Processo

  • In attesa di giustizia: un verdetto evitabile?

    In Israele è tempo di pesanti contestazioni per la riforma della Giustizia proposta dal Premier Netanyahu e questa settimana, subito dopo la Pasqua, può essere stimolante ed originale trattare proprio del più famoso e controverso processo mai celebrato in Israele, quello a carico di Yehoshua ben Yosef (Gesù figlio di Giuseppe) e della sua condanna a morte: un argomento che costituisce ancor oggi terreno di scontro tra diverse culture.

    Chi fu l’artefice di quella condanna?

    A chi ascrivere il “peso” di una sentenza finale percepita ancora come massimamente ingiusta?

    Non esiste una risposta univoca e gli stessi Evangelisti diversificano molto il giudizio.

    Matteo, giudeo che scriveva per i giudei, non esita a responsabilizzare in modo diretto non solo il Sinedrio ma tutto il popolo ebraico, reo di aver chiesto che si versasse il sangue del Cristo; Giovanni, invece, offre una rilettura di Pilato in chiave quasi assolutoria tramandando la famosa risposta che Gesù gli diede negli ultimi momenti del loro faccia a faccia: “…chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande”.

    La materia è da trattare con grande prudenza, senza dimenticare che un’interpretazione distorta è stata presa a pretesto per la persecuzione di un intero popolo: ma è un ambito in cui le omissioni potrebbero essere esse stesse una colpa.

    Il sistema giudiziario giudaico nel 30/36 d.C. non prevedeva l’esecuzione della pena capitale. O, meglio, il potere di infliggere la pena di morte era riservato alla sola autorità romana, quale forza occupante.

    Conosciamo storicamente l’uso della lapidazione, ma a quei tempi era piuttosto una reazione immediata della gente in caso di flagranza di “delitti religiosi” quali la bestemmia e l’adulterio.

    Gesù, invece, doveva essere innanzitutto processato attesa la mancata flagranza, e l’eventuale condanna capitale non poteva che essere deliberata ed eseguita dall’autorità romana. Su questo non c’è dubbio.

    La richiesta di condanna a morte, tuttavia, giunse – senza un vero e proprio processo – dalla folla che fronteggiava Pilato nel pretorio, chiedendo il rilascio di Barabba e gridando con forza, riferita al Cristo, “crucifige!”.

    Certo, non fu tutta Gerusalemme ma coloro che accolsero il prevedibile invito di Caifa e degli altri notabili del Sinedrio: diversamente non si capirebbe come una intera città che, appena una settimana prima, aveva osannato Gesù mentre percorreva le strade a dorso di mulo gli si fosse rivoltata contro volendolo morto.

    Fatta questa puntualizzazione occorrerà chiedersi se il Governatore romano avrebbe potuto salvare la vita dell’imputato eccellente. In teoria sì, In pratica no.

    Leggendo i Vangeli, si ricava che Pilato tentò sicuramente di “allungare il brodo” (come diremmo oggi). Temporeggiò, trattò, lusingò e l’invio del prigioniero da Erode Antipa fu sicuramente un tentativo di aggirare la caparbietà del Sinedrio. Ma il punto di non ritorno, più che il “crucifige!”, fu costituito dalla frase che la folla gli urlò contro: “Se liberi costui non sei amico di Cesare!”.

    Immaginiamo la situazione: Ponzio Pilato, incaricato dall’imperatore Tiberio (Cesare, appunto) come Autorità Territoriale della Giudea, che viene sostanzialmente minacciato dal popolo di accusarlo per alto tradimento se si ostinerà a difendere un “bestemmiatore” sconosciuto.

    Davanti a tali argomenti e prospettive nulla avrebbe potuto fare Pilato, nulla di diverso da quello che fece.

    Ma Gesù avrebbe potuto veramente salvarsi? La risposta corretta a tale domanda sembra essere negativa.

    Gesù avrebbe potuto salvarsi solo a condizione che “il calice gli fosse passato davanti” senza essere bevuto. Ma quell’amaro calice da bere era il prezzo per il riscatto dell’intera umanità e andava bevuto.

    E questo è, forse, il punto: l’obbedienza di Gesù alla volontà del Padre era un cardine ineludibile. I comportamenti degli uomini furono sicuramente importanti, perché nulla opposero con il loro libero arbitrio, eppure, al contempo, consequenziali segmenti di un piano che trascendeva il loro potere.

    Ognuno tragga le proprie conclusioni sulle responsabilità dei protagonisti che abbiamo ricordato ma, forse, una sola è la certezza: se il verdetto era evitabile, tuttavia Gesù doveva morire.

  • In attesa di Giustizia: E tre!

    Per la terza settimana di fila questa rubrica si occupa di processi per gravissimi disastri in cui sono contestati reati colposi: e cosa ciò significhi, per il profano, si è tentato di spiegarlo con parole semplici proprio nel numero precedente. Questa volta è di scena il giudizio per crollo del Ponte Morandi con la cronaca – ed il commento – di una delle ultime udienze.

