatia’ che il presidente americano mostra verso Putin e da una certa invidia per la possibilità dello zar russo di assumere qualunque tipo di decisione, anche le più negative per il suo Paese, senza avere quelle imponenti manifestazioni di piazza che si sono viste invece negli Usa anche in questi giorni contro la politica dello stesso Trump?

    In ogni caso: la ‘simpatia’ di Trump per Putin ha portato alla conseguenza che anche i Paesi alleati di Putin hanno beneficiato di questa singolare attitudine trumpiana verso alcune dittature.

    Rimane per noi europei la necessità di agire finalmente uniti, non con l’isteria che la caduta delle Borse può procurare, ma con la consapevolezza che le nostre imprese possono trovare giovamento, se la politica le sostiene, dall’indirizzare la loro attenzione anche verso altri mercati. Infatti, in ogni settore, la diversificazione evita traumi quando si creano situazioni di conflitto con partner economici o produttori di beni essenziali, quanto è avvenuto col gas russo ne è l’esempio.

    Certamente è necessario e urgente sviluppare e completare finalmente il mercato interno europeo eliminando quella parte di regole e impedimenti che hanno ad oggi penalizzato imprese e consumatori.

  • Crollo delle borse come scialuppa di salvataggio

    Il crollo delle borse di questi ultimi due giorni va considerato in relazione anche alle dinamiche delle operazioni di borsa le quali vengono gestite al 75% dagli algoritmi, e quindi non esprimono una valutazione complessiva su un determinato momento economico come quello dell’introduzione dei dati da parte dell’amministrazione statunitense. Esattamente come ogni crescita degli indici di borsa il loro stesso recente tracollo deve essere considerato come un fattore relativo e non decisivo.

    Tuttavia emerge evidente come le maggiori perdite dei titoli riguardino quelle aziende che hanno fatto della globalizzazione priva di ogni regola, auspicata dal WTO, la propria chiave di successo. Queste aziende si sono prodigate nella ricerca, delocalizzando le produzioni, del costo del lavoro minore e contemporaneamente di quadri normativi a tutela dei lavoratori e delle prodotti meno impegnativi. In altre parole, la ricerca è stata imperniata sulla caccia di realtà economiche e statali che assicurassero un dumping salariale, fiscale e normativo.

    La vicenda dei dazi, in più, meriterebbe di essere approfondita ed interpretata in un’ottica che inquadri il dazio non solo come un fattore economico per rilasciare l’occupazione statunitense. La tanto contestata iniziativa dell’amministrazione Trump esprime al proprio interno anche una leva politica. In altre parole, il dazio, come una sua eventuale attenuazione, si dimostra uno strumento con l’obiettivo di invitare gli alleati occidentali ad acquistare i “Matusalem Bond”, titoli del debito americano a scadenza 100 anni che hanno l’obiettivo di azzerare la quota del 2,01% di debito americano ancora in mano alla Cina. Di fronte a questa scelta degli alleati occidentali ecco che la percentuale del dazio applicato dagli Stati Uniti potrebbe ridursi.

    Questa opzione va ovviamente introdotta all’interno di un’ottica che inquadra la Cina come il vero pericolo in un prossimo confronto bellico, anche in considerazione delle recenti manovre che hanno visto un inaspettato aumento della potenzialità militare del colosso cinese che potrebbe addirittura anticipare una possibile invasione di Taiwan, una volta fissata al 2030.

    L’Unione Europea in questo contesto si rivela ancora una volta spettatrice ignara, confermando come reciti il ruolo di una istituzione marginale ed espressione di competenze politiche economiche e strategiche assolutamente insufficienti, quindi non in grado di comprendere le dinamiche geopolitiche e tanto meno il proprio ruolo sempre più marginale.

    In questo contesto si aggiunga come nel nostro Paese si continuino ad aumentare la pressione fiscale, ora al 50,6% (+1,5 rispetto al 2023) come certificato dall’ISTAT, e, a doppia cifra ormai, il costo dell’energia.

    L’effetto paradossale dei dazi statunitensi si rivela, quindi, come la scialuppa di salvataggio per una classe politica europea che ha investito nel delirio ambientalista con il Green Deal ed ora ha la possibilità di trovare un capro espiatorio, individuato appunto nell’introduzione dei tassi, per nascondere la propria responsabilità del disastro economico europeo.

