Processo

  • In attesa di Giustizia: delitti contro la pietà dei defunti

    Il nostro Codice Penale prevede la categoria dei delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti: datato agli anni ’30 del secolo scorso, è stato aggiornato estendendo la tutela da quella che – secondo lo Statuto Albertino – era la religione di Stato a tutte le confessioni e ne meriterebbe una sanzionando chi, in occasione di eventi luttuosi, invece di mantenere un decoroso silenzio, apra la bocca togliendo ogni dubbio sul fatto di avere un Q.I. inferiore al numero di scarpe indossate o una malafede congenita.

    Gli esempi non mancano mai ed anche questa settimana si fatica a selezionare il peggio; il gradino più alto del podio spetta ai protagonisti del tragico incidente di Casal Palocco, costato la vita ad un bimbo: i genitori degli youtubers (ma che ca…spita di lavoro sarà mai?!) dicono che è stata una bravata e si risolverà tutto per il meglio. Ditelo ai genitori ed alla sorellina del piccolo Manuel. Vogliamo parlare degli idioti a bordo del SUV che continuavano a filmare, senza una lacrima, anche l’intervento dei mezzi di soccorso per aumentare il numero dei followers (anche questi…) e del concessionario che si condoleva per la Lamborghini sfasciata precisando che lui, però, non c’entra niente? Gran finale con il difensore: “la Lamborghini aveva la precedenza”. Gioco, partita, incontro: con pezzenti morali di questo livello non c’è gara.

    Passiamo alla nobiltà della editoria, Il Corriere della Sera ha dato spazio ad una delle sue firme più prestigiose, Luigi Ferrarella, che da sempre si occupa di cronaca giudiziaria, per spiegare che Silvio Berlusconi non è stato affatto un perseguitato dalla giustizia perché non era una brava persona, diligentemente enumerando i processi (non molti tra gli oltre trenta in cui è stato coinvolto) in cui si è avvantaggiato della prescrizione, dimenticando che i rinvii delle udienze per legittimo impedimento ne interrompono il corso e solo l’inerzia, l’inefficienza, l’incuria degli uffici giudiziari ne è causa. Grande enfasi, invece, all’unica condanna riportata, quella per reati fiscali su cui gravano tutt’ora consistenti ombre. Medaglia d’argento.

    Bronzo per gli haters del Cavaliere sbizzarritisi sui social media a pari merito con i grevi vignettisti de Il Fatto Quotidiano, Charlie Hebdo e compagnia assortita: la satira è un’altra cosa.

    Offre, invece sollievo, quanto dichiarato in un’intervista al Foglio da Renato Bricchetti, Magistrato e giurista di altissimo profilo, ora in pensione: “La parola accanimento non mi piace, ma una particolare attenzione politico-giudiziaria verso Berlusconi da parte della magistratura indubbiamente c’è stata”. Alla domanda se Berlusconi abbia fatto parte della storia della giustizia italiana ha, in seguito, risposto: “Bisogna chiedersi se più che farla l’ha subita”.

    “Personalmente – ha aggiunto – sono rimasto molto perplesso, dal punto di vista giuridico, sulla condanna per frode fiscale”. E’ stata l’unica condanna subita da Berlusconi, che è stato imputato in trentasei procedimenti penali”. Renato Bricchetti ha anche precisato che nella sua carriera ha visto solo i truffatori seriali oggetto di tanta attenzione e numero di processi perché fanno tante truffe e quando finalmente vengono giudicati da un Tribunale cambiano zona e vanno a farle in un altro territorio”.

    Proseguendo, ha anche rimarcato che la giustizia, in Italia, non sono i processi ma le indagini: questa è l’immagine della giustizia che ha il cittadino medio e l’indagine determina la condanna all’ignominia. Infatti Berlusconi è stato condannato più volte dall’opinione pubblica. Bricchetti ha, infine ricordato che nel 1994, il giorno dopo che Berlusconi vinse le elezioni, in tribunale vide facce da funerale: era evidentemente un giudizio politico che molti magistrati danno. Pochi mesi dopo la Procura di Milano fece recapitare a Berlusconi il famoso invito a comparire, non senza preavvisare il Corriere della Sera, in aperta violazione del segreto istruttorio.

    L’intervista si conclude con questa amara riflessione: “Io ho sempre sperato che l’ANM si occupasse dei problemi reali della giustizia, soprattutto delle carenze di organico, non della politica giudiziaria o addirittura della politica tout court, ma le mie speranze sono sempre andate deluse”.  E se lo dice lui dopo quarant’anni di magistratura, noi possiamo restare a lungo in attesa di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: avanti arditi!

    L’omicidio di Giulia Tramontano è stato raccontato sui media in ogni minimo particolare: gli inquirenti sono apparsi a reti unificate nelle trasmissioni di prima serata, dopo aver convocato una conferenza stampa.

    Spopolano la confessione dell’indagato, l’interrogatorio, le modalità dell’azione omicidiaria, i frames dei video catturati dalle telecamere di sorveglianza, i primi dettagli emersi dall’autopsia e c’è una corsa frenetica alle interviste: la madre di Impagnatiello, i genitori dei suoi amici, prima ancora dei parenti della vittima, con domande che, per la banalità, superano persino quelle fatte in passato ai terremotati davanti al crollo della propria abitazione.

    Tutto ciò, come sempre capita, ha prodotto una deflagrazione di odio totale invocando feroce e sommaria giustizia per l’autore di questo atroce delitto; dai bar ai social, si invoca la pena di morte: deve bruciare all’inferno prima ancora di affrontare il processo e si critica aspramente il gip di Milano che ha avuto il torto di applicare la legge escludendo (per ora) l’aggravante della premeditazione. Offese e minacce si sprecano nei confronti di chi oserà difendere un “personaggio simile” anziché vergognarsene.