    Cronaca che staglia la distanza sempre più profonda che si va creando tra ciò che un processo penale dovrebbe essere, nel rispetto delle regole costituzionali ed ordinarie che lo istituiscono e lo governano, e ciò che si vorrebbe invece che diventi. E’ una cronaca che fa capire quale sia l’unica garanzia rispetto ad una montante deriva illiberale: e cioè l’indipendenza, la libertà morale e l’autorevolezza del Giudice.

    In aula vi è stata tensione altissima ed un durissimo botta e risposta tra la pubblica accusa ed il Tribunale, scaturita da una intemerata del P.M. il quale, azzardando un po’ di calcoli sul numero dei testimoni ancora da esaminare ed il ritmo delle udienze, prevede che l’istruttoria dibattimentale possa concludersi non prima del dicembre 2025, quando “alcuni dei reati più gravi” potrebbero essere già prescritti, sollecitando perciò un aumento del ritmo di celebrazione del processo, cambio di passo: un boccone ghiotto su cui la stampa si  è buttata a pesce, gridando a giustizia negata, alla prescrizione strumento di salvezza dei ricchi e dei potenti, eccetera. Il Presidente del Collegio si limita a giudicare troppo allarmistiche le previsioni del P.M. ma la mattina successiva ritorna sulla questione e definisce quello del PM un “proclama offensivo nei confronti del Tribunale” (che ha sospeso la trattazione di gran parte degli altri processi, per celebrare questo), e tocca il punto, che in questa, come in altre analoghe vicende processuali, viene sistematicamente ignorato. Se si ha a cuore l’aspettativa di una tempestiva risposta giudiziaria ad una simile tragedia “magari bisognava effettuare scelte processuali diverse e non contestare, ad esempio, un milione di falsi che devono essere accertati uno per uno” e conclude: “Se poi in quest’aula c’è qualcuno che ritiene che le sentenze si facciano senza processo, sbaglia”.

    Non può sfuggire il valore di questo accadimento, che va ben oltre la singola vicenda processuale, la quale ha peraltro tutti i crismi della parabola. Gli ingredienti ci sono tutti: processo di enorme impatto mediatico, aspettativa di condanne esemplari, diritti delle vittime dei reati rappresentati come incondizionatamente prevalenti sui diritti di difesa e sulla presunzione di non colpevolezza. Sullo sfondo, la fosca ed un po’ prematura previsione di una prescrizione salvifica. Sono già pronti i forconi, insomma. Ma ecco, diciamoci la verità, inatteso, un Giudice che – pur in un processo ad altissima esposizione mediatica – fa, imperterrito, il Giudice e sposta l’asse di quella lamentela del PM, come sempre occorrerebbe fare ma nessuno mai fa. Cominciamo a ragionare piuttosto – dice – su quanto siano durate le indagini, e se le scelte operate dalla Procura nell’esercizio dell’azione penale abbiano considerato la dimensione e l’impatto dell’accusa anche sui tempi del conseguente processo. Se si individuano 60 imputati e decine e decine di imputazioni, protraendo le indagini per anni, poi non si pretenda che gli imputati non si difendano con tutta la pienezza dei propri diritti. Ma è la seconda affermazione che merita ancora più ammirazione: questo Tribunale non è disposto a pronunciare sentenze senza processo. Nessuno si illuda – sostiene quel Giudice – di fare pressioni indebite, paventando populisticamente scenari drammatici che si vorrebbe addossare, alla fin fine, alla responsabilità del Tribunale da un lato, e del diritto di difesa degli imputati dall’altro. Parole dure che danno la esatta dimensione della solennità di ciò che il Giudice può e deve saper rappresentare nel giudizio penale, della indispensabilità della sua indipendenza da ogni forma di condizionamento, da ogni riflesso conformistico, da ogni sudditanza nei confronti di tutte le parti processuali. Ciò che, peraltro, deriva in termini di disillusone per chi è in attesa di giustizia è quando un accadimento come questo ci appare come una notizia straordinaria, quando invece dovrebbe essere una noiosa e scontata ovvietà. Ma il destino delle parabole è proprio questo: farti comprendere, quasi raccontandoti una favola, l’amara durezza della realtà nella quale ti trovi a vivere.

  • In attesa di Giustizia: la fabbrica della peste

    Bene ma non benissimo: questa volta, invece di affidarsi a spifferi di cancelleria o Questura, la notizia della chiusura delle indagini, nome degli indagati, incolpazioni è stata ufficializzata direttamente dalla Procura della Repubblica di Bergamo prima ancora che venissero effettuate le notifiche a difensori ed accusati. Il riferimento è all’inchiesta per epidemia colposa a causa della mancata istituzione della zona rossa: un’opera investigativa mastodontica che ha fatto incetta di migliaia di documenti, sms, mail e – neanche a dirlo – della corposa  consulenza del virologo di turno, Crisanti naturalmente, il quale ha precisato che il suo intento non era quello di formulare un atto di accusa ma restituire la verità agli italiani: evidentemente dispone anche di una sfera di cristallo tramite la quale ha divinato il numero di morti, precise al decimale, che si sarebbero potute evitare  applicando le restrizioni.