    Contemporaneamente nel nostro Paese il governo trova nei dazi il fattore di distrazione di massa, in quanto fino ad oggi non si è dimostrato in grado di rispondere alle 24 flessioni costitutive della produzione industriale con una adeguata politica energetica che ponga le basi per un risveglio economico atteso ormai da due anni.

  • Dichiarazione della Presidente von der Leyen sull’annuncio delle tariffe universali da parte degli Stati Uniti

    Samarcanda, 2 aprile 2025

    L’annuncio da parte del Presidente Trump di tariffe universali nei confronti di tutto il mondo, compresa l’UE, è un duro colpo per l’economia mondiale.

    Sono profondamente rammaricata per questa scelta.

    Dobbiamo essere ben consapevoli delle enormi conseguenze. L’economia mondiale ne soffrirà immensamente.

    L’incertezza aumenterà vertiginosamente e scatenerà ulteriore protezionismo. Le conseguenze saranno gravissime per milioni di persone in tutto il mondo.

    Anche per i paesi più vulnerabili, che sono ora soggetti ad alcuni dei più elevati dazi statunitensi. L’opposto di quanto vogliamo ottenere.

    Le tariffe danneggeranno anche i consumatori di tutto il mondo. Si percepirà subito.

    Per milioni di cittadini la spesa diventerà più cara. I medicinali costeranno di più, come anche i trasporti. L’inflazione aumenterà.

    Tutto questo danneggia soprattutto i cittadini più vulnerabili. Tutte le imprese, grandi e piccole, soffriranno sin dal primo giorno.

    A causa di una maggiore incertezza, della perturbazione delle catene di approvvigionamento e degli oneri burocratici. Intrattenere rapporti commerciali con gli Stati Uniti costerà molto di più.

    Per di più, non si scorge traccia di ordine nel disordine.

    Nessun percorso chiaro nella complessità e nel caos che emergono mentre tutti i partner commerciali statunitensi vengono colpiti.

    Negli ultimi ottant’anni il commercio tra Europa e Stati Uniti ha creato milioni di posti di lavoro. I consumatori sulle due sponde dell’Atlantico hanno beneficiato di prezzi ridotti.

    Le imprese hanno beneficiato di enormi opportunità che hanno portato a una crescita e a una prosperità senza precedenti. Al contempo, sappiamo bene che il sistema commerciale mondiale presenta gravi carenze.

    Concordo con il Presidente Trump sul fatto che altri traggono indebitamente vantaggio dalle regole attuali.

    E sono pronta a sostenere qualsiasi sforzo per rendere il sistema commerciale mondiale adeguato alle realtà dell’economia globale.

    Ma voglio anche essere chiara: il ricorso alle tariffe come primo e ultimo strumento non è la soluzione.

    Questo è il motivo per cui, fin dall’inizio, siamo sempre stati pronti a negoziare con gli Stati Uniti, per eliminare tutti i rimanenti ostacoli al commercio transatlantico.

    Ma allo stesso tempo siamo pronti a reagire.

    Stiamo già completando un primo pacchetto di contromisure in risposta alle tariffe sull’acciaio.

    E ci prepariamo a ulteriori contromisure, per proteggere i nostri interessi e le nostre imprese nel caso in cui i negoziati dovessero fallire.

    Inoltre osserveremo attentamente gli eventuali effetti indiretti delle tariffe, perché non possiamo assorbire l’eccesso di capacità mondiale né accetteremo alcun dumping sul nostro mercato.

    Come europei promuoveremo e difenderemo sempre i nostri interessi e valori. E difenderemo sempre l’Europa.

    Ma c’è un’altra strada.

    Non è troppo tardi per rispondere alle preoccupazioni negoziando.

    Questo è il motivo per cui il nostro Commissario per il Commercio, Maros Šefčovič, è in contatto permanente con i suoi omologhi statunitensi.

    Lavoreremo per ridurre gli ostacoli, non per innalzarli. Vogliamo passare dallo scontro alla negoziazione.

    Infine, vorrei rivolgermi direttamente agli europei. So che molti di voi si sentono delusi dal nostro più vecchio alleato.

    Sì, dobbiamo prepararci all’impatto che tutto questo inevitabilmente avrà. Ma l’Europa possiede tutti i mezzi necessari per superare questa tempesta. La affronteremo tutti uniti.

    Chi sfida uno di noi, ci sfida tutti.

    Faremo fronte comune e ci difenderemo l’un l’altro. La nostra unità è la nostra forza.