    Pazienza finchè il dibattito rimane nel perimetro di Tik Tok o Instagram miscelato tra la preoccupazione per la presunta crisi coniugale del Ferragnez ed il sollievo per l’affidamento condiviso dei Rolex tra il Pupone e Hilary Blasi, ma quando interviene un magistrato, già componente del C.S.M., e straparla, qualche riflessione si impone.

    Il riferimento è a Sebastiano Ardita, ex sodale di Piercamillo Davigo, al quale – se fosse possibile – dovrebbe essere revocata la laurea in giurisprudenza e con essa la funzione giurisdizionale con un’alternativa sulle ragioni: crassa ignoranza o malafede. E di magistrati ignoranti o in malafede non ne sentiamo proprio il bisogno.

    Costui, intervenendo a proposito del destino di Impagnatiello ha vaticinato che, tra attenuanti generiche per la confessione, benefici penitenziari e possibile riconciliazione con i parenti della vittima, tra una decina d’anni al massimo tornerà libero in tal modo alimentando l’ira e l’indignazione di un’opinione pubblica già esasperata ed orfana di Madame La Guillotine. Disinformazione tanto ardita quanto becera.

    Cerchiamo di fare chiarezza: a prescindere che la confessione, in questo caso, è apparsa più che altro strumentale a minimizzare (scioccamente) la propria responsabilità e come tutt’altro che meritevole di favorevole considerazione, per ottenere le attenuanti generiche, con la legislazione attuale, ci vuole ben altro che un’ammissione scontata ancorchè genuina e l’omicida della giovane donna, già con l’aggravante che gli viene contestata ha come previsione di pena l’ergastolo senza bisogno che vi si aggiunga la premeditazione. Con l’ergastolo dopo dieci anni non si esce: tutt’al più si può avere la semilibertà dopo venti…e non è affatto scontato né automatico e coloro che potrebbero indignarsi anche per questo guardino a sistemi penali come quello spagnolo o il norvegese (giusto per citarne un paio) che il “fine pena mai” neppure lo prevedono.

    Viene allora da chiedersi il perchè di questa uscita fuorviante, anzi dannosa in quanto disorienta l’opinione pubblica cui compete – per disposto costituzionale – il controllo sull’operato della magistratura: la risposta, francamente, è da rinvenirsi di più nella malafede che non nell’ignoranza ma non è motivo di conforto come non lo sarebbe nessun’altra spiegazione; ed il fine ultimo quale sarà?

    Viene però da chiedersi come mai, già che c’era, questo ardito censore, non ha inserito nella sua lectio magistralis di diritto penale e penitenziario anche dei riferimenti a cosa rischiano i suoi incliti colleghi recentemente arrestati (una a Latina e l’altro a Bologna ma proveniente da Lecce) che vendevano la funzione giudiziaria al miglior offerente, o meglio facevano commercio di remunerativi incarichi destinati a commercialisti ed avvocati amici con i quali si spartivano poi la cagnotte. Poverelli! In fondo non hanno ucciso nessuno e poi tenevano famiglia: se per uno spietato assassino dieci anni sono il rischio massimo, per un po’ di mercimonio sulle curatele fallimentari e l’amministrazione di aziende sequestrate quale potrà mai essere la pena?

    Ora c’è solo da attendersi che i populisti e i forcaioli in servizio permanente effettivo affiancati da cialtroneschi pseudo giuristi ne seguano l’esempio strumentalizzando un atroce fatto di cronaca: avanti arditi, sentiamo chi la spara più grossa.

  • In attesa di Giustizia: Cantonate

    Si sa, la giustizia degli uomini è per sua natura imperfetta: tuttavia è motivo di riflessione che questa rubrica non sia mai a corto di argomenti e, talvolta, sia necessario farne una selezione e qualcun’altra – come questa settimana – una sia pur sintetica rassegna.

    Abbiamo un triplete di notevoli cantonate (ogni riferimento a fatti o persone realmente esistite NON è puramente casuale) che rende difficile la scelta da quale partire: la Procura di Milano, però, dà sempre soddisfazioni e merita la citazione d’esordio.

    Andrea Padalino è un magistrato che ha esercitato le sue funzioni anche a Milano, oltre vent’anni fa come giudice per le indagini preliminari impegnato in delicate indagini del filone “Mani Pulite”, per quanto “delicato” non sia il termine che meglio si adattava ai metodi di quella Autorità Giudiziaria.

    Alla gogna mediatica per quattro anni mentre era in servizio a Torino ed essendo finito sotto processo proprio a Milano, che è competente per i reati attribuiti ai magistrati piemontesi, il Dott. Padalino è stato assolto con una motivazione ampiamente esaustiva della pochezza delle accuse mossegli principalmente fondate sulle cosiddette “intercettazioni a strascico”. Cioè non quelle riferibili direttamente l’indagato ma di altri.

    Non paga, la Procura di Milano ha proposto appello contro l’assoluzione di Padalino (qui le assoluzioni danno i mal di pancia) ma, pervenuto il processo in Corte d’Appello, il rappresentante della Procura Generale vi ha rinunciato: né più né meno che quello che era successo con l’opaca indagine ENI – NIGERIA di cui questa rubrica si è occupata ed ancora con la Procura Generale a mettere un argine alle cantonate dei P.M..

