soldi

  • La finestra svizzera

    Voltaire una volta scrisse: “Se vedi un banchiere svizzero saltare dalla finestra salta dopo di lui perché c’è sicuramente qualcosa da guadagnare”. Una frase che esplicita quale potesse essere una volta la percezione della affidabilità dei banchieri svizzeri unita alla sicurezza ed alla professionalità espressa nella gestione degli istituti di credito svizzeri.

    Da Voltaire ad oggi molte cose sono cambiate, non sempre nella direzione auspicabile, e soprattutto l’ultima vicenda legata alla crisi di Credit Suisse ha dimostrato come le peculiarità del “Sistema Svizzero”, e quindi comprensivo delle azioni del management, risultino diluite all’interno del mondo della finanza globale.

    Negli ultimi due anni l’istituto di Zurigo ha subito sanzioni per oltre 12 miliardi in relazione ad operazioni fraudolente come quella dei titoli venduti alla clientela privi di assicurazione, senza dimenticare lo scandalo del Mozambico.

    In questo contesto gestionale opaco si inseriscono la vicenda del Ceo pedinato dall’istituto e il patteggiamento a Milano per 110 milioni di evasione fiscale.

    Tuttavia il quadro reputazionale della banca toccò il minimo storico con la sentenza del 27 giugno 2022 nella quale il tribunale di Bellinzona, in Canton Ticino, riconobbe colpevole l’istituto di credito di Zurigo di riciclaggio a favore di un narcotrafficante bulgaro.

    Decisamente una sentenza storica nell’ambito del sistema bancario svizzero che compromise inevitabilmente la ieratica immagine dell’Istituto stesso ma anche dei Banchieri svizzeri in generale.

    Del resto non va dimenticato come lo stesso salvataggio di Credit Suisse vede protagonista UBS, la quale aveva ottenuto una ricapitalizzazione con le finanze pubbliche della Confederazione durante la crisi finanziaria del 2008.

    All’interno di un mondo finanziario assolutamente globale e digitale, specialmente nell’ultimo decennio, gli istituti bancari svizzeri si trovano stretti in un angolo dalla concorrenza dei fondi privati nella creazione di nuove ricchezze e conseguenti dividendi.

    Contemporaneamente hanno perso la propria posizione monopolista, diventata nei tempi passati quasi ormai una rendita di posizione, nella gestione dei grandi patrimoni.

    In questo contesto contemporaneo in continua evoluzione la priorità dell’intero sistema bancario elvetico dovrebbe focalizzarsi nel raggiungimento di una nuova credibilità da ottenere anche attraverso la elaborazione di un nuovo protocollo simile nei contenuti e nella forma a quello entrato in vigore per la tutela della produzione industriale: lo Swiss Made.

    Nello specifico questo dovrebbe rappresentare una sicurezza aggiuntiva per la clientela internazionale rispetto alle rinnovate competenze, espressione anche di un codice etico Suisse Made, applicato anche al management esattamente come lo Swiss made assicura la filiera industriale ed alimentare.

    Da Voltaire ad oggi molti lustri sono passati e le vicende relative a troppi istituti bancari elvetici ne hanno minato il patrimonio reputazionale.

    In attesa di una rinnovata credibilità espressa dalla classe politica e dirigente svizzera attraverso una nuova tutela normativa, nel caso in cui si dovesse assistere ad un banchiere che si gettasse dalla finestra sarebbe indicato neppure affacciarsi a quella finestra.

  • L’opposizione ideologica al MES non fa bene al Paese e neanche alla salute degli italiani

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Nicola Bono

    L’On. Giorgia Meloni, nel recente Question Time, ha ribadito la sua contrarietà all’utilizzo del Meccanismo di Stabilità Europeo ed ha lasciato nel vago i tempi di ratifica del Trattato, malgrado l’Italia sia rimasta l’unico Stato a non averlo ratificato.