    L’Europa ha il più grande mercato unico del mondo – 450 milioni di consumatori – che è il nostro porto sicuro in tempi tumultuosi.

    E l’Europa si schiererà al fianco di coloro che verranno colpiti direttamente.

    Abbiamo già annunciato nuove misure a sostegno dei settori siderurgico e automobilistico. La scorsa settimana abbiamo limitato la quantità di acciaio che può essere importata in Europa senza dazi. Ciò darà più respiro a queste industrie strategiche.

    Avvieremo inoltre dialoghi strategici con il settore siderurgico, automobilistico e farmaceutico.

    E altri ne seguiranno.

    L’Europa è unita a fianco delle nostre imprese, dei nostri lavoratori e di tutti gli europei.

    E continueremo a gettare ponti verso tutti coloro che come noi hanno a cuore un commercio equo e basato su regole come base per una prosperità condivisa.

    Grazie.

  • Trump e debiti Usa

    Un quarto del debito pubblico statunitense, pari circa a 7800 miliardi di euro, ottomilacinquecento in dollari, è, secondo i dati del dipartimento del tesoro americano elaborati nel 2024, detenuto da investitori stranieri.

    Il primo Paese straniero detentore dei debiti USA è il Giappone, seguito da Cina, Regno Unito, Lussemburgo; anche l’Irlanda detiene 374 miliardi di dollari di debito statunitense e pure Belgio e Francia detengono importi analoghi.

    Quanto giocheranno i problemi che i dazi voluti da Donald Trump procureranno su questa situazione del debito pubblico americano detenuto per un quarto proprio dai Paesi che saranno colpiti dai dazi e che di conseguenza subiranno delle ripercussioni negative?

    Il presidente americano che ha intrapreso questa nuova strada con la quale sembra volersi contrapporre a più di mezzo mondo, creando situazioni di grave frizione anche con Paesi storici alleati degli Usa, avrà valutato anche questa situazione e le sue possibili conseguenze?

  • Il commercio con regole comuni rispettate strumento per impedire i conflitti

    Incertezza e volatilità rimangono alte, la politica dei dazi di Trump per ora ha portato solo effetti negativi nelle borse europee ed anche le statunitensi non sono scevre di problemi, mentre, ovviamente, continua a rafforzarsi l’oro, che non è solo un bene rifugio dei singoli ma, da tempo, è acquistato dai fondi sovrani vista l’incertezza sia economica che politica.

    Ha ricominciato a salire l’inflazione e non è da escludere che la diminuzione dei tassi di interesse degli ultimi mesi si trasformi invece in nuovi aumenti.

    Le conseguenze economiche le vedremo nei prossimi giorni e molto dipenderà anche dalla capacità delle imprese europee ed italiane di indirizzarsi su nuovi mercati e di saper rispondere in modo accorto ai dazi americani, certo è che se qualche paese pensa di poter uscire da solo dalla crisi sbaglia.

    La trattativa con gli Stati Uniti può avere successo solo agendo tutti insieme mentre sembra che Trump, per dividere l’Europa, potrebbe provare a stringere accordi con singoli stati.

    Il commercio, con regole comuni rispettate, è uno strumento per impedire guerre e conflitti e portare benessere e sviluppo, per questo proprio in questo momento sarebbe necessario che l’Europa si impegnasse per ottenere una riorganizzazione dell’Organizzazione mondiale del commercio, OMS, che da dopo l’ingresso della Cina ha dimostrato di non essere più all’altezza dei suoi compiti, problema del quale si parla da anni senza concludere.

  • La necessaria crescita culturale per assicurare quella economica

    Ogni delocalizzazione produttiva ha ottenuto la propria motivazione e giustificazione dal confronto tra i vari costi di produzione e quindi dal lavoro nel suo complesso.

    I Paesi fortemente attrattivi traggono la propria forza semplicemente dal minore costo della manodopera (Clup) alla cui definizione concorrono anche un sistema fiscale e legislativo molto lacunoso ed accondiscendente sia in termini di sicurezza del lavoro che delle garanzie relative al prodotto.

    Anche recentemente l’apertura di nuovi stabilimenti nell’Africa settentrionale di una grande multinazionale del settore Automotive ha spinto la stessa azienda a “suggerire” ai propri fornitori di delocalizzare le proprie aziende in modo da offrire ad un costo inferiore, in linea con quelli del paese ospitante, gli stessi prodotti intermedi che concorrono alla realizzazione del bene finale.