    Anche dalla Procura orobica si levano voci e considerazioni circa l’esigenza di soddisfare la “sete di verità” che con un processo penale ha poco a che vedere: il Capo dell’Ufficio per primo ha affermato “noi non accusiamo nessuno (e due!) ma offriamo uno spunto di riflessione”; bizzarro, e noi che credevamo che le Procure avessero come compito quello di perseguire  i reati e non di far meditare quel popolo italiano nel cui nome viene amministrata la giustizia e neppure di valutare scelte politiche, districandosi tra competenze comunali, regionali e governative confusamente accavallatesi di fronte ad un “nemico” sconosciuto ed apparentemente invincibile: un’analisi che competerà alla istituenda Commissione d’Inchiesta Parlamentare…se mai verrà istituita.

    La sensazione è che la montagna (di atti d’indagine) partorirà un topolino (in termini di risultato sotto il profilo della rimproverabilità penale) ma nel frattempo una prima risposta – per quanto ondivaga – c’è stata per mano dei pubblici dispensatori di sicurezza e giustizia e l’immagine del processo esemplare trasmessa a reti unificate.

    Gli indomiti paladini della legge, a prescindere da quali responsabilità verranno mai accertate, se mai lo saranno, hanno dalla loro un precedente lombardo cui – forse – si sono ispirati per saziare quella ribadita aspettativa di verità dei cittadini: gli untori ed il processo che portò al supplizio Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza.

    Ecco, sì, gli untori: tipologia di uomini partoriti dalla irrefrenabile voglia di individuare un bersaglio in carne ed ossa grazie anche al contributo delle bizzarre teorie di dotti e benpensanti del 1630 (e qui, la similitudine si rafforza con gli accadimenti ed i protagonisti dei giorni nostri). Serve sempre un colpevole, giustiziato il quale un traballante equilibrio sociale va a ricomporsi sul principio “occhio per occhio, dente per dente”.

    Gli untori del XXI secolo sono, però, più sofisticati e tecnologicamente avanzati: forse si annidavano originariamente nei sotterranei di qualche segretissimo laboratorio dedicato allo studio dei virus per impiego bellico ed i loro complici involontari sono politici imbelli ed incapaci, ma la tendenza di vedere negli uomini le tracce di una malvagità da estirpare è sempre formidabilmente radicata non meno  dell’aspettativa di una giustizia da realizzare a furor di popolo, nella post moderna erezione di una colonna infame questa volta stampata sulle pagine di una avviso di conclusione delle indagini invece che iscritta nella epigrafe “lungi, adunque, da qui buoni cittadini, chè  voi l’infelice, infame suolo, non contamini”.

    Tuttavia, quando il furore entra nelle aule di Tribunale per rispondere ad una salvifica missione, con il vento in poppa del senso comune, l’errore è dietro l’angolo ed è da scongiurare avendo come monito proprio quella colonna, rimossa nel 1778, che un simbolo lo è diventata ma di segno opposto: quello della giustizia ingiusta.

  • In attesa di Giustizia: le settimane della indignazione

    La presunzione di innocenza è un concetto che, canonizzato in Costituzione prima ancora che inserito in una direttiva della UE ed in successivo decreto legislativo che la recepisce, fatica a radicarsi nella opinione pubblica; la settimana scorsa l’indignazione è stata provocata dall’esito del processo “Ruby ter”, di cui questa rubrica si è interessata, questa volta tocca a quello che vedeva numerosi imputati per il crollo di un albergo a Rigopiano: cinque condanne – a pene piuttosto miti – e venticinque assoluzioni.

    La rabbia ed il dolore dei parenti delle vittime è stato umanamente comprensibile, meno lo sfogo del Ministro Salvini: “29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è giustizia, questa è una vergogna. Tutta la mia vicinanza e la mia solidarietà ai famigliari delle vittime innocenti”.

    Diversamente dalle esternazioni, anche molto dure, dei famigliari, quelle di un Ministro della Repubblica pesano in ben altro modo e chi le ascolta pensa che se un Ministro ragiona così, così staranno le cose: una vergogna, un’attesa di giustizia vanificata.

    Deve premettersi che chi cura questa pagina di questo processo non sa nulla ma altrettanto deve supporsi di Matteo Salvini: tant’è che alla vicenda giudiziaria in sé non verrà fatto neppure un accenno ma la esecrazione “al buio” merita qualche spunto critico, partendo proprio da quello che dei processi non si deve, comunque, parlare senza averne letto una sola pagina del fascicolo. E questo, sì, è inaccettabile.

