sfruttamento

  • Shein lawyer refuses to say if it uses Chinese cotton

    A senior lawyer representing Shein has repeatedly refused to say whether the company sells products containing cotton from China, prompting an MP to brand her evidence “ridiculous”.

    Yinan Zhu, general counsel for the fast-fashion giant, confirmed its suppliers did manufacture products in the country, but declined to say whether they used Chinese cotton.

    Firms that source clothing, cotton, and other products from the Xinjiang region in the north west of China in particular have come under pressure following allegations of forced labour and human rights abuses.

    Ms Zhu’s refusal to answer questions was met with backlash from a committee of MPs, who accused her of “wilful ignorance”.

    Shein has grown rapidly since it was founded in 2008, and saw its business boom during the pandemic.

    Its steep rise has meant the company has gone from a little-known brand to one of the biggest fast fashion retailers globally, shipping to customers in 150 countries.

    But the company, which was founded in China but is now headquartered in Singapore, has come under fire over its environmental impact and working practices, which include allegations of forced labour in supply chains. Shein has denied this.

    China has been accused of subjecting members of the Uighur, a mainly Muslim ethnic minority, to forced labour. In December 2020, research seen by the BBC showed that up to half a million people were being forced to pick cotton in Xinjiang, but Beijing has denied any rights abuses.

    The allegations have led to some big fashion brands, including H&M, Nike, Burberry and Adidas, removing products using Xinjiang cotton, which has led to a backlash in China, and boycotts of the companies.

    On Tuesday, MPs on the Business and Trade committee repeatedly challenged Ms Zhu over whether Shein products contained Chinese cotton and in particular cotton from Xinjiang.

    Ms Zhu declined to answer and asked if she could write to the committee following the hearing.

    She told MPs that the company does not own any factories or manufacturing facilities, but works with a large network of suppliers, mostly in China, but also in Turkey and Brazil.

    She added that Shein complied with “laws and regulations in the countries we operate in”.

    Ms Zhu said its suppliers were required to sign up to robust standards and that third party agencies carried out thousands of audits.

    Challenged on whether the company specifically prohibits its suppliers from sourcing cotton from Xinjiang as part of its checklist of conditions, she said: “I’m going to have to ask for permission to write back to this.”

    The hearing came after the BBC reported the company had filed initial paperwork to list shares on the London Stock Exchange, which could value it at £50bn.

    Ms Zhu refused to provide answers on the potential listing.

    Charlie Maynard, a Liberal Democrat MP on the committee, hit out at Ms Zhu’s comments, and accused her for “wilful ignorance”.

    “I am on your website and I can see about 20 products which are all cotton…. and yet you say to our chair that you can’t state whether Shein is selling any products which are made in China, which are made of cotton? I find that completely ridiculous,” he said.

    “You mention every other spot of the compass, but you don’t mention west China, you don’t mention Xinjiang at all. It’s wilful ignorance.”

    Ms Zhu responded saying she was “doing the best I can”, and was “giving answers to the best of my ability”, which prompted Maynard to reply: “That is simply not true.”

    Appearing exasperated, Liam Byrne, chair of the committee, said for a company that sells £1bn worth of goods to consumers, and was looking to list in the UK, the committee had been “pretty horrified by the lack of evidence” Ms Zhu had provided.

    “You can’t tell us anything about listing, you can’t tell us anything about cotton in Shein products, and you can’t tell us much, in fact.”

    Byrne added that Ms Zhu’s reluctance to answer basic questions “bordered on contempt of the committee”.

    In contrast, fellow fast-fashion retailer Temu told the committee that it did not permit sellers from the Xinjiang region to sell products on the platform.

    Stephen Heary, senior legal counsel at Temu, said: “Any issues of labour practices are something that we take fundamentally very seriously.”

    Byrne said the company had given “some reassurance” over its supplier agreements.

  • Apple accusata di usare minerali provenienti da zone di conflitto

    La Repubblica Democratica del Congo ha denunciato le filiali del colosso tecnologico Apple in Francia e Belgio accusandole di usare minerali in zone di conflitto. Agendo per conto del governo congolese, gli avvocati hanno sostenuto che Apple è complice di crimini commessi da gruppi armati che controllano alcune delle miniere nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. La società statunitense ha affermato di “contestare fermamente” le affermazioni e di essere “profondamente impegnata nell’approvvigionamento responsabile” di minerali.