    Ma cosa si cela dietro questa scelta?

    Non certo preoccupazioni di inesistenti conseguenze, se perfino Tremonti, del suo stesso partito, ha escluso l’esistenza di qualsivoglia rischi paventati nel passato per l’Italia, che sono stati totalmente rimossi con la radicale modifica del MES che, appunto, essendo oggi altra cosa, impone l’esigenza di una nuova ratifica.

    E poi, basta leggere il dossier per verificare come funziona adesso il meccanismo di stabilità e per prendere atto della totale inesistenza di pericoli simil Grecia.

    L’unica condizione è che i fondi concessi vengano usati per spese sanitarie dirette e indirette, rafforzare la sanità territoriale, ma anche la prevenzione sanitaria in altri campi, come la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e delle scuole, e non sono previsti altri vincoli.

    L’unico controllo è, prima della concessione del prestito, la valutazione del debito preesistente del Paese da finanziare, che deve essere sostenibile, cosa che l’Italia ha notoriamente avuto riconosciuto; in ogni caso, nella peggiore delle ipotesi, qualora non venisse riconosciuto, l’unica conseguenza sarebbe la mancata concessione del prestito, e la questione finirebbe lì.

    Appare quindi evidente che il rifiuto dell’utilizzo del MES sia unicamente la scelta di una posizione ideologica, che è il problema di sempre di questo governo e cioè l’ossessione di caratterizzare ogni atto con il “bollino dell’identità”, anche quando viene meno la causale per invocarla.

    Ma si può morire per il feticcio di una presunta posizione identitaria storicizzata, ed oggi sul MES mal riposta? La posizione di contrasto al MES è sempre stata esagerata e strumentale a sostegno della postura euroscettica che caratterizzava il partito del Premier ai tempi dell’opposizione, ma che, almeno in apparenza, sembrava essere stata archiviata in questi mesi di governo.

    Vale davvero la pena sostenere un comportamento non certo consono ad un Paese fondatore dell’Unione Europea, che rischia di fare riemergere i dubbi e le preoccupazioni sul reale sentimento di sincera adesione alle logiche europeiste del principale partito di governo, atteso che il grido “mai al MES”, non a caso, in parlamento ha registrato l’unica adesione da parte del Movimento 5 Stelle, che è certamente la compagine politica italiana più euroscettica?

    Come si concilia tale posizione e il gravissimo ritardo della ratifica, con l’andare a Bruxelles per la riunione del Consiglio Europeo e chiedere aiuto immediato per la crisi dei flussi migratori, o per insistere sull’esigenza del debito comune per il sostegno delle imprese europee in concorrenza con il resto del mondo?

    Il ritardo della ratifica è un atto di ostilità gratuito a tutti gli altri Paesi del Trattato MES, anche perché l’adozione dell’Italia consentirebbe agli altri l’utilizzo immediato, senza alcun obbligo per noi di fruirne.

    Ed invece è proprio questo il punto e cioè, davvero l’Italia potrebbe fare a meno delle risorse del MES, almeno come ama ripetere il Premier, fino a quando resterà al governo?

    Il punto politico infatti, in base al disastro della nostra sanità, non è tanto la ratifica, ma piuttosto l’utilizzo dei 37-40 Mld di euro, che oggi potrebbero se richiesti e spesi con velocità e intelligenza, riuscire a recuperare le falle mostruose del nostro sistema e consentire di riportare il rapporto dell’assistenza medica e ospedaliera in Italia di nuovo a livelli di civiltà, salvando migliaia di vite umane, altrimenti a rischio.