    Dunque, se si volesse distillare un corollario dallo sdegno di Salvini e da quello – assai più frequente in casi simili – di Marco Travaglio, bisognerebbe dedurne che maggiore è il numero dei condannati, maggiore è la garanzia che giustizia è stata fatta. Al contrario, ad un più elevato numero degli assolti corrisponde la vergogna per la Giustizia; il che ne sottende un concetto più simile alla sua valorizzazione statistica che al riconoscimento della Giustizia stessa come categoria dello spirito comportante vincoli etici e valori inderogabili.

    Un concetto diffuso è che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, e la condanna il suo trionfo ma sarebbe preferibile che rimanesse confinato, se proprio deve, nei bar, già meno sui social o – peggio ancora – nei talk-show televisivi.

    Il processo serve proprio a questo: a verificare se un’accusa sia fondata o meno e capita, certo capita, che ve ne siano anche di insostenibili in giudizio, un colpevole a tutti i costi non è ciò che ci si aspetta dalla giustizia, non quella che conosciamo (o vorremmo conoscere) noi, l’alternativa è il ritorno alle ordalie, al Giudizio di Dio.

    Si discute, poi, molto della necessaria terzietà del Giudice, della sua indipendenza rispetto al Pubblico Ministero (ed anche questo è un precetto costituzionale) ma, a seguire certi ragionamenti, il buon giudice sarebbe solo colui che si allinea alla Pubblica Accusa: allora il processo non serve, ne tenga conto anche il Ministro delle infrastrutture che vive personalmente l’angoscia di un processo a suo carico: sarà una vergogna qualora venga assolto, oltretutto per la seconda volta di fila?

    A noi, a quelli che hanno qualche lustro di vita vissuta in aule che consideriamo sacre (fino a prova contraria…), hanno insegnato che le sentenze non si commentano: se non si condividono, si appellano e dei processi di cui nulla si conosce nel dettaglio non si parla, altrimenti sono solo parole al vento.

  • In attesa di Giustizia: uomini sull’orlo di una crisi di nervi

    Settimana di tregenda, quella appena trascorsa, per Marco Travaglio: al processo Ruby ter sono stati assolti tutti, ma proprio tutti, gli imputati e non solo Silvio Berlusconi.

    Ma com’è possibile, nessun colpevole? Il Direttore de Il Fatto Quotidiano ci aveva sperato fino all’ultimo ed in un articolo dal  titolo velatamente irrispettoso delle coimputate (“il governo assolve B. anche per Puttanopoli) non aveva mancato di manifestare il suo sdegno per la scelta di Giorgia Meloni di revocare la costituzione di parte civile in quel processo: cioè di rinunciare a far concludere l’Avvocatura di Stato richiedendo la condanna dell’ex Premier ed un risarcimento dei danni milionario.

    Scelta ragionevole, invece, perché l’esito degli altri due filoni del processo, già conclusi in altre sedi giudiziarie, sconsigliavano l’insistenza; e così è stato anche anche a Milano, un tempo roccaforte della resistenza anti berlusconiana: dopo solo due ore di camera di consiglio, il Tribunale ha emesso una decisione ampiamente liberatoria. Ma la ragionevolezza, si sa, non è virtù coltivata da Travaglio.

    Fortunatamente, nella redazione del House organ delle Procure sono disponibili dei defribillatori perché questa volta il nostro, al sopraggiungere della ferale notizia, ci stava lasciando le penne: salvato in extremis – pare – anche da una telefonata di conforto di Davigo che gli ha ricordato che in questo Paese non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca, sebbene sull’orlo di una nuova crisi di nervi, ha commentato compostamente: “E’ la comica finale”, facendo seguire un “pezzo” dedicato a Marco Tremolada (prossimo a subire l’incitazione “dagli all’untore”), Presidente della Sezione del Tribunale che aveva pronunciato quell’obbrobrio scoprendo con sgomento che era lo stesso che si era permesso di assolvere anche tutti gli imputati del processo ENI – Nigeria solo perché il P.M. Fabio De Pasquale aveva – lui sì – taroccato le prove a carico degli accusati. Ma questi sono dettagli, anche se De Pasquale è a giudizio per questa ragazzata. Al Fatto Quotidiano si sentono, ormai, circondati anche perché le truppe pentastellate di cui godeva il sostegno sono in rotta come l’esercito austriaco descritto da Armando Diaz nel bollettino della vittoria e da via Arenula il Ministro Carlo Nordio chiarisce che l’Italia non è un Paese in mano ai P.M..

    Sulla conclusone del processo “Ruby ter” è opportuno fare chiarezza con il contributo di un alto magistrato.