    Le autorità in Francia e Belgio esamineranno se ci sono prove sufficienti per proseguire con l’azione legale.

    In una dichiarazione, gli avvocati della Repubblica Democratica del Congo hanno parlato della contaminazione della filiera di Apple con “minerali del sangue”. Affermano che lo stagno, il tantalio e il tungsteno vengono prelevati da aree di conflitto e poi “riciclati attraverso filiere di fornitura internazionali, sottolineando che queste attività hanno alimentato un ciclo di violenza e conflitti finanziando milizie e gruppi terroristici e hanno contribuito al lavoro minorile forzato e alla devastazione ambientale. Apple ha respinto le accuse affermando di mantenere i suoi “fornitori ai massimi standard del settore”.

    L’est della Repubblica Democratica del Congo è una delle principali fonti di minerali e la sete globale di questi minerali ha alimentato guerre per decenni.

    I gruppi per i diritti umani hanno a lungo affermato che grandi quantità di minerali provenienti da miniere legittime, così come da strutture gestite da gruppi armati, vengono trasportate nel vicino Ruanda e finiscono nei nostri telefoni e computer.

    In passato, il Ruanda ha descritto l’azione legale del governo congolese contro Apple come una trovata mediatica, negando di aver venduto minerali di aree di conflitto alla società tecnologica.

  • Perché accade?

    Di fronte a certe tragedie, delitti, nefandezze in molti ci chiediamo perché, come è potuto succedere.

    Perché gli uomini di Hamas hanno violentato, torturato, ucciso tante persone innocenti ed indifese, perché Putin, stravolgendo ogni regola internazionale, ha deciso di diventare un criminale dando il via libera ad altri criminali che in Ucraina, a suo nome, hanno trucidato donne, uomini, vecchi e rapito bambini, perché ci sono nel mondo così tanti assassini e pedofili, perché un uomo uccide la moglie, una donna che non vuole sottostare al suo potere, perché un datore di lavoro, un lavoro irregolare e mal pagato, lascia morire senza soccorsi un uomo con il braccio troncato da un suo macchinario?

    Perché, nonostante la maggior parte di noi si consideri una persona “corretta, responsabile, giusta”, viviamo, invece, in una realtà fatta di violenze e soprusi, di ingiustizie e violenze?

    Il male è forse più forte del bene o invece il problema è che il buonismo ha preso il posto della capacità di essere buoni e ci ha tramutati da giusti in indifferenti?

    Pecunia non olet, il denaro non puzza e per averlo troppi sono disposti a tutto, denaro e potere, anche il piccolo potere da esercitare verso un essere più debole, anche contro un piccolo animale pur di sentirsi forti guerrieri del macabro.

    Satnam, scaricato in strada morente, senza che a nessuno fosse stato permesso, per volere del “padrone”, di chiamare i soccorsi, è l’ennesima vittima di una società nella quale ogni rispetto per la dignità e per vita è stato cancellato, sepolto, annullato.

    Una società dove violenza, interesse, stupidità, cinismo, indifferenza, cattiveria si mescolano insieme in una miscela tragica che induce a sperare, con tutte le forze, che esista l’inferno, la dannazione eterna per tutti coloro che con tanta crudeltà hanno fatto e fanno scempio della vita altrui.

    Intanto aspettiamo la nostra giustizia, lenta, farraginosa, spesso distratta e come tanti altri scriviamo parole nella speranza che un po’ di empatia, di umanità arrivi nella mente e nel cuore di chi pensa solo al denaro ed al potere.

  • La Cina non perde il vizio di copiare

    E’ finito ancora una volta sotto i riflettori, in negativo, il colosso cinese di fast fashion Shein. Motivo? E’ accusato di aver copiato un famoso, e ben riconoscibile, modello di borsetta a tracolla prodotto dall’azienda giapponese di abbigliamento Uniqlo che ha annunciato di aver fatto causa al gruppo cinese. Il capo, di piccole dimensione, è stato tra i prodotti più acquistati nell’ultimo anno diventando famosissimo e per questo, come spiegato da Uniqlo, è stata necessaria la citazione in giudizio perché l’azienda di e-commerce sta intaccando la fiducia dei consumatori nel suo marchio.