    In altre parole, spesso la legittima scelta di delocalizzare ha determinato, nel tessile abbigliamento come in altre settori, l’azzeramento di intere filiere nazionali con ricadute complessive occupazionali devastanti.

    Queste scelte strategiche ancora oggi vengono considerate inevitabili e lasciano assolutamente indifferenti l’intero mondo politico nazionale ed europeo.

    I primi, infatti, continuano ad aumentare gli obblighi burocratici per le aziende e ad aumentare i costi energetici, un fattore decisivo nella valutazione dei costi di produzione nazionali. Una politica energetica rappresenta la base di una qualsiasi politica di sviluppo industriale ed economico e la sua valorizzazione sarebbe in grado anche di attutire l’effetto dei dazi, esattamente come indicato in passato da Enrico Mattei.

    Nel contempo l’Unione Europea continua ad adottare il Green Deal ponendo le basi per l’azzeramento del settore Automotive europeo, al cui confronto gli effetti dei dazi statunitensi saranno minimali (*).

    Troppi, infatti, dimenticano come la quasi totalità dei Suv a marchio tedesco vengano realizzati da decenni negli Stati Uniti in ragione di un sistema di incentivazioni fiscali offerte dalle passate amministrazione americana ed anche per essere più vicini al loro principale mercato di sbocco. In considerazione del fatto, poi, che l’imposizione di dazi sull’import lascia sostanzialmente indifferente la Ford, la quale produce circa l’80% dei propri veicoli all’interno dei confini statunitensi, questo dovrebbe finalmente aprire una riflessione relativa alle condizioni minime di un mercato globale finalizzato alla corretta applicazione del principio di concorrenza.

    Quando in un sistema globale l’unica “concorrenza” avviene sulla base di un confronto dei costi e quindi favorisce semplicemente l’approccio speculativo, emerge evidente come l’applicazione dei dazi rappresenti semplicemente l’estrema ratio per un riequilibrio dei costi anche fiscali in mancanza di un minimo quadro normativo condiviso. A questo poi si aggiunga l’ipocrisia europea la quale dall’imposizione dei dazi sulle importazioni ottiene circa il 14% del risorse finanziarie.

    La politica statunitense adesso impone una rivisitazione delle politiche economiche di sviluppo le quali negli ultimi decenni avevano sposato logiche speculative legate al dumping professionale, fiscale e normativo dei paesi in via di sviluppo. Si dovrebbe finalmente esprimere un approccio culturale più evoluto alle dinamiche economiche rispetto a quello piuttosto infantile, appoggiato anche dal mondo accademico, che ha solo favorito la ricerca del costo minore come magari espressione di un costo inferiore dell’energia elettrica prodotta al 62% dal carbone (Cina).

    Mai come ora la politica statunitense fa emergere il bisogno di un approccio culturalmente superiore nella elaborazione delle strategie governative rispetto a quanto espresso fino ad oggi. Non è più possibile accettare come, in ragione della totale assenza di un quadro normativo condiviso, la concorrenza si confermi come un classico fattore speculativo e non certo di sviluppo economico.

    Quest’ultimo poi non può più venire individuato nella ricerca della massima remunerazione del capitale ma anche nella capacità di assicurare nuovi posti di lavoro qualificati ed equamente retribuiti.

    (*) La tedesca IFW Materials Research Dresden ha calcolato l’effetto dei dazi statunitensi sul PIL tedesco in un -0,2%

  • La scommessa dei dazi americani

    Un eminente analista politico americano non pregiudizialmente ostile a Trump, Stephen Kotkin, dice di lui: “Trump è la quintessenza dell’America…non è un alieno che è atterrato da qualche altro pianeta… riflette qualcosa di profondo e duraturo nella cultura americana. Pensate a tutti i mondi che ha frequentato e che lo hanno innalzato. Wrestling professionistico, reality TV, casinò e gioco d’azzardo non sono più solo a Las Vegas o Atlantic City ma ovunque, incorporati nella vita quotidiana. Cultura della celebrità. I social media. Tutto questo mi sembra l’America. E sì, anche la frode, la menzogna sfacciata e la roba di P. T. Barnum, imbonitore di Carnevale. Questo è un pubblico non piccolo, ed è da dove viene Trump e chi è”. Poco dopo, a scanso di equivoci, aggiunge: “E’ passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo avuto competenza e compassione ai vertici” (Purtroppo, detto per inciso, è successo lo stesso da noi in Europa).