    Non tutti sanno che in base ad una risoluzione del C.S.M. del 2018, ai fini di una corretta comunicazione istituzionale, i capi degli Uffici Giudiziari possono emanare delle note esplicative in merito a determinate decisioni di rilevante interesse: il Presidente del Tribunale di Milano ha ritenuto opportuno redigerne una proprio a margine della sentenza in questione pur precisando che l’illustrazione completa delle ragioni condivise dai tre giudicanti è riservata alla motivazione che sarà successivamente depositata.

    In estrema sintesi, la nota del Presidente chiarisce che in questo caso non si configura la corruzione di testimoni (l’assoluzione, infatti, è stata “perché il fatto non sussiste”) in quanto le ragazze che si dice Berlusconi abbia pagato per mentire all’Autorità Giudiziaria, non lo sono mai state perché dovevano essere, invece, indagate (come poi è successo) fin dall’inizio.

    Elementare Watson? Sì: parliamo di un processo nato morto, il che sarebbe stato chiaro  persino per uno studente del terzo anno di giurisprudenza ma non per certi Pubblici Ministeri, naturalmente non per la redazione de Il Fatto Quotidiano, giornale preferibilmente da destinarsi all’accensione di stufe ed altri  impieghi meno nobili piuttosto che a ricevere una corretta informazione.

    Quanto all’attesa di giustizia, mai disperare: come dimostra il “Ruby ter” in un Paese del G7, per vederla trionfare, può essere sufficiente meno di una mezza dozzina di anni.

  • In attesa di Giustizia: il diritto è l’arte di ciò che è buono e giusto

    Tradotta dal latino jus est ars boni et aequi, questa espressione denota  l’aspirazione del diritto verso valori morali ed etici che nel diritto romano venivano sintetizzati anche con la locuzione honeste vivere alterum non laedere, suum cuiqe tribuere che troviamo scolpita in bassorilievo anche sul frontone del Palazzo di Giustizia di Milano: proprio uno dei luoghi meno adatti, ma non il solo del tutto inidoneo. La nostra rubrica, dal canto suo, può considerarsi una sorta di galleria degli orrori che settimanalmente avviliscono le esortazioni che provengono dalla saggezza dei latini, talvolta con più di un esempio. Questa volta sono due.

    Il primo si ricollega al tema delle inchieste nei confronti della Juventus, già condannata ad una pena illegale in quanto non prevista dall’ordinamento sportivo per il tipo di illecito contestato.

    Sul versante della giustizia ordinaria, Ciro Santoriello – che è il P.M. cui è affidata l’indagine “Prisma” relativa alle plusvalenze in cui hanno avuto largo impiego le intercettazioni  –  è diventato  “vittima” proprio della registrazione di un’intervista resa a margine di un convegno del 2019 in cui il magistrato parlava del calcio e delle sue storture bilancistiche. In quella occasione, Santoriello affermò di essere tifosissimo del Napoli aggiungendo che da Pubblico Ministero era contrario ai ladrocini e perciò  antijuventino e di odiare la squadra bianconera. Vabbè…una boutade tra il serio ed il faceto, che appena è riemersa è stata rapidamente strumentalizzata dai trasformisti della informazione decontestualizzandole.

    Ciro Santoriello, però, è un P.M. di grande spessore ed esperienza e quelle frasi avrebbe, forse, dovuto evitarsele a prescindere dal fatto che venivano pronunciate dialogando con un avvocato tifoso interista e dalla indisponibilità di una sfera di cristallo in cui leggere che – anni dopo – avrebbe indagato il top management della Juve per falsità nei bilanci. Oggi, una battuta infelice gli si ritorce contro appannando l’immagine di chi, sebbene parte processuale e non giudice, dovrebbe apparire in qualche misura super partes e la cui professionalità deve risultare immune dal sospetto che possa esservi differenza tra un’indagine puntigliosa e l’accanimento.

    Senza strepito mediatico, però, in questi ultimi giorni è successo di molto ma molto peggio: abbiamo un avvocato di Roma in ospedale dal 31 di gennaio per essere operato  per un cancro in metastasi, non per farsi la blefaroplastica e sembrare più carino, e abbiamo un’udienza a Genova cui l’avvocato avrebbe dovuto partecipare se non fosse stato ancora ricoverato, in convalescenza per quella sciocchezzuola.

    L’avvocato fa spedire ad un Collega amico e fidato il certificato del reparto di chirurgia, affinchè chieda un rinvio per legittimo impedimento, pur senza inviare  una preventiva istanza (comprensibile in quello stato con cui si affronta un cimento simile) ma l‘operazione, la patologia ed il resto, erano sul certificato.

    Il Tribunale rigetta la richiesta e procede a sentire dei testimoni con la partecipazione di un avvocato che  poco o nulla sa della causa e – bontà sua – rinvia per la discussione.

    Secondo questo sensibilissimo giudicante l’avvocato avrebbe dovuto segnalare il problema  due settimane prima, per  fare le contro-citazioni ed evitare ai testi l’incomodo di presentarsi in tribunale: magari venivano dalla parte opposta della città, forse addirittura da Camogli. Tutto  questo anche se dell’operazione si era avuta certezza nemmeno dieci giorni prima.