    Da alcuni anni Shein viene periodicamente denunciata o criticata per la sua pratica di riprodurre modelli di abiti o accessori di marchi più o meno famosi rivendendoli a prezzi più bassi. E numerose sono state, e continuano ad essere, le inchieste giornalistiche secondo le quali dietro i prezzi molto bassi dei prodotti si celerebbero pratiche di sfruttamento dei lavoratori ed un grosso impatto ambientale.

    Fondata nel 2008 dall’imprenditore cinese Chris Xu a Nanchino, in Cina Shein all’inizio vendeva abiti da sposa comprati nei mercati all’ingrosso, successivamente si è aperta al mercato dell’abbigliamento normale anticipando la diffusione delle vendite on line dei vestiti. Si stima che oggi l’azienda abbia un valore di 100 miliardi di dollari.

  • Schiavismo in Cina, denuncia contro le case automobilistiche tedesche

    I gruppi automobilistici tedeschi Volkswagen, Bmw e Mercedes-Benz sono stati denunciati dall’organizzazione non governativa Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (Ecchr) per sfruttamento del lavoro forzato in Cina. Presentata all’Ufficio federale tedesco per l’economia e i controlli sulle esportazioni (Bafa), la denuncia accusa le aziende di non aver fornito alcuna prova di un’adeguata gestione del rischio di lavoro forzato nei loro impianti nello Xinjiang.

    Si tratta della regione autonoma della Cina nord-occidentale popolata dagli uiguri, minoranza turcofona di religione islamica che, sulla base di numerose testimonianze, si ritiene sia oggetto di repressioni da parte delle autorità di Pechino. La legge sulle catene di approvvigionamento in vigore in Germania obbliga le aziende a migliorare la protezione dell’ambiente e dei diritti umani lungo le filiere globali. In particolare, le imprese che producono all’estero o vi fanno fabbricare parti dei propri beni devono assumersi la responsabilità dei processi di produzione e delle condizioni di lavoro presso fornitori. Come autorità di controllo, il Bafa monitora il rispetto della legge sulle catene di approvvigionamento e può sanzionare i trasgressori. Ora, la denuncia dell’Ecchr contro Volkswagen, Mercedes-Benz e Bmw è sostenuta dal Congresso mondiale degli uiguri e dall’Associazione degli azionisti etici di Germania.

    Nello Xinjiang, il primo dei tre gruppi ha una fabbrica per l’assemblaggio delle auto, che gestisce con il partner cinese Saic. Al momento, l’azienda sta preparando un’indagine indipendente sull’impianto ed è “in buoni colloqui” con Saic. In merito alla denuncia dell’Ecchr, Volkswagen si è detta sorpresa, aggiungendo che la esaminerà prima di commentarla. In passato, l’azienda ha ripetutamente affermato di non essere coinvolta in violazioni dei diritti umani. A sua volta, Bmw ha comunicato di “prendere molto sul serio” segnalazioni come quella dell’ong e ha precisato di non essere direttamente attiva nello Xinjiang. A ogni modo, il gruppo è in contatto con i fornitori e li esorta a chiarire eventuali dubbi. Nel caso in cui le accuse fossero ritenute valide e verificabili, verrebbero intraprese azioni appropriate per garantire il rispetto degli standard di approvvigionamento responsabile. Da parte di Bmw non è stato rilasciato alcun commento riguardo alla denuncia dell’Ecchr.

  • Dichiarazione della Commissione europea e dell’Alto rappresentante in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile

    In occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile, la Commissione europea e l’Alto rappresentante Josep Borrell hanno rilasciato la seguente dichiarazione:

    “L’Unione europea si impegna da tempo per eliminare il lavoro minorile e tutelare i diritti dei minori. Questo fenomeno rimane diffuso in tutto il mondo, insieme al lavoro forzato e ad altre forme di sfruttamento dei minori. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, il fenomeno del lavoro minorile interessa ancora 160 milioni di bambini, metà dei quali sfruttati in lavori pericolosi. In linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e con l’Appello all’azione di Durban, e come previsto dal Piano d’azione dell’UE per i diritti umani e la democrazia 2020-2024, l’Unione europea si impegna a eliminare il lavoro forzato, la schiavitù moderna, la tratta di esseri umani e tutte le forme di lavoro minorile entro il 2025.