    Nel frattempo, a Palermo, qualcuno si è accorto, dopo due anni, che un uomo che era stato assolto non è mai stato scarcerato, sia pure dagli arresti domiciliari ove si trovava. Un destino beffardo, per un signore per di più affetto da problemi psichici, ha voluto che il suo difensore morisse subito dopo la sentenza ma l’onere di disporre la scarcerazione non competeva certamente a lui, che poteva solo comunicare la buona notizia, bensì all’Ufficio Giudiziario che lo aveva giudicato, avvisando all’Autorità di Polizia addetta ai controlli perché venisse formalmente notificata. Invece, niente! Poco male, penserà qualcuno, tanto c’era il covid ed era meglio stare a casa anche quando non si era obbligati: quasi, quasi questa cantonata è stata un bene.

    Insomma, non proprio: tecnicamente è un reato che si chiama sequestro di persona e qualcuno (o più di uno) ne dovrà rispondere partendo dagli accertamenti sulla possibile mancanza di comunicazione tra la cancelleria del tribunale e le Forze dell’Ordine destinatarie dell’ordine di scarcerazione.

    Per finire (ma potrebbe non finire qui, è solo questione di spazio): a Perugia si chiude, anzitempo ed a sorpresa con un patteggiamento, il processo a carico di Luca Palamara.

    Dopo anni di indagini, la contestazione di reati gravi ed infamanti che autorizzarono  l’inserimento del captatore informatico (il famigerato trojan) nel cellulare dell’indagato con un costo investigativo elevatissimo, proprio alla vigilia del dibattimento la Procura ci ripensa e presta il consenso alla richiesta di accordo sulla pena avanzata dalla difesa dell’ex dominus dell’ANM previa modifica dell’imputazione in traffico di influenze: che altro non sarebbe che il vecchio millantato credito, cioè un reato da imbroglioncelli di periferia che può dirsi adeguatamente punito con un anno di reclusione e la condizionale che il Tribunale ha ratificato. Per Palamara, così ha dichiarato, è solo un modo per liberarsi dal peso dei processi senza ammettere alcuna responsabilità. Un po’ come la Juve, sostanzialmente.

    I malpensanti hanno già sospettato che sia soluzione gradita un po’ a tutti perchè argina l’estrazione di ulteriori sassolini dalle scarpe che Palamara avrebbe potuto far culminare in una terza puntata, dopo quelle andate in onda nel salotto di Sallusti, durante pubbliche udienze. O, forse, a Perugia avevano semplicemente preso una Cantonata dall’inizio ed era ora di porvi rimedio.

  • In attesa di Giustizia: la dolce vita

    Lo stupore non è mai troppo e non ha mai fine: con il passare del tempo ed il succedersi degli eventi che, all’atto pratico, ne svelano le caratteristiche, la Riforma della Giustizia “Cartabia” si propone come una delle più “bizzarre” (diciamo così) tra quelle cui una legislazione sistematicamente sciatta ed approssimativa ci ha abituato da decenni. Queste le ultime due perle.

    Il Ministro brasiliano della Cultura, una distinta signora, si è recata in visita ufficiale alla biennale di architettura di Venezia: volendo visitare la città, apprezzandone da vicino tutte le caratteristiche, ha scelto di muoversi a piedi ed in vaporetto come una turista qualsiasi. E come una turista qualsiasi è stata borseggiata.

    Recatasi in Questura per fare la denuncia si è sentita rispondere che non era possibile poiché è una cittadina straniera non residente in Italia: come tale, non in grado di assicurare la sua presenza all’eventuale processo a carico dei presunti colpevoli se mai verranno individuati. Dunque niente denuncia, niente indagini neppure di facciata tra le centinaia di borseggi che ogni giorno vengono commessi. Evviva! La Patria è salva, l’Unione ha plaudito alla riforma e versato i fondi del PNNR; gioiscono soprattutto i borseggiatori che – da sempre – si garantiscono la maggiore fonte di guadagno proprio nelle città più apprezzate dai turisti stranieri come Venezia, Firenze e Roma mentre tanto tempo viene risparmiato da Questure e Procure tra scartoffie ed indagini evitate e udienze non celebrate.

    Dolce la vita per i taccheggiatori: impunità per tutti, per legge. Fare di peggio era molto difficile.

    Il secondo “capitolo” riguarda la riforma che, nella parte dedicata all’Ordinamento Giudiziario, contrasta con autentico calvinismo il fenomeno delle “porte girevoli”: con ciò intendendosi la transumanza dei magistrati dall’Ordine Giudiziario alla politica e ritorno.

    Il primo a sperimentare il rigore della “Cartabia” è stato, proprio in questi giorni, Cosimo Ferri: uno che negli ultimi diciassette anni ha fatto il magistrato solo per tre passando dalla poltrona al CSM a una di deputato e da qui a quella di sottosegretario alla Giustizia, poi ancora alla Camera (attraversando anche quasi tutto l’arco costituzionale: dal PdL a Forza Italia, da qui al PD e infine a Italia Viva) per poi dimettersi all’improvviso circa un anno fa e candidarsi come sindaco a Carrara (amoreggiando con la Lega). Nel frattempo era assurto agli onori della cronaca per il coinvolgimento nell’affaire Palamara che gli è già costato una (modesta) sanzione disciplinare.

    La carica di primo cittadino è stata mancata ma un seggio come consigliere comunale è sufficiente per rientrare nel nuovo regime perché l’elezione è stata successiva alla entrata in vigore del nuovo Ordinamento Giudiziario: ora il Dott. Ferri si è dimesso anche dal Consiglio Comunale facendo richiesta di rientrare in ruolo ma – come se non lo sapesse – il Consiglio Superiore gli ha opposto il divieto previsto dalla “Cartabia”.