    Tali considerazioni non possono essere dimenticate nel giudicare le sue scelte politiche, sia quelle annunciate sia quelle realizzate, e ciò in aggiunta al fatto che Trump non ha cultura politica e ragiona solo come un imprenditore. In particolare bisogna tenerne conto quando valutiamo la questione dei previsti dazi alle importazioni di merci verso gli Stati Uniti. In questo caso è ancora più evidente l’attitudine di Trump a giocare d’azzardo. Secondo l’interpretazione più accreditata la sua è una scommessa, seppur rischiosa e potenzialmente pericolosa sia per gli USA sia per quel resto del mondo che subirà le nuove tariffe doganali.

    Non si può, comunque, dimenticare che gli USA soffrono oggi di un forte deficit commerciale negli scambi con l’estero e l’obiettivo dichiarato dal Presidente americano è di “trasformare ancora una volta l’America nella superpotenza manifatturiera del mondo”. Attualmente gli scambi con l’estero sono negativi per circa 920 miliardi di dollari, di cui circa 100 con la Germania e 40 con l’Italia (per noi gli USA sono il secondo mercato mondiale dopo la UE e le esportazioni costituiscono il 33,7% del nostro PIL). Interessante è anche sapere che durante il suo primo mandato aveva ereditato un minus di 503 miliardi, cifra che quattro anni dopo era diventata di 626 miliardi nonostante fosse riuscito a ridurre quella con la Cina di ben 39 miliardi. Pure Biden aveva provato a ridurre il deficit mantenendo i dazi imposti da Trump e perfino aggiungendone qualcuno di nuovo ma, anche per lui, il risultato finale fu negativo: le perdite aumentarono addirittura di quasi 300 miliardi. In entrambe le presidenze l’effetto di questo tipo di operazioni ha trascinato l’aumento dell’inflazione interna causata dal maggiore costo dei beni importati. Ciò senza un aumento generalizzato della produzione delle aziende manifatturiere locali.

    L’annuncio e l’applicazione di nuovi e importanti dazi doganali non potrà che coinvolgere un ulteriore aumento dell’inflazione per i consumatori americani e una successiva possibile reazione speculare dei Paesi colpiti da quelle misure. È oggettivamente impossibile che Trump e il suo staff non abbiano calcolato queste probabili conseguenze ma, evidentemente, contano sul fatto che gli USA sono, e restano, il potere economico e militare più grande del mondo e tocca quindi a loro fissare le regole del gioco. Ecco dunque la scommessa: le nuove tariffe doganali americane dovrebbero mettere in ginocchio le economie di tutti i Paesi che vantano un attivo nella loro bilancia commerciale con gli USA. E tale effetto dovrebbe avvenire prima e in modo più pesante di quando e di quanto ne soffriranno i consumatori sul mercato interno a stelle e strisce. A questo punto, le controparti straniere cercherebbero di negoziare in qualche modo e gli americani potrebbero darsi disponibili a rivedere i dazi soltanto in cambio di un riequilibrio degli scambi bilaterali. In altre parole meno dazi se le controparti si impegnano a comprare più prodotti made in USA. Funzionerà oppure no? Chi soffrirà per primo o di più? Per ora, nessuno può rispondere con una verosimile certezza a questa domanda.

    Tuttavia, nelle menti di alcuni degli economisti trumpiani esiste anche un’altra teoria.

    Gli avversari della politica dei dazi (sono tanti anche negli USA) ricordano le conseguenze negative per l’economia interna e internazionale della Smooth-Hawley Tariff Act del 1930. Questa legge aumentò le tariffe doganali su più di 20.000 prodotti importati e contribuì in modo determinante alla crisi cominciata nel ’29. Secondo i sostenitori della nuova politica tariffaria c’è però una differenza fondamentale tra gli USA di allora e quelli di oggi. In quel periodo gli Stati Uniti avevano il più grande surplus commerciale del mondo ed erano la patria dei maggiori esportatori del pianeta. Contemporaneamente, i consumatori interni non erano in grado di assorbire con i loro consumi tutto ciò che le imprese americane producevano. Attualmente la situazione è esattamente il contrario: gli americani investono e consumano molto di più di quanto producono ed hanno oggi il più grande deficit commerciale della loro storia.