    La Strategia globale dell’Unione europea sui diritti dei minori (2020-2024) pone l’eliminazione del lavoro minorile al centro della propria dimensione mondiale. Con il primo Piano d’azione per i giovani nell’ambito dell’azione esterna sono state proposte misure concrete di follow-up.

    L’UE aspira a diventare membro dell’Alliance 8.7 e si impegna, insieme ai partner, ad accelerare gli sforzi necessari per tutelare i diritti di tutti i minori e permettere loro di godere dell’infanzia senza subire alcuna forma di sfruttamento o abuso”.

  • Green energy ‘profiting on back of Congo miners’

    Human rights campaigners are calling on companies to increase the pay for impoverished miners in the Democratic Republic of Congo who are digging up cobalt – an essential commodity in the production of electric cars.

    Huge mining companies engaged in the switch to greener energy are making multi-billion dollar profits, while the Congolese workers digging for cobalt are falling further into poverty.

    That is the warning from two human rights groups – the UK’s Raid, and Cajj, which is based in southern DR Congo near Kolwezi where most of the world’s cobalt is mined.

    Food prices there have been soaring and the campaign groups say most miners are being paid much less than the $480 (£390) a month they need to support their families.

    They want the mining giants, including those from Europe and China that operate DR Congo’s industrial mines, to pay more, and electric vehicle companies to end contracts with cobalt suppliers exploiting miners.

    “The switch to clean energy must be a just transition, not one that leaves Congolese workers in increasingly desperate living conditions”, Cajj’s Josué Kashal said in a statement.

  • La schiavitù dietro a un prezzo troppo basso

    Di qualche giorno fa la notizia dell’arresto, da parte della Guardia di Finanza, di tre amministratori di imprese individuali nel settore calzaturiero in Lomellina.
    I tre arrestati sono accusati di sfruttamento della manodopera e intermediazione illecita in quanto obbligavano i dipendenti  a lavorare giorno e notte, 7 giorni su 7, con turni di 15 ore, senza  pause e giorni di riposo.
    I lavoratori erano anche costretti a vivere negli stessi luoghi dove lavoravano, in condizioni igieniche precarie, con giacigli approssimativi e ricevevano paghe da fame.
    Quello che particolarmente colpisce è che tutto questo avveniva vicino a Pavia, nel cuore del nord Italia!
    Sia gli amministratori arrestati che gli operai sono di nazionalità cinese e situazioni simili sono state già denunciate molte volte in passato e molte altre realtà simili rimangono, purtroppo, ancora sconosciute.
    Questo ennesimo episodio di schiavismo deve farci riflettere sulle condizioni di milioni di cinesi che in Cina, in fabbrica o in campagna, lavorano in condizioni disumane, per non parlare dei carcerati o degli uiguri costretti a lavorare in condizioni di vera schiavitù e spesso senza alcun salario.
    Ogni volta che comperiamo un prodotto il cui costo è irragionevolmente troppo basso prima di pensare che forse stiamo facendo  un affare pensiamo a quanta fatica e dolore può aver sopportato chi l’ha prodotto.
    La schiavitù, nei nostri paesi, si combatte con sempre più adeguati controlli, in paesi dove in pratica vige l’autocrazia e non c’è vera libertà dobbiamo cercare di contrastarla imparando a non avere rapporti commerciali con alcuni paesi  se prima non si ottengono e verificano un minimo di misure per la salvaguardia dei lavoratori e per il rispetto dei diritti umani.
    Lo diciamo all’Italia, lo diciamo all’Europa e all’Organizzazione Mondiale del Commercio troppo spesso pronta a chiudere un occhio verso la Cina e non solo.

  • Bambini che giocano un ruolo chiave nei conflitti in Africa

    Nei conflitti armati nell’Africa occidentale e centrale vengono reclutati più bambini che in qualsiasi altra parte del mondo. A dichiararlo è l’ONU che con la sua agenzia per l’Infanzia, l’Unicef, parla di più di 20.000 bambini che si sono uniti a gruppi armati negli ultimi cinque anni.

