Secondo la Direzione Investigativa Antimafia, come rivela L’Espresso, Roma è lo snodo dal quale le mafie muovono milioni di euro di provenienza illecita sfruttando società di copertura e fittizie per effettuare operazioni su conti esteri, bonifici frazionati e false fatturazioni.
A dominare la scena è la Camorra, con i clan Moccia, Amato-Pagano e Licciardi che operano nei settori strategici, dagli appalti all’edilizia, e la cui influenza si estende dal narcotraffico alla gestione di imprese e attività commerciali. Vicino a loro resiste il clan Senese, attivo fin dagli anni Settanta nella capitale, adattatosi alle dinamiche capitoline tanto da esser definito impropriamente «camorra romana». Poi c’è la ’Ndrangheta, la regina del narcotraffico internazionale, che mantiene una presenza radicata con le ’ndrine Alvaro, Piromalli, Mancuso, Mazzaferro-Morabito e Mammoliti. Non manca la mafia siciliana, con il clan Rinzivillo, storicamente legato ai Santapaola-Ercolano, che sfrutta il settore della logistica e dei mercati ortofrutticoli per il trasferimento di capitali illeciti. Accanto alle mafie tradizionali, i gruppi autoctoni hanno consolidato un potere economico sempre più esteso. I Casamonica gestiscono un impero finanziario che parte dall’usura e arriva alle estorsioni, con una forte influenza nel mercato immobiliare. Sul litorale romano, il potere si spartisce tra Fasciani, Triassi e Spada, che da anni controllano il settore della ristorazione, del turismo e delle scommesse. Ci sono poi anche le mafie straniere: i clan albanesi controllano il traffico di cocaina grazie ai contatti diretti nei Balcani e in Sudamerica, mentre la mafia nigeriana ha sviluppato un sistema ben strutturato per la tratta di esseri umani e lo spaccio di droga, operando soprattutto nelle periferie romane.
L’inchiesta Assedio, condotta dalla Dia nell’estate del 2024, ha portato alla luce un intreccio tra criminalità organizzata e imprenditoria, con la complicità di figure chiave dell’economia romana. Il procedimento, giunto a una svolta nel gennaio 2025, ha visto la richiesta di 148 anni di carcere complessivi per i principali indagati. Tra questi, Roberto Macori, ex autista di Gennaro Mokbel e vicino a Massimo Carminati, considerato dagli inquirenti un intermediario tra criminalità e imprenditoria. Daniele Muscariello, legato al clan D’Amico-Mazzarella, avrebbe sfruttato il settore cinematografico per favorire il riciclaggio di denaro in produzioni indipendenti. Ma anche Piero Monti, detto Er Tigre, e Andrea Betrò, ex editore di Dillinger News di Fabrizio Corona, accusati di aver creato società per il transito di capitali illeciti, anche se entrambi si dicono determinati a provare la loro innocenza in tribunale.
Il nome di Irene Pivetti, ex presidente della Camera, compare 71 volte nelle carte dell’inchiesta per i suoi rapporti con Giuseppe Vitaglione, imprenditore ritenuto vicino ai clan di camorra. Pivetti non è indagata in questo procedimento, ma nel settembre 2024 è stata condannata a 4 anni e 3 mesi per evasione fiscale e autoriciclaggio in un’altra inchiesta. È inoltre sotto processo per la compravendita di mascherine durante l’emergenza Covid, con accuse che vanno dalla frode in pubbliche forniture all’appropriazione indebita e alla bancarotta. Compare spesso nelle carte di Assedio anche Vincenzo Senese, figlio di Michele detto O’ Pazzo, boss dell’omonimo clan. Vincenzo, secondo la procura, avrebbe avuto un ruolo nel reinvestimento dei fondi criminali nel settore degli idrocarburi.
E, per ultimi ma non per importanza, ci sono Antonio e Massimo Nicoletti, considerati dagli inquirenti elementi di spicco del presunto maxicartello dedito al riciclaggio di denaro sporco per famiglie romane, campane, siciliane e, soprattutto, calabresi. Loro sono figli di Enrico Nicoletti, storico cassiere della Banda della Magliana e gli inquirenti ritengono che abbiano perfezionato il modello del padre, utilizzando società di copertura e operazioni finanziarie complesse per riciclare il denaro sporco delle cosche. Ma il loro nome è legato anche a un altro aspetto dell’inchiesta: la latitanza del boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. La procura sostiene che Antonio, Tony, Nicoletti abbia avuto un ruolo nel favorire la latitanza del boss di Cosa Nostra, fornendogli appoggio logistico a Roma mentre lui si sottoponeva a cure oncologiche nella Capitale. Massimo Nicoletti respinge i sospetti e li ribalta: «Sfido il mondo a trovare un indizio che possa portare a questa cosa. Perché se tu senti che io sto per far fare una visita a Roma al latitante numero uno in Italia, come fai a non mandare 25 persone armate fino ai denti a vedere chi cavolo è questo? Ragiono da persona normale della strada. E perché non le mandi? Sei forse d’accordo con Nicoletti per coprire la latitanza di questo signore?». Ma Nicoletti ha anche una sua lettura, su questo incrocio tra mafie: «Roma è una città aperta. Tutti antepongono l’utile alle pistolettate, perché queste attirano l’attenzione di media e magistrati».