    Per questo il rifiuto di queste somme non è compatibile e sopportabile con lo stato in cui versa la sanità italiana, massacrata da oltre vent’anni da una politica sciagurata, che ha imposto tagli draconiani al settore, impoverito il personale con paghe più basse del 18% in termini di potere di acquisto, riducendo gli operatori sanitari italiani, ad una delle categorie meno pagate del settore d’Europa, al punto di perdere in 10 anni oltre 10.000 medici fuggiti all’estero, priva di programmazione e strategia, con enormi territori ridotti a “deserti sanitari”, con il collasso ormai generalizzato dei pronto soccorso, luoghi ormai ridotti ad inferno dantesco, di eterne attese e violente e continue aggressioni al personale, liste di attesa che tolgono ogni speranza e, di conseguenza, un clima di sconforto generale, ed una sensazione di imminente implosione dell’intero sistema.

    Insomma una serie infinita di inadeguatezze che hanno ridotto il settore al punto da essere dichiarato dall’OCSE a rischio tenuta e quanto prima impossibilitato a garantire le cure a tutti.

    A fronte di questo scenario, il governo ha fatto poco o nulla, non riuscendo neanche a regolare il problema gravissimo dei “medici a gettone”, che guadagnano molto di più dei medici di ruolo, fino a ben 100 euro lordi l’ora, contro i 52 dei medici di organico, a causa dei vuoti del personale, specie nei pronto soccorso, dove li sostituiscono e spesso senza offrire garanzie di competenza, ovviamente a scapito dei pazienti.

    Ma anche con il PNRR il governo non è riuscito a dare granché alla sanità, specie alla medicina del territorio, avendo stanziato un finanziamento di 2 miliardi di euro per le case di comunità e 1 miliardo di euro per gli ospedali di comunità, e cioè ben poca cosa, chiaramente insufficiente a qualsivoglia inversione di tendenza.

    E ciò anche alla luce dei rilievi dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, che ha rilevato l’insufficienza dei fondi sia per riequilibrare le disomogeneità regionali, sia per garantire il pagamento del personale, presente e futuro.

    Davanti a questo disastro biblico, ed al prezzo esagerato di vite umane pagate per la pandemia, ma anche per carenze della sanità in generale, ciò che c’è da fare è l’esatto contrario di ciò che si è fatto negli ultimi vent’anni, e quindi investire su un maggior numero di medici e infermieri, realizzare più presidi territoriali, organizzare la medicina dei territori, incoraggiare di nuovo i giovani a intraprendere le carriere sanitarie, anche con l’eliminazione dei numeri chiusi  per l’accesso all’Università e fornire servizi sanitari veri ai cittadini e, quindi, la priorità è chiaramente uno sforzo eccezionale per il recupero del settore, utilizzando l’unica risorsa possibile che è esattamente il MES, con i suoi 37-40 miliardi a tasso zero per 10 anni, da utilizzare per qualsiasi necessità collegata al settore sanitario, comprese le spese per il personale, oltre che per le strutture, attrezzature e macchinari.

    L’Italia lo merita e lo meritano gli italiani, ma soprattutto lo deve il governo che non deve mai dimenticare che la politica è l’arte della soluzione dei problemi di una società e che nessuno ha il diritto di mettere a repentaglio la salute e la vita dei cittadini, per privilegiare logiche strumentali, paventando pericoli inesistenti.

    Per tali ragioni il Governo e la sua maggioranza, insieme alle opposizioni, facciano la cosa giusta, e ratifichino immediatamente il trattato del MES e ne utilizzino subito le fondamentali risorse per ricreare una Sanità degna della nostra tradizione, che possa con certezza garantire la salute e la vita degli italiani, in modo efficace, rapido ed equo in tutto il Paese.

  • Il fil rouge tra Mes e PNRR

    Come sempre la politica italiana degenera in uno spettacolo poco edificante sul dibattito relativo ad uno strumento finanziario eccezionale, come dovrebbe essere il Mes.

    Questa nuova forma di sostegno straordinario di finanzia pubblica europea rappresenta, andrebbe sempre ricordato, l’estrema ratio in caso di una crisi finanziaria di un determinato Stato appartenente all’Unione Europea.