    I bambini sono usati come combattenti ma anche come messaggeri, spie, cuochi, addetti alle pulizie, guardie e facchini in paesi dal Mali alla Repubblica Democratica del Congo.

    L’Africa occidentale e centrale ha registrato anche il maggior numero di bambini vittime di violenza sessuale nel mondo e il secondo numero di rapimenti.

    La regione ha diversi conflitti armati in corso, tra cui insurrezioni islamiste e guerre separatiste.

    L’Unicef, oltre a tenere sempre accesa l’attenzione sulla situazione, chiede un maggiore sostegno agli sforzi per prevenire e rispondere alle gravi violazioni contro i bambini.

  • 152 milioni di fratelli

    Tanti sono stimati dall’UNICEF nel 2020 i fratelli di Iqbal Masih.

    Perché tanti sono stimati i bambini che vengono ancora sfruttati nel Mondo per lavorare in condizioni di dispotica disumanità e malnutrizione, spesso anche incatenati in luoghi di lavoro malsani e molto pericolosi. Iqbal fu uno di loro. Fu perché morì il 16 aprile del 1995 a soli dodici anni in seguito ad un colpo di fucile sparatogli alla schiena mentre andava in bicicletta con due suoi amici.

    Iqbal il cui nome in arabo significa “prosperità”, “buona fortuna”, nasce nel 1983 a Muridke, un piccolo villaggio nei sobborghi di Lahore in Pakistan da una famiglia che versava in disperate condizioni economiche. A tre anni e mezzo lavorava in una fornace vicino casa e a quattro anni fu “prestato” dal padre ad un commerciante di tappeti per estinguere un debito contratto poco tempo prima. Nonostante il bambino lavorasse fino a quattordici ore al giorno e per sei (e a volte anche sette) giorni alla settimana, il debito sembrava non estinguersi mai. Malnutrito, umiliato e picchiato quotidianamente, Iqbal riuscì a fuggire una prima volta all’età di nove anni ma fu ritrovato solo poche ore dopo dalla polizia (grazie ai soliti ruffiani) e riportato subito al suo “datore di lavoro” (d’ora in poi “il padrone” o “l’aguzzino”) che lo incatenò al macchinario dove era solito lavorare. Le punizioni erano tante e molto severe. A volte, come raccontava Iqbal, venivano costretti a stare sotto il sole dentro un recipiente di metallo senza né mangiare né bere. “Sono finito due volte dentro a quel recipiente: una volta da solo ed un’altra insieme ad un ragazzo malato di polmoni, che dopo qualche giorno morì senza che nessuno avesse chiamato un medico per curarlo”. Lo stesso anno, siamo nel 1993, insieme ad altri bambini, riesce ad allontanarsi dalla fabbrica per qualche ora per partecipare ad una manifestazione organizzata a Lahore dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Forzato (BLLF – Bonded Labour Liberation Front). Rientrato in fabbrica, si rifiutò di continuare a lavorare nonostante venisse continuamente e violentemente picchiato. Il “padrone” iniziò a minacciare anche la sua famiglia al punto da costringerla ad abbandonare il villaggio. Fra le minacce arrivò persino a sostenere che il debito anziché diminuire (dopo 5 anni di sfruttamento del bambino!!!) era piuttosto aumentato e di molto per via delle spese di vitto, alloggio e per i tanti (a detta sua) errori di lavorazione dei tappeti. La protesta di Iqbal fu così decisa che riuscì a lasciare il suo aguzzino per essere ospitato presso una struttura gestita dal Fronte di Liberazione (il BLLF). Per lui si trattò della fine di un incubo, ma non riusciva comunque ad accettare l’idea che milioni di altri bambini nel mondo vivessero in queste  disumane condizioni. Così, dopo diversi giorni di riposo ed una alimentazione più adeguata per cercare di recuperare un minimo di forze (il suo corpo rimase segnato comunque dalla malnutrizione e dalle posizioni imposte dal duro lavoro al telaio) si mise a studiare e a disposizione per viaggiare in tutto il Mondo per smuovere l’opinione pubblica sui diritti negati a milioni di bambini come lui per produrre beni (spesso inutili) di consumo. Grazie alle sue denunce di sfruttamento centinaia di fabbriche di tappeti in Pakistan vennero chiuse contribuendo alla liberazione dalla schiavitù di migliaia di bambini. Una volta raccontò che il suo più grande desiderio era quello di poter ritornare presso la casa della nonna che stava vicino al mare perché gli piaceva tanto giocare sulla spiaggia. Per la sua morte si parlò di un tragico incidente. Ad ognuno le sue responsabilità (e le sue colpe). Ad Iqbal tutta la nostra ammirazione e gratitudine.