    Perché mai, e ora cosa farà? In questi casi la riforma prevede che il magistrato ex politico venga messo fuori ruolo per il resto della sua vita (!) con assegnazione al Ministero di appartenenza, mantenendo il trattamento economico maturato in base al grado a cui si aggiunge un piccolo contributo di 5.000 euro netti al mese come argent de poche per la nuova e prestigiosa funzione assunta.

    Già, ma quale funzione andrà a ricoprire un magistrato destinato a restare tutta la vita all’interno del Ministero? Non c’è che l’imbarazzo della scelta: da Capo di Gabinetto del Ministro a Direttore Generale degli Affari Penali (posto che fu di Giovanni Falcone), oppure Capo Dipartimento dell’Ufficio Legislativo…. ma ci sono anche posticini come Vice capo Dipartimento o semplice componente.

    Il posto più ambito (e per un condannato all’ “ergastolo del Ministero” prima o poi può arrivare) è quello di Capo Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria il quale, in quanto Capo anche di una Forza di Polizia (la Penitenziaria, appunto), e pur non sapendo nulla della gestione di una struttura militarizzata, ha un trattamento aggiuntivo equiparato a quello degli altri Comandanti di Forze dell’Ordine: 320.000 euro all’anno che una generosa normativa gli fa conservare una volta cessata la funzione ed incidendo sul trattamento pensionistico finchè morte non li separi ma con garanzia di reversibilità.

    Dolce la vita anche per i magistrati eternamente fuori ruolo.

  • In attesa di Giustizia: il giorno della civetta

    “Civetta” è il nome dato a quelle locandine posizionate fuori dalle edicole con la più sensazionale delle notizie disponibili in evidenza così da sollecitare l’acquisto del giornale. Una di queste, richiamando l’articolo di un quotidiano locale veneto (non importa di dove e quale sia la testata), qualche giorno fa strillava: “LEGGE CARTABIA – IMPUTATI ASSOLTI”.

    “Quattro gravi incidenti per i quali non ci sarà una verità giudiziaria” veniva precisato nell’articolo.

    La clamorosa notizia si riferiva a processi per lesioni stradali in realtà non definiti con irragionevoli assoluzioni ma con sentenze di non doversi procedere per mancanza di querela.

    Ovviamente, mancava una spiegazione per i non addetti ai lavori perchè l’esigenza degli organi d’informazione è piuttosto quella di assecondare una subcultura affamata di processo penale e vendetta.

    Per ogni fatto, anche il più modesto e banale, anche di fronte all’incuranza della persona offesa, dev’esserci una “verità giudiziaria” e una condanna dell’imputato, preferibilmente “esemplare”.

    Sarebbe stato, invece, opportuno spiegare che quelle non erano assoluzioni e tantomeno ingiuste ma che, da quest’anno, per le lesioni stradali non aggravante da guida in stato di ebrezza, velocità superiore al doppio di quella consentita, passaggio con il rosso ecc… si procederà soltanto se la vittima ne ha fatto richiesta: esattamente come avveniva prima della legge del 2016 sull’omicidio stradale.

    Sarebbe stata l’occasione per informare che, per i fatti precedenti alla entrata in vigore della riforma Cartabia”, era stato previsto un termine di tre mesi a decorrere dal 1° gennaio 2023 per presentare la querela, se mancante.

    Quali e quanti articoli sono stati scritti per comunicare, in tempo utile e termini comprensibili, queste notizie che per i cittadini potevano rivestire interesse?

    Sarebbe stato corretto anche precisare che il semplice ritorno al precedente sistema è stato frutto di una scelta normativa una volta tanto sensata e come tale accolta dall’unanime favore dai giuristi.

    Negli ultimi sei anni bastava un banale tamponamento per avviare un processo e sopportare lunghe sospensioni della patente di guida: numerosissimi erano i procedimenti, che – oltretutto – assorbivano risorse ed energie, magari a fronte dell’incuria della persona offesa la quale, lievemente danneggiata e probabilmente già risarcita dall’assicurazione, non aveva alcun interesse alla persecuzione penale del colpevole.

    Dove sono, allora, lo scandalo e l’allarme?

    La “Riforma Cartabia” – tra luci e ombre – ha introdotto alcune novità di rilievo e tra queste vi è proprio l’estensione dei reati procedibili a querela di parte: se la persona offesa non si attiva perché carente di interesse il processo non si fa. Macchinoso, per fare un altro esempio, ma non privo di senso l’istituto che prevede la sentenza di non doversi procedere per gli irreperibili: che senso ha giudicare dei fantasmi? Ferma restando la possibilità di riaprire il procedimento se la persona viene successivamente trovata e identificata.

    In Italia si celebrano troppi processi inutili (spesso dedicati a fatti di poco o nullo allarme sociale) e si deve aggiornare il sistema con la previsione di pene diverse dalla reclusione: ciò per evitare il sovraffollamento carcerario, sia perché tutti gli studi statistici dimostrano che chi sconta la pena con una misura alternativa alla detenzione ha un rischio di recidiva inferiore.

    E’ l’Europa che lo richiede la riduzione dei tempi di durata del processo penale è cruciale per accedere ai fondi del piano Next Generation EU.

    Ma tutto ciò ci è prima ancora richiesto da elementari principi di civiltà giuridica, che vedono nel processo penale il luogo di accertamento della responsabilità per i fatti più gravi e che ritengono che la sanzione carceraria sia una extrema ratio.

    Scrivere queste cose può avere meno appeal in una certa fascia dell’opinione pubblica che invoca la gogna sempre e comunque: ma qui siamo su Il Patto Sociale, non allochiamo “civette” sensazionalistiche dinanzi alle edicole e cerchiamo di offrire una comunicazione corretta e chiara che, se mai, stimoli il lettore alla riflessione.