    In altre parole, il Mes o ex Fondo Salva Stati, i cui dirigenti godono comunque di uno scudo penale e civile, interviene con l’obiettivo di fornire risorse straordinarie ad uno Stato che non riesca più a finanziarsi attraverso le emissioni di titoli del debito pubblico.

    Contemporaneamente viene riconosciuta, sempre al medesimo organismo, anche la possibilità di imporre allo Stato richiedente l’adozione di misure fiscali eccezionali una sorta di patrimoniale sugli immobili o ricchezze private o un aumento della pressione fiscale con l’obiettivo di riportare ad un nuovo equilibrio il rapporto debito pubblico/PIL anche attraverso una sua ristrutturazione.

    Risulta assolutamente fuori luogo, quindi, anche solo immaginare di utilizzare queste risorse straordinarie del Mes per sostenere interventi di aumento della dotazione finanziaria nella sanità pubblica o per fronteggiare eventuali crisi bancarie.

    Si aggiunga poi, e proprio in considerazione dell’utilizzo degli stessi fondi straordinari europei del PNRR destinati solo ad interventi infrastrutturali per accrescere a produttività del sistema economico italiano, come invece vengano utilizzati per finanziare metrobus cittadini (5/600 milioni a Padova) o per il rifacimento di scalini di parchi pubblici (Trentino Alto Adige).

    L’effetto complessivo emerge evidente, lasciando così inalterato il quadro complessivo e competitivo del sistema economico italiano.

    Tornando, quindi, al Mes il governo in carica correttamente non lo ratifica, consapevole ed allarmato da una classe politica e dirigente in grado di utilizzare uno strumento straordinario e trasformarlo in ordinario ma con straordinari effetti negativi (fiscali) per i cittadini.

    Anche solo partendo da una banale analisi relativa all’utilizzo dei fondi straordinari del PNRR si evidenzia il cristallino tradimento della sua funzione istitutiva, per la sola responsabilità dello stesso governo quanto delle giunte regionali e comunali.

    Quindi, in considerazione di questa accertata irresponsabilità, il solo ipotizzare un utilizzo di queste risorse straordinarie ed emergenziali per sostenere la spesa pubblica sanitaria o per una crisi bancaria determinerebbe sicuramente una ristrutturazione del debito, a suon di patrimoniali ed aumento della pressione fiscale, esattamente come avviene ora con il PNRR.

  • La resistenza “monetaria” dell’inflazione

    Marzo 2023: https://www.ilsole24ore.com/art/istat-rientro-inflazione-piu-del-previsto-AE6QJ53C

    Risulta incredibile come ci si possa ancora oggi stupire della resistenza del fenomeno inflattivo ad oltre un anno e mezzo dal sua primo palesarsi. Chissà se nella attuale analisi come in quelle precedenti si sia mai presa nella dovuta considerazione l’origine stessa dell’aumento dei prezzi in quanto questa “inaspettata” resistenza dello stesso fenomeno alle politiche monetarie restrittive varate tanto dalla Fed quanto dalla Bce (*) dipende ovviamente anche dalla sua Genesi.

    Febbraio 2022: https://www.ilpattosociale.it/attualita/le-due-diverse-genesi-inflattive/

    Ad oltre un anno da una imprescindibile ma omessa analisi dei principali organi finanziari ed istituzionali relativa alla stessa natura dell’inflazione si rileva, con malcelato stupore e disappunto per la sua resistenza espressa dagli organi sopracitati, l’ennesima conferma del senso di mancanza di visione di insieme della classe dirigente e politica italiana ed europea.

    (*) incapace di tarare la politica monetaria europea proprio in ragione della propria diversa genesi rispetto a quella statunitense

  • Usa, debito pubblico eccessivo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ l’11 marzo 2023

    Il debito federale americano di 31.381 miliardi di dollari è il limite posto nel bilancio dello Stato per l’anno fiscale che va da ottobre 2022 a settembre 2023. Il tetto è stato già raggiunto il 19 gennaio scorso. Vi saranno problemi per coprire le spese dei prossimi mesi.