    Eh! ma erano venuti i testi… e per il tribunale (le minuscole sono tutte volute), un cancro metastatizzato, da solo non basta, nemmeno se documentato. Vergogna, ammesso che sia un turbamento possibile per certi soggetti.

    Di fronte ad esempi  come questi – e la rubrica ne offre più di quanti vorrebbe e meno di quanti potrebbe – si affievolisce la speranza di avere un giudice equanime e distaccato, al di sopra delle parti, sensibile solo alla delicatezza del ministero che gli è affidato e sereno di fronte al tormento del giudizio mentre il popolo italiano, quello nel cui nome viene esercitata la giustizia, assiste abbacinato solo dal fascino mediatico di chi si pone come un pubblico vendicatore.

  • In attesa di Giustizia: facciamo chiarezza

    Ormai da settimane gli indignati in servizio permanente effettivo, affiancati da pseudo giuristi in mala fede e dai ben informati tramite Google sproloquiano in materia di intercettazioni censurando ogni parola spesa sull’argomento dal Ministro della Giustizia: sia chiaro da subito che non è consentito a tutti di parlare di qualsiasi argomento. C’è un limite naturale, che è dato dalla complessità della discussione e non c’entra nulla la libera espressione del pensiero: a Bonafede, per esempio, dovrebbe essere permesso commentare, tutt’al più, l’almanacco di Topolino ma, per fortuna, sembra sparito dal proscenio.

    Quello delle intercettazioni telefoniche è un tema delicatissimo sul quale occorre evitare infuocati rodei in tv, sui media e sui social. Proviamo, invece, a mettere ordine per una corretta informazione.

    Partiamo dalla Costituzione, articolo 15: la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. Per limitare quel diritto fondamentale occorre un atto motivato dell’autorità giudiziaria nel rispetto delle “garanzie stabilite dalla legge”. Queste ultime, proprio perchè derogano ad un canone costituzionale, non potrebbero mai essere governate dal principio di utilità. Certo che ascoltare persone sospette di commettere reati torna utile agli investigatori; ma poiché questo interesse confligge con un diritto di rango costituzionale dovrà necessariamente essere assistito da una tutela affievolita rispetto al primo. I tifosi della sicurezza – che è cosa diversa dalla giustizia, e qui si parla di giustizia – vista come interesse primario occorre se ne facciano una ragione, fino a quando si intenderà rispettare il patto costitutivo della nostra società.

    Le intercettazioni possono essere autorizzate solo durante le indagini per alcuni reati, considerati di maggiore allarme sociale e solo quando già sussistano “gravi indizi” (non il mero sospetto) che quei reati siano in fase di commissione o siano stati commessi; hanno una durata limitata nel tempo ed eventuali  proroghe devono essere motivate; gli esiti degli ascolti sono inutilizzabili se non pertinenti e rilevanti. Quanto alle cosiddette ambientali, le “cimici” non possono essere piazzate in luoghi di privata dimora, se non vi è fondato motivo di ritenere che proprio in quei luoghi si stia svolgendo un’attività criminosa con  eccezione per alcuni gravissimi delitti, principalmente di  criminalità mafiosa. Quanto poi al c.d. trojan, che trasforma il cellulare in un microfono, così da rendere impossibile predeterminare in quali luoghi esso intercetterà, questa micidiale intrusione, ancora una volta, potrà riguardare solo reati di eccezionale gravità.

    La domanda che sorge spontanea è se queste regole sono effettivamente rispettate e la risposta è negativa: essenzialmente per la scarsa indipendenza e terzietà del giudice delle indagini preliminari, che tende ad assecondare acriticamente la richiesta del P.M., soprattutto delle Procure forti politicamente e mediaticamente (i dati sulle percentuali di rigetto delle richieste dei PM sono, ad oggi, un segreto inviolabile); vi è, poi, una costante deriva all’uso indebito delle intercettazioni “a strascico”, quelle che vanno oltre l’ambito autorizzativo del giudice; vi è anche un uso disinvolto della nozione di “rilevanza” della conversazione. Per non farsi mancare nulla ecco, infine, la furia giustizialista del legislatore che ha esteso smisuratamente il catalogo dei reati per i quali è consentita la captazione e l’uso del trojan. Dunque, un quadro che necessita interventi mirati a restituire questo strumento investigativo ai confini della sua eccezionalità, sanzionando efficacemente la pubblicazione delle intercettazioni, almeno nella fase delle indagini. Si tratta di proposte che, diversamente non sono avanzate da fiancheggiatori della criminalità ma appartengono ad ampi strati del pensiero giuridico liberale e democratico, anche nella magistratura. Se i polemisti di accatto leggessero, insieme alla migliore dottrina processual-penalistica, qualche recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione o qualche altrettanto recente intervento di magistrati come Nello Rossi o Alberto Cisterna, la discussione potrebbe prendere la piega giusta. Il fatto è che, oltre a leggere quegli scritti -cosa che già non fanno- dovrebbero poi anche comprenderli. E qui l’impresa diventa disperata.