    Se ancora oggi nel mondo vengono stimati circa 152 milioni di schiavi bambini le cause non vanno di certo solo ricercate nelle singole comunità o nazioni dove il problema è più presente (nota: in Italia nel 2013 sono stati stimati circa 260.000 minori tra 7 e 15 anni con una qualche esperienza di lavoro illegale).

    Fondamentale, infatti, è chiedersi cosa producono questi bambini sfruttati e dove vengono commercializzati questi prodotti. La richiesta di risorse minerarie e di alimenti, manufatti e prodotti di largo consumo a basso costo in questi anni è decuplicata. Miniere, cave, fornaci, vetrerie, concerie, campi di banane, caffé, cacao, laboratori e industrie tessili, plastiche, etc sono luoghi pieni di milioni bambini sfruttati e malnutriti a cui si devono aggiungere i milioni di bambini sfruttati e abusati sessualmente nell’industria del turismo sessuale mondiale.

    Se c’è la richiesta nasce l’offerta. Questo è quello che ci insegnano a scuola quando si parla della “mano invisibile” del mercato. Ma questa “mano” era invisibile nel 1800 ma oggi non lo è più. Oggi sappiamo che dietro ad un cellulare, ad un computer, ad una tazzina di caffé o ad una tavoletta di cioccolata, ad un paio di jeans, ad una T-shirt, ad un paio di scarpe da ginnastica, ad un peluche per neonati, ad un qualsiasi gadget o come dietro a centinaia di altri prodotti ci può essere sfruttamento umano e/o animale e comunque sempre ambientale.

    Allora se Iqbal è stato davvero un bambino coraggioso e a cui tutti dobbiamo qualcosa (perché dopo di lui comunque il mondo è stato un luogo migliore di quello che lui aveva trovato o meglio, che noi gli avevamo fatto trovare) noi oggi sappiamo che per contribuire anche al miglioramento delle condizioni di milioni di bambini sfruttati in tutto il mondo possiamo fare qualcosa ogni volta che decidiamo di acquistare e (ancor meglio) di non acquistare un prodotto inutile e comunque di cui la provenienza e produzione non è garanzia di rispetto e diritti dei lavoratori. Informiamoci e, dove esistono, leggiamo bene le etichette. Al contempo, dobbiamo certamente contribuire a richiedere che questi diritti vengano estesi in ogni Paese del mondo con il quale intessiamo rapporti culturali e commerciali. Domanda e offerta. Se la domanda di un prodotto è relegata solo al suo prezzo non ci meravigliamo se anche in occidente tante aziende non riescono più a sostenere i costi del lavoro esportando le loro produzioni dove i lavoratori sono sottopagati (quando va bene) e sfruttati. Pena. Il coraggio di rinunciare e/o di boicottare. La somma di tutti i nostri eccessivi e scriteriati consumi sta contribuendo, non solo a depauperare il pianeta ma anche allo sfruttamento di milioni di esseri umani e allo snaturamento della natura umana per vile denaro. Perché arrivare a sfruttare, incatenare, malnutrire un bambino (un bambino!), come anche un animale, non può e non deve essere cosa di questo mondo. Ora che la mano non è più “invisibile” non possiamo fare finta di niente.

    A voi americani piacciono i tappeti, le coperte, gli asciugamani a poco prezzo che noi produciamo […] Io mi appello a voi affinché fermiate le persone dall’usare i bambini come manodopera, perché i bambini hanno bisogno di una matita e non di strumenti da lavoro

    Tratto da un discorso di Iqbal Masih (1983 – 1995) tenuto a Boston nel 1994.

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