    In questa rubrica continueremo a invocare i principi del diritto penale liberale perché siamo certi che la cultura dei diritti, per quanto a volte controintuitiva, sia l’unica possibile in uno Stato autenticamente democratico.

  • In attesa di Giustizia: giustizia creativa

    Nello scorso numero, commentando la sentenza definitiva nel processo c.d. “Trattativa Stato-Mafia” si è parlato di reato inesistente: con quel termine si intendeva alludere ad una imputazione talmente campata in aria che per disperdere tutta l’aria fritta su cui si poggiavano i teoremi accusatori ci sono voluti una dozzina di anni ed un discreto dispendio di energie e risorse economiche.

    E’uno di quei casi in cui si parla di giustizia creativa, senza che a quella creatività debba essere riconosciuto alcun pregio artistico e che si ha quando vengono applicate regole che non ci sono oppure non applicano quelle esistenti. A Milano si è, addirittura, coniato un termine omnicomprensivo delle “licenze poetiche” concesse (non si sa da chi) in sede giudiziaria: rito Ambrosiano, come la Messa.

    Un paio di esempi possono contribuire a comprendere meglio; prendiamo come spunto il furto in abitazione: uno sgradevole evento i cui contorni ognuno conosce e che nel codice penale è descritto come il fatto di “chiunque si impossessa della cosa altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora“. Privata dimora: se la lingua italiana non è un’opinione è un luogo in cui qualcuno svolge attività proprie della sua vita privata, appunto, e nel quale altri non possono accedere senza il suo consenso.

    Ebbene: la Corte di Cassazione, non il Giudice di Pace di Capracotta, ha considerato “privata dimora” anche una farmacia durante l’orario di apertura, il ripostiglio di un esercizio commerciale, l’interno di un bar ed altri fantasiosi luoghi così da imporre l’intervento regolatore delle Sezioni Unite, nel 2017. Quasi spassoso è un altro esempio e riguarda il reato di sostituzione di persona, che è commesso da “chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno“. Ebbene, tutto ci si aspetterebbe tranne che questo crimine venga attribuito al “marito fedifrago che si finge divorziato per carpire nuove conquiste“.

    Per la Cassazione, nell’anno del Signore 2016, quella non è una menzogna da balera ma un reato caratterizzato dal dolo di profitto. L’elenco potrebbe continuare a lungo ma fermiamoci qui.

    Per concludere con una nota di colore che richiama sia quello che abbiamo chiamato “rito Ambrosiano” sia profili di cosiddetta giustizia domestica dei magistrati (più o meno creativi): sappiano i lettori di questa rubrica che  il Consiglio Giudiziario di Milano – una istituzione locale, del cui apporto il C.S.M poi si avvale nel valutare i progressi in carriera e la professionalità dei magistrati – ha gratificato con “eccellente” l’operato del Procuratore Aggiunto Fabio De Pasquale: proprio quello che è sotto processo a Brescia, sospettato di avere occultato le prove a favore degli imputati (comunque tutti assolti nonostante gli sforzi nel truccare le carte) del processo denominato “ENI – Nigeria”, un’indagine di presunte ed inesistenti tangenti massacrata dalle fondamenta prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello. L’uomo, tuttavia, sembra essere pronto per assumere incarichi ancor più di rilievo e prestigio.

    A fronte di un simile esempio di eccellenza non servono parole di commento ma viene da domandarsi chi siano – se mai ve ne sono – ed in quale abisso di inettitudine siano relegati quelli scarsi.

  • In attesa di Giustizia: Nessun dorma

    Nessun dorma! Nemmeno le motivazioni della sentenza della Cassazione costituiranno i titoli di coda del b-movie giudiziario noto come “trattativa Stato-mafia” costruito con un canovaccio scadente intorno ad un reato esistente solo nella fantasia dei suoi approssimativi sceneggiatori.

    Uno tra questi – il celebre fallito Antonio Ingroia – ha subito alzato la voce lamentando il mancato lieto fine non pago che per oltre dieci anni sono finite nel tritacarne mediatico-legale la  dignità, onorabilità, salute psicofisica di protagonisti della lotta (quella vera) alla criminalità organizzata, additati come traditori e dati in pasto alle milizie dei professionisti di quell’antimafia che con la lotta alla mafia non ha nulla a che fare, ma vale a costruire carriere, fortune editoriali ed economiche, successi politici (sempre con l’eccezione di Ingroia passato all’avvocatura, dopo disastrosi tentativi in altri settori, e recentemente colpito dalla irreparabile perdita di Gina Lollobrigida, sua unica cliente).

    I professionisti dell’antimafia, normalmente, danno il meglio di sé nel distruggere carriere, fortune politiche e patrimoni altrui… e la vecchia guardia muore ma non si arrende.

    C’è tutto un mondo che prospera grazie alla narrazione di sponde, collusioni e complicità istituzionali delle quali si avvantaggia la mafia: una verità che viene poi sviluppata in termini iperbolici, quasi maniacali, nella convinzione che nessuna lotta alla mafia sarà degna di questo nome se non sarà rivolta agli intrecci istituzionali anche quando l’inchiesta giudiziaria non ne coglie traccia. E se non ne coglie è una inchiesta marginale oppure è essa stessa contaminata da correità oscure.