  • In attesa di Giustizia: mani pulite in salsa belga

    Non è vero che mettiamo in carcere gli indagati per farli confessare, è vero – però – che li scarceriamo quando confessano”. Così parlò, ai tempi di Mani Pulite, il Procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli.

    Ebbene, gli obbrobri e le forzature della legge nella gestione di quella indagine (che, forse, sarebbe più corretto denominare “mani ammanettate”), di cui scontiamo tutt’ora le conseguenze, sembrano aver trovato degli emulatori esteri.

    O, forse, sarà  in ossequio ai principi che regolano i rapporti tra le diverse Autorità Giudiziarie dell’UE, basati sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni che trova il suo fondamento nella reciproca fiducia che ogni Stato dell’Unione può riporre nella legislazione degli altri partner: fatto sta che Pubblici Ministeri e Giudici Istruttori belgi stanno dimostrando di avere imparato la lezione di Davigo e Di Pietro;  ovvero, se preferite, di Alberto Sordi nei panni del magistrato Annibale Salvemini nel predittivo film “Tutti dentro” del 1984, che oggi  fa amaramente sorridere.

    Stiamo parlando, ovviamente, dell’inchiesta soprannominata “Qatargate” della quale molto si parla e molto altro si ignora o – comunque – è blandamente evidenziato dalle cronache.

    Sappiamo, per esempio, che l’ex europarlamentare Antonio Panzeri ha scelto di confessare (anche, presunte, altrui malefatte: altrimenti la confessione vale poco…) e ciò gli vale un liberatorio patteggiamento alla pena di un anno, che nemmeno sconterà, per reati che in Italia ne valgono una decina malcontati e – questo sì –  la confisca di una considerevole somma di denaro…magari una quota sacrificabile del totale.

    Sembrerebbe, dunque, che la lectio magistralis impartita dal Procuratore di Milano negli anni ’90, richiamata all’inizio, sia stata seguita con la dovuta attenzione, soprattutto per quello che andremo subito ad illustrare.

    Tra le cose di cui si tratta meno, infatti, c’è che alla ex vice presidente dell’Europarlamento Eva Kaili dopo ben ventotto giorni di detenzione è stato consentito di trascorrere un paio d’ore con la figlioletta di soli venti mesi (il cui padre, pure, è detenuto), rigorosamente in carcere neanche fosse una madre che debba rispondere di avere trucidato il fratellino o che vi sia il fondato sospetto che la bimba sia una pericolosa complice da istruire per inquinare le prove.

    La netta sensazione è che – insieme alla privazione della libertà – sia questo un metodo per effettuare pressioni e conquistare l’agognata ammissione di responsabilità…possibilmente condita da qualche accusa nei confronti di altri compartecipi.

    Il termine da utilizzare, di fronte a ciò è uno solo: vergogna. Allora, tanto valeva rinchiudere questa indagata in una vergine Norimberga o strapparle le unghie per vedere se confessava invece di paludarsi da Stato di diritto quando dello Stato di diritto vengono ignorate o infrante regole fondamentali; allora è fuor di luogo puntare l’indice proprio contro il Qatar perché laggiù non vi sarebbe rispetto dei diritti umani.

    Ebbene, sì: par proprio che una identità culturale ed una tradizione giuridica comune tra Italia e Belgio si possano riconoscere traendo spunto da un caso come questo.

    Questa è l’Europa dalle comuni radici cristiane, dell’agognato ravvicinamento dei sistemi penali dei Paesi Membri, la Mani Pulite in salsa belga.

  • Il 23 febbraio la decisione sugli anni di carcere per Weinstein

    Harvey Weinstein dovrà ancora aspettare settimane per conoscere la sua sentenza. La giudice Lisa Lench della Superior Court di Los Angeles ha rinviato al 23 febbraio la decisione sull’ammontare della pena che l’ex ‘re di Hollywood’ dovrà scontare dietro le sbarre per aver aggredito e stuprato una ex modella nel febbraio 2013, ai margini del festival Los Angeles Italia.

    La Lench ha rinviato la sentenza per dar tempo ai legali di Weinstein di presentare una mozione per la revisione del processo. La procura a sua volta deve ancora decidere se tornare alla carica con le accuse di due delle quattro donne al centro della vertenza su cui la giuria non è riuscita a trovare un accordo: una di queste è la produttrice Jennifer Siebel, moglie del governatore della California Gavin Newson.