    Janet Yellen, segretario del Tesoro, in merito ha annunciato «manovre tecniche» per posporre il default, che «produrrebbe una catastrofe economica e finanziaria». Per evitare la sospensione delle attività e dei pagamenti da parte di vari organismi pubblici si dovrà per forza sfondare il tetto del debito. Non sarà facile, data la composizione del Congresso, con la Camera dei deputati a maggioranza repubblicana.

    In tre anni il debito federale succitato è aumentato di ben 8.500 miliardi! Dal 2009 è quasi triplicato! Il Congress Budget Office, l’agenzia bipartisan che analizza gli andamenti di bilancio, stima che il deficit sarà almeno di 400 miliardi superiore del previsto. Essa aveva anche calcolato interessi sul debito pari a 282 miliardi.

    Nel frattempo, però, l’inasprimento della politica monetaria della Federal Reserve e gli aumenti del tasso d’interesse fanno stimare che il servizio sul debito raggiungerebbe i 400 miliardi di dollari. Se il tasso di sconto della Fed dovesse essere del 5%, com’era nel 2007, gli interessi sul debito potrebbero salire a 1.000 miliardi! Un aumento da non escludere, visto che lo considerano possibile la Fed di San Francisco e anche JP Morgan, la più grande banca americana.

    Alla fine, pensiamo che, come in passato, si troverà un compromesso tra maggioranza e opposizione. Ne va dell’affidabilità internazionale degli Stati Uniti. L’alternativa è dichiarare bancarotta. D’altra parte è difficile immaginare che i ministeri sospendano a lungo le attività, mettendo gli impiegati in cassa integrazione, o che in numerose città e Stati dell’Unione i vigili del fuoco o la polizia possano essere bloccati per mancanza di fondi.

    Si stanno considerando anche nuove e inedite iniziative. C’è chi propone di ripianare il deficit di bilancio coniando monete sonanti fino a un valore di mille miliardi di dollari. L’idea fu già discussa durante la presidenza di Obama. Sarebbe consentito dal 14° emendamento, Sez. 4, della Costituzione che sancisce: «Non potrà essere posta in questione la validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato con legge».

    Chi propone tale soluzione sostiene che non sarebbe inflattiva. Portano l’esempio del presidente Abramo Lincoln che, nel mezzo della guerra civile, fece una simile iniziativa. Allora, dicono, i nuovi soldi andarono a finanziare un periodo di espansione economica senza precedenti, soprattutto nella siderurgia, nelle infrastrutture ferroviarie e nella meccanizzazione dell’agricoltura, con una notevole crescita della produttività. Oggi, invece, ci sembra che ogni nuova liquidità scompaia nel “buco nero” della finanza speculativa.

    C’è anche chi vorrebbe trasferire dalla Fed al Tesoro i titoli federali, circa 6.000 miliardi di dollari, a suo tempo acquistati attraverso i «quantitative easing». Il Tesoro potrebbe, quindi, annullare questa parte del debito. Sarebbe una possibilità legale che richiederebbe ovviamente il consenso del Congresso e della Fed, ma lascerebbe la banca centrale con una voragine nei conti. Oggi, infatti, essa giustifica i passivi di bilancio inserendo detti titoli negli attivi.

    Altra idea è di coniare “monete di platino” per un grande valore, sulla base dell’Articolo 1, Sez. 8, della Costituzione che afferma: «Il Congresso ha il potere… di coniare moneta e regolarne il valore».

    In passato il Congresso ha cercato di limitare questa generale possibilità ma ha lasciato un’eccezione, la moneta di platino, che una disposizione speciale permette di essere coniata in qualsiasi importo per scopi commemorativi. Le monete di platino furono proposte al Congresso già nel 2013 ma senza successo. Tali soluzioni straordinarie appaiono molto fantasiose. Alla fine, la decisione sarà quella molto più semplice di aumentare il debito pubblico. Cosa che, però, ingigantisce la bolla e i rischi connessi.