    Questo genere di narrazione ha una straordinaria forza comunicativa ed affascina la pubblica opinione, avvantaggiandosene e criminalizzando chi osi metterla in dubbio. Ecco allora che nessuna indagine su fatti di criminalità mafiosa risulta immeritevole di considerazione senza il coinvolgimento di qualche insospettabile di alto rango ed il preteso disvelamento di combutte istituzionali: più forte, allora, sarà la ricaduta mediatica e la fortuna dell’inchiesta: quella sulla “Trattativa” ha rappresentato l’acme di questo fenomeno perché giunta di fatto ad “inventare” – attraverso una forzatura giuridica da subito evidentissima – l’inesistente reato di “trattativa”, per poter affermare che proprio coloro ai quali erano affidati ruoli di vertice nel contrasto al crimine organizzato erano in realtà corrivi con esso nel ricattare il potere statuale e con ciò alimentando il consenso della opinione pubblica.

    Anche ora, dopo una decisione che dovrebbe solo comportare scuse nei confronti delle vite spezzate, infangate ed umiliate di innocenti servitori dello Stato, è dato leggere commentatori che scrivono di mafia che “tratta da sola”, ed altre imbecillità assortite del genere. Come al solito, ne abbiamo parlato di recente, a fare scandalo sono le assoluzioni ed è maturo il tempo per raccogliere interviste contrite, ma più probabilmente aggressive ed avvelenate, dei responsabili di questa bufala giudiziaria che invece di essere chiamati a rispondere del male che hanno seminato a piene mani, saranno gli eroi dolenti ma indomiti di quella vera e propria casta invincibile cui appartengono, tra gli altri, amministratori giudiziari degli immensi patrimoni di aziende sequestrate, spolpate e poi restituite come stracci bagnati, solo perché gli  incolpevoli proprietari, solo perché sono stati sospettati di inesistenti prossimità mafiose. Per non parlare di quelli che rubano persino l’origano alle mense scolastiche ma vengono insigniti del cavalierato per l’impegno nella difesa della legalità.

    C’è pertanto, tristemente, da temere che nemmeno una sentenza della Cassazione (oltre una precedente della Corte d’Appello di Palermo), varrà a ristabilire la verità.

    Nessun dorma! E c’è chi si è già messo alacremente all’opera: per la quinta volta la Procura di Firenze tenta di far decollare l’inchiesta sulle stragi con Berlusconi e Dell’Utri come mandanti sebbene il teorema su cui si regge confligga proprio con gli esiti del processo “Trattativa” oltre che difettare completamente di logica, ed è smentito pure dagli ascolti delle intercettazioni di Totò Riina che definì l’ex Premier “un inutile palazzinaro” e dalla subitanea caduta del Governo nel 1994.

    Questa è un’altra storia di cui dovremo riparlare, un sequel evitabile per il finale scontato, messo in scena dalla narrativa dell’antimafia militante preconizzata da Sciascia che non intende cedere il suo potere, il più grande che si possa esercitare: dividere il mondo in buoni e cattivi a proprio piacimento ed impunemente traendone, infine, insperate ed imperdibili fortune.

  • In attesa di Giustizia: un medley triste

    Chi ricorda i medley, favolosi mix – su dischi rigorosamente in vinile – di musiche da hit parade anni 80?

    Ecco, questa volta ci sarebbero tante di quelle notizie da commentare che la rubrica ne proporrà una sorta di medley che, però, non mette certo allegria e non è neppure esaustivo: solo il peggio del peggio (forse).

    Proprio al termine di una settimana in cui vi sono stati tre giorni di astensione degli avvocati per protestare contro i ritardi delle annunciate – ed indispensabili – riforme ed il Ministro Nordio che sembra avere il freno a mano tirato dalla sua stessa maggioranza, possiamo cominciare accennando ad alcune iniziative di legge che, invece, bollono in pentola nel settore della giustizia.

    Nel pensiero liberale è fondamentale l’idea che la sanzione penale sia la “extrema ratio” di fronte a comportamenti che attentano all’ordine sociale ed alle regole del buon vivere comune: l’esatto contrario, dunque, di quanto si è invece da tempo radicato nella linea di pensiero prevalente quale che sia la forza politica al timone del Paese; ed ecco che alcuni parlamentari oggi in carica propongono di introdurre, per esempio, il reato di istigazione alla anoressia e quello di omicidio colposo nautico mentre prende corpo l’idea di istituire la Procura nazionale anti-stragi, qualunque cosa possa mai significare.

    Invece che documenti parlamentari sembra di sfogliare le pagine di quel leggendario giornale satirico che era Il Male. In un indimenticabile e preveggente fumetto aveva rappresentato un magistrato con l’obiettivo di immaginare nuovi, possibili, reati da contestare ai movimenti politici extraparlamentari, tra i quali, in un crescente delirio punizionista, finiva per proporre l’onnicomprensivo crimine di “torto marcio”. Siamo ormai ad un passo: la satira politica è diventata cronaca della realtà.

    La matrice di questi grotteschi spropositi è sempre la stessa: la cronaca di fatti che colpiscono la pubblica opinione e, dunque, chissà se alla prossima sciagura -per dire- causata da un trattore, non dovremo attenderci la introduzione dell’omicidio colposo agricolo mentre ancora più misterioso è il percorso logico che ha alimentato l’idea del reato di istigazione alla anoressia.

    Andiamo avanti: in quel di Roma, il Tribunale nega il rinvio di un’udienza sostenendo che per una madre-avvocato non costituisca legittimo impedimento dover accompagnare il figlioletto ad una delicata visita medica. Motivazione: “poteva pensarci il padre” …. Nel frattempo, a pochi chilometri di distanza, a Latina, finisce in manette per corruzione un giudice (donna anche questa) che pare distribuisse – non gratuitamente –  ricchi incarichi nell’ambito delle procedure di amministrazione dei beni sequestrati a diversi professionisti della zona, compreso il proprio compagno: perché la famiglia è un’istituzione da sostenere; nel provvedimento di cattura il quadro probatorio è definito “granitico”.