    Weinstein, 70 anni, è stato portato in aula in sedia a rotelle, addosso la tuta della prigione, e non l’abito giacca e cravatta che aveva ottenuto di indossare durante il processo. L’ex produttore di ‘Shakespeare in Love’ era stato riconosciuto colpevole il 19 dicembre nel secondo processo dell’era #MeToo che lo riguarda: demiurgo, per averli prodotti o distribuiti, di film che hanno vinto 81 premi Oscar, l’ex capo della Miramax rischia un massimo di altri 18 anni, oltre i 23 a cui era stato condannato per vicende analoghe a New York nel 2020.

    La pena decisa a Los Angeles è ritenuta cruciale, perché assicurerebbe che il 70enne ex re di Hollywood resti in carcere nel caso di un ribaltamento in appello della sentenza del processo di New York. Quattro donne avevano stavolta accusato Weinstein di molestie e stupri: la giuria lo aveva riconosciuto colpevole solo per quelle di una ex modella europea che aveva testimoniato anonimamente come ‘Jane Doe 1’. L’ex produttore era stato assolto dalle accuse di un’altra donna, mentre i giurati non erano riusciti a trovare accordo sulle accuse delle altre due, né sulle circostanze aggravanti che avrebbero alzato a un massimo di 24 il numero di anni della sentenza losangelina.

  • In attesa di Giustizia: non scrutate nell’abisso

    Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo un abisso anche l’abisso scruterà dentro di te. Così scriveva Friedrich Nietzsche nel saggio filosofico “Al di là del bene e del male”

    E’ quello che deve  essere accaduto alla Ministra Marta Cartabia ed ai componenti delle sue Commissioni di studio quando hanno riguardato  – di necessità virtù – il sistema giudiziario italiano ponendovi mano per riformarlo: dallo sprofondo in cui giaceva (e giace tutt’ora)  uno stregonesco maleficio deve avere infettato le menti degli estensori della riforma lasciando inascoltate le voci di studiosi del processo del rango di Paolo Ferrua e Giorgio Spangher – solo per citarne un paio – che hanno da subito ammonito sulla necessità di più che un ripensamento.

    Niente da fare: avanti tutta con due progetti, perché si è intervenuti sia sul processo penale che su quello civile, destinati più che ad un banale fallimento ad accelerare il decesso e la decomposizione di un apparato disfunzionale ed agonizzante da decenni.

    La corsa era contro il tempo per il conseguimento entro fine anno dei fondi del PNRR di cui le esauste casse dello Stato hanno costantemente un bisogno estremo: e allora poco importa se gli Uffici Giudiziari hanno strutture inadeguate ad affrontare le novità, meno ancora se queste ultime presentano profili di autentica schizofrenia come nel caso della pezza messa all’obbrobrio della riforma della prescrizione sostanziale, voluta da quei raffinato giurista che risponde al nome di Alfonso Bonafede, che non è stata abrogata ma continuerà a convivere, almeno per un po’, con quella processuale.

    E non è tutto: da quest’anno avremo anche pene semi detentive per scontare le quali mancano le apposite sezioni penitenziarie e per realizzare le quali – come al solito – non ci sono né i soldi né il tempo.

    Il processo di appello è diventato (nelle ridotte ipotesi in cui si potrà celebrare) una burletta ma in compenso ed in molti casi, anche per reati di un certo rilievo, non avrà luogo neppure ad un giudizio essendo state cambiate alcune regole perché l’azione penale possa essere avviata. Il tutto, rigorosamente, senza la predisposizione di norme transitorie.

    Ah, già: le norme transitorie. Un tempo si diceva che la loro redazione fosse riservata ai giuristi migliori perché regolare il diritto intertemporale  non è  affar semplice dovendosi  bilanciare esigenze e garanzie tra un regime pregresso ed uno innovativo senza creare pregiudizi ai cittadini: ebbene, nella riforma “Cartabia” o non vi sono o sono semplicemente incomprensibili e già oggi, ad una settimana dalla entrata in vigore e tanto per fare un solo esempio, ci si confronta con il desolato stupore di cancellieri che non sanno se devono ricevere un atto manualmente o se deve essere spedito via pec.

    L’elenco potrebbe essere lungo ed i dettagli dello scempio difficili da illustrare perché a volte anche il giurista si interroga se stia leggendo un testo di legge o un numero speciale della Settimana Enigmistica.

    Questo, in sintesi, è quanto è riuscito a partorire in tema di giustizia il cosiddetto Governo dei Migliori: figuriamoci se fossero stati anche solo modesti e non i peggiori.

    Complimenti vivissimi, infine, anche alla Commissione Europea che, dopo qualche iniziale e timida critica al progetto di riforma, gli ha dato in ogni caso il via libera invece che affossarlo; salvo, poi, nella relazione annuale 2022 sullo Stato di diritto e nel capitolo dedicato all’Italia esprimere critiche durissime affermando che con perle normative di questo tipo si mette a rischio l’effettività stessa del sistema giudiziario.

    Nel frattempo, però, è stato tagliato il traguardo di fine anno vittoriosamente conquistando il premio in fondi europei ed  il futuro della giustizia è già iniziato presentandosi a mani vuote.

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