    I dazi sono effettivamente una tassa sui consumatori ma, aumentando il prezzo della produzione e di altri beni commerciabili, i dazi fungono implicitamente anche da sussidio per i produttori nazionali. Mentre nel primo caso gli Stati Uniti soffrivano di troppo risparmio e troppo poco consumo e dovevano quindi esportare tutto ciò che potevano nel resto del mondo (esattamente come oggi fa la Cina), oggi avviene il contrario: producono molto meno di quanto consumino. Tassando i consumi attraverso i dazi si sovvenziona così la produzione interna e si reindirizzerà necessariamente una parte della domanda verso l’aumento della quantità di beni e sevizi prodotti in casa. Ciò aumenterebbe il Pil degli Stati Uniti (e anche l’inflazione) con conseguente aumento dell’occupazione, salari più alti e meno debito. Le famiglie americane sarebbero in grado di consumare ancora di più in valori assoluti, anche se il consumo in percentuale del Prodotto Interno Lordo diminuisse.

    Come è ovvio, l’economia non è una scienza esatta (ma esistono le scienze “esatte”?) e, di conseguenza, ogni ipotesi è pura teoria che potrà essere verificata solo con i fatti. Ciò che è indiscutibile resta che l’attuale economia americana, pur essendo la più importante del mondo non è del tutto sana. Secondo la banca Mondiale nel 2023 gli Stati Uniti hanno avuto un PIL di più di 27 mila miliardi di dollari (le esportazioni incidono solo per circa l’11%), la Cina di 18 mila, la Germania 4500, il Giappone 4200 e l’Italia di soli 2200. Nello stesso tempo, tuttavia, il debito sovrano in rapporto al PIL è di ben il 144% e lo squilibrio commerciale resta il più grande del mondo. Non c’è allora da stupirsi che Washington sperimenti qualche tecnica per cercare di rimediare ad una situazione non idilliaca. Se il calcolo degli economisti trumpiani si dimostrerà corretto avrà avuto ragione Trump quando diceva che i consumatori americani dovranno soffrire un poco all’inizio ma poi torneranno a stare bene e perfino meglio di prima. Se invece si sbagliassero e i dazi fossero applicati e mantenuti, le conseguenze economiche negative per i consumatori americani saranno piuttosto pesanti.

    Comunque vada, seppur in misura diversa, tutti i Paesi del mondo ne soffriranno, a partire da quelli che attualmente vivono di esportazioni come Italia e Germania. Soprattutto sarà colpita la Cina a meno che riesca, come sta provando a fare da qualche anno senza risultato, a rilanciare i consumi interni in misura sufficiente da assorbire la locale sovrapproduzione.

  • I dazi in America costeranno due miliardi di euro in più sulla tavola degli amanti del Made in Italy

    Dati Istat dimostrano secondo Coldiretti che un dazio del 25% sulle esportazioni agroalimentari Made in Italy negli Usa potrebbe costare ai consumatori americani fino a 2 miliardi di euro in più, con un sicuro calo rispetto al record fatto segnare nel 2024 dalle esportazioni di cibo Made in Italy negli States, saliti al valore di oltre 7,8 miliardi di euro. Se i dazi dovessero interessare l’intero agroalimentare, il costo stimato per le singole filiere sarebbe di quasi 500 milioni solo per il vino, circa 240 milioni per l’olio d’oliva, 170 milioni per la pasta, 120 milioni per i formaggi.

    Coldiretti ha calcolato che le misure protezionistiche adottate durante la prima presidenza Trump su una serie di prodotti agroalimentari italiani hanno portato a una diminuzione del valore delle esportazioni (confronto annuale tra 2019 e 2020) che è andata dal -15% per la frutta al -28% per le carni e i prodotti ittici lavorati, passando per il -19% dei formaggi e delle confetture e il -20% dei liquori. Ma anche il vino, seppur non inizialmente colpito dalle misure, aveva fatto segnare una battuta d’arresto del 6%.

    “L’imposizione di dazi sulle nostre esportazioni aprirebbe ovviamente uno scenario preoccupante, tanto più in considerazione dell’importanza che il mercato statunitense ha per le nostre produzioni agroalimentari e non solo – rileva il presidente di Coldiretti Ettore Prandini -. Negli Usa l’agroalimentare italiano è cresciuto in valore del 17% contro un calo del 3,6% dell’export generale, confermando ancora una volta che il cibo italiano è un simbolo dell’economia del Paese. Per questo crediamo che debbano essere messe in campo tutte le necessarie azioni diplomatiche per scongiurare una guerra commerciale che danneggerebbe cittadini e imprese europee e americane”.

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