    La medesima Procura, quella di Perugia che è competente per i reati attribuiti ai magistrati laziali, nelle stesse ore ha modificato l’imputazione a Palamara da corruzione ad un reato meno grave che gli consentirà di patteggiare. A pensar male si fa peccato ma non si sbaglia e la sensazione è che si sia preferito “silenziare” Luca Palamara che quando apre bocca fa sfracelli: ed in un dibattimento pubblico non sarebbe proprio il caso dopo essere già passato due volte dal confessionale del Direttore Sallusti. Meglio un rapido e riservato accordo sulla pena che – tra l’altro – gli evita il carcere e lo stress del processo.

    Più a nord, intanto, l’Orsa JJ4 pare avere già imboccato “il miglio verde” ed in questo caso non sembra proprio che il Governatore sia intenzionato a concedere la grazia. A sua difesa si è mosso, tra  gli altri,  l’Ordine Provinciale dei Veterinari che –  riunitosi d’urgenza e richiamando le norme del codice deontologico della categoria – ha invitato tutti i colleghi a non assumere iniziative che possano provocare la morte dell’animale per eutanasia che non è giustificata né dalle sue condizioni di salute, né da pericoli per la popolazione perché già “in custodia”, senza contare che l’orso è specie protetta tutelata con legge dello Stato ed alcune associazioni si sono offerte di provvedere al trasporto in altri spazi, anche al di fuori del territorio nazionale e senza aggravio di spese pubbliche.

    A giorni, comunque, vi sarà udienza al TAR per deciderne il destino e JJ4 sembra avere fiducia nella magistratura. Beata lei.

    Anche questa vicenda è emblematica del fatto che siamo ormai precipitati in un gorgo di cultura autoritaria, dove il diritto penale e l’ossessione retributiva del dolore delle vittime sono diventati terreno di pascolo privilegiato della politica, mentre si ha un bisogno disperato di ben altro: conoscenza e comprensione del pensiero liberale. E l’attesa di Giustizia continua…

  • In attesa di giustizia: un verdetto evitabile?

    In Israele è tempo di pesanti contestazioni per la riforma della Giustizia proposta dal Premier Netanyahu e questa settimana, subito dopo la Pasqua, può essere stimolante ed originale trattare proprio del più famoso e controverso processo mai celebrato in Israele, quello a carico di Yehoshua ben Yosef (Gesù figlio di Giuseppe) e della sua condanna a morte: un argomento che costituisce ancor oggi terreno di scontro tra diverse culture.

    Chi fu l’artefice di quella condanna?

    A chi ascrivere il “peso” di una sentenza finale percepita ancora come massimamente ingiusta?

    Non esiste una risposta univoca e gli stessi Evangelisti diversificano molto il giudizio.

    Matteo, giudeo che scriveva per i giudei, non esita a responsabilizzare in modo diretto non solo il Sinedrio ma tutto il popolo ebraico, reo di aver chiesto che si versasse il sangue del Cristo; Giovanni, invece, offre una rilettura di Pilato in chiave quasi assolutoria tramandando la famosa risposta che Gesù gli diede negli ultimi momenti del loro faccia a faccia: “…chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande”.

    La materia è da trattare con grande prudenza, senza dimenticare che un’interpretazione distorta è stata presa a pretesto per la persecuzione di un intero popolo: ma è un ambito in cui le omissioni potrebbero essere esse stesse una colpa.

    Il sistema giudiziario giudaico nel 30/36 d.C. non prevedeva l’esecuzione della pena capitale. O, meglio, il potere di infliggere la pena di morte era riservato alla sola autorità romana, quale forza occupante.

    Conosciamo storicamente l’uso della lapidazione, ma a quei tempi era piuttosto una reazione immediata della gente in caso di flagranza di “delitti religiosi” quali la bestemmia e l’adulterio.

    Gesù, invece, doveva essere innanzitutto processato attesa la mancata flagranza, e l’eventuale condanna capitale non poteva che essere deliberata ed eseguita dall’autorità romana. Su questo non c’è dubbio.

    La richiesta di condanna a morte, tuttavia, giunse – senza un vero e proprio processo – dalla folla che fronteggiava Pilato nel pretorio, chiedendo il rilascio di Barabba e gridando con forza, riferita al Cristo, “crucifige!”.

    Certo, non fu tutta Gerusalemme ma coloro che accolsero il prevedibile invito di Caifa e degli altri notabili del Sinedrio: diversamente non si capirebbe come una intera città che, appena una settimana prima, aveva osannato Gesù mentre percorreva le strade a dorso di mulo gli si fosse rivoltata contro volendolo morto.

    Fatta questa puntualizzazione occorrerà chiedersi se il Governatore romano avrebbe potuto salvare la vita dell’imputato eccellente. In teoria sì, In pratica no.

    Leggendo i Vangeli, si ricava che Pilato tentò sicuramente di “allungare il brodo” (come diremmo oggi). Temporeggiò, trattò, lusingò e l’invio del prigioniero da Erode Antipa fu sicuramente un tentativo di aggirare la caparbietà del Sinedrio. Ma il punto di non ritorno, più che il “crucifige!”, fu costituito dalla frase che la folla gli urlò contro: “Se liberi costui non sei amico di Cesare!”.

    Immaginiamo la situazione: Ponzio Pilato, incaricato dall’imperatore Tiberio (Cesare, appunto) come Autorità Territoriale della Giudea, che viene sostanzialmente minacciato dal popolo di accusarlo per alto tradimento se si ostinerà a difendere un “bestemmiatore” sconosciuto.

    Davanti a tali argomenti e prospettive nulla avrebbe potuto fare Pilato, nulla di diverso da quello che fece.

    Ma Gesù avrebbe potuto veramente salvarsi? La risposta corretta a tale domanda sembra essere negativa.

    Gesù avrebbe potuto salvarsi solo a condizione che “il calice gli fosse passato davanti” senza essere bevuto. Ma quell’amaro calice da bere era il prezzo per il riscatto dell’intera umanità e andava bevuto.

    E questo è, forse, il punto: l’obbedienza di Gesù alla volontà del Padre era un cardine ineludibile. I comportamenti degli uomini furono sicuramente importanti, perché nulla opposero con il loro libero arbitrio, eppure, al contempo, consequenziali segmenti di un piano che trascendeva il loro potere.

    Ognuno tragga le proprie conclusioni sulle responsabilità dei protagonisti che abbiamo ricordato ma, forse, una sola è la certezza: se il verdetto era evitabile, tuttavia Gesù doveva morire.

  • In attesa di Giustizia: E tre!

    Per la terza settimana di fila questa rubrica si occupa di processi per gravissimi disastri in cui sono contestati reati colposi: e cosa ciò significhi, per il profano, si è tentato di spiegarlo con parole semplici proprio nel numero precedente. Questa volta è di scena il giudizio per crollo del Ponte Morandi con la cronaca – ed il commento – di una delle ultime udienze.

    Cronaca che staglia la distanza sempre più profonda che si va creando tra ciò che un processo penale dovrebbe essere, nel rispetto delle regole costituzionali ed ordinarie che lo istituiscono e lo governano, e ciò che si vorrebbe invece che diventi. E’ una cronaca che fa capire quale sia l’unica garanzia rispetto ad una montante deriva illiberale: e cioè l’indipendenza, la libertà morale e l’autorevolezza del Giudice.

    In aula vi è stata tensione altissima ed un durissimo botta e risposta tra la pubblica accusa ed il Tribunale, scaturita da una intemerata del P.M. il quale, azzardando un po’ di calcoli sul numero dei testimoni ancora da esaminare ed il ritmo delle udienze, prevede che l’istruttoria dibattimentale possa concludersi non prima del dicembre 2025, quando “alcuni dei reati più gravi” potrebbero essere già prescritti, sollecitando perciò un aumento del ritmo di celebrazione del processo, cambio di passo: un boccone ghiotto su cui la stampa si  è buttata a pesce, gridando a giustizia negata, alla prescrizione strumento di salvezza dei ricchi e dei potenti, eccetera. Il Presidente del Collegio si limita a giudicare troppo allarmistiche le previsioni del P.M. ma la mattina successiva ritorna sulla questione e definisce quello del PM un “proclama offensivo nei confronti del Tribunale” (che ha sospeso la trattazione di gran parte degli altri processi, per celebrare questo), e tocca il punto, che in questa, come in altre analoghe vicende processuali, viene sistematicamente ignorato. Se si ha a cuore l’aspettativa di una tempestiva risposta giudiziaria ad una simile tragedia “magari bisognava effettuare scelte processuali diverse e non contestare, ad esempio, un milione di falsi che devono essere accertati uno per uno” e conclude: “Se poi in quest’aula c’è qualcuno che ritiene che le sentenze si facciano senza processo, sbaglia”.

    Non può sfuggire il valore di questo accadimento, che va ben oltre la singola vicenda processuale, la quale ha peraltro tutti i crismi della parabola. Gli ingredienti ci sono tutti: processo di enorme impatto mediatico, aspettativa di condanne esemplari, diritti delle vittime dei reati rappresentati come incondizionatamente prevalenti sui diritti di difesa e sulla presunzione di non colpevolezza. Sullo sfondo, la fosca ed un po’ prematura previsione di una prescrizione salvifica. Sono già pronti i forconi, insomma. Ma ecco, diciamoci la verità, inatteso, un Giudice che – pur in un processo ad altissima esposizione mediatica – fa, imperterrito, il Giudice e sposta l’asse di quella lamentela del PM, come sempre occorrerebbe fare ma nessuno mai fa. Cominciamo a ragionare piuttosto – dice – su quanto siano durate le indagini, e se le scelte operate dalla Procura nell’esercizio dell’azione penale abbiano considerato la dimensione e l’impatto dell’accusa anche sui tempi del conseguente processo. Se si individuano 60 imputati e decine e decine di imputazioni, protraendo le indagini per anni, poi non si pretenda che gli imputati non si difendano con tutta la pienezza dei propri diritti. Ma è la seconda affermazione che merita ancora più ammirazione: questo Tribunale non è disposto a pronunciare sentenze senza processo. Nessuno si illuda – sostiene quel Giudice – di fare pressioni indebite, paventando populisticamente scenari drammatici che si vorrebbe addossare, alla fin fine, alla responsabilità del Tribunale da un lato, e del diritto di difesa degli imputati dall’altro. Parole dure che danno la esatta dimensione della solennità di ciò che il Giudice può e deve saper rappresentare nel giudizio penale, della indispensabilità della sua indipendenza da ogni forma di condizionamento, da ogni riflesso conformistico, da ogni sudditanza nei confronti di tutte le parti processuali. Ciò che, peraltro, deriva in termini di disillusone per chi è in attesa di giustizia è quando un accadimento come questo ci appare come una notizia straordinaria, quando invece dovrebbe essere una noiosa e scontata ovvietà. Ma il destino delle parabole è proprio questo: farti comprendere, quasi raccontandoti una favola, l’amara durezza della realtà nella quale ti trovi a vivere.

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