    Per noi europei è opportuno riflettere sul fatto che negli Usa si discuta su come affrontare le emergenze finanziarie e il problema del debito pubblico. Se si pensa bene, anche i quantitative easing sono stati degli interventi straordinari per evitare il crollo del sistema bancario e finanziario. Hanno, però, stravolto i meccanismi monetari centrali. Tutto “legalmente”!

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Risparmio gestito più magro, lontano da record 2021

    Al risparmio gestito non basta un dicembre 2022 con oltre 11 miliardi di raccolta, grazie alla spinta dei mandati istituzionali (8,7 miliardi), per rimettere in sesto un anno che resta lontano dal record di 93 miliardi registrato a fine 2021 (segnato dal Covid) e che, peraltro, è stato il miglior risultato dal 2017.

    Il 2022, sferzato dalla volatilità, chiude – sulla base della consueta mappa stilata da Assogestioni- sfiorando i 20 miliardi di euro (19.7). A dicembre sul totale (11,15 miliardi) 1,58 miliardi sono gestioni collettive e 9,57 miliardi sono frutto delle gestioni in portafoglio. Quanto al patrimonio gestito scende a 2.215 miliardi euro, dai 2.260 miliardi di novembre.

    “Il dato sulla raccolta netta a dicembre è stato determinato quasi totalmente dai mandati istituzionali, i cui flussi seguono delle dinamiche su cui l’andamento dei mercati influisce in misura minore rispetto al mondo retail”, osserva Alessandro Rota, direttore Ufficio Studi di Assogestioni. “In attesa della lettura trimestrale definitiva, il segnale incoraggiante – aggiunge Rota – arriva a mio avviso dai fondi aperti, con gli azionari che continuano a catalizzare l’interesse degli investitori, consolidando un trend orientato al lungo periodo che prosegue ormai da tempo”.

    I numeri confermano infatti la resilienza dei fondi aperti, che nell’ultimo mese del 2022, hanno registrato 1,14 miliardi euro di afflussi e, in particolare, quella dei prodotti azionari, in positivo per 1,39 mld euro. Segno più anche per i fondi obbligazionari (+375 milioni), mentre restano in rosso quelli bilanciati (-342 milioni). Per i fondi chiusi invece la raccolta è stata di 444 milioni di euro. L’ammontare del patrimonio delle gestioni collettive si attesta così a 1.160 miliardi di euro, equivalenti al 52,4% del totale.

  • Il debito mondiale alle stelle

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 3 febbraio 2023

    L’aumento dei tassi d’interesse e la stagflazione, cioè la situazione che si crea quando la stagnazione economica si combina con l’aumento dell’inflazione, stanno mettendo inevitabilmente la struttura del debito sotto pressione. A giugno si calcolava che il debito mondiale globale, pubblico e privato, fosse pari a 300 mila miliardi di dollari, cioè il 350% del pil mondiale. Nel 1999 era di 200 mila miliardi. Negli Usa il rapporto è del 420%, più alto di quello della Grande Depressione degli anni Trenta e dell’immediato dopoguerra. Tale percentuale riguarda tutte le economie avanzate. In Cina è del 330%.

    I debiti in sé non sono un problema se servono a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il rischio si manifesta quando crescono in maniera sproporzionata e sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale.

    La crescita del debito mondiale ha colpito numerosi settori, come le famiglie, le imprese, le banche, soprattutto quelle cosiddette “ombra”, i governi e persino interi Paesi. In particolare i debitori chiamati zombie, gli insolventi, che sono stati mantenuti a galla dalla prolungata politica del tasso di interesse zero. Da quando la Fed e le altre banche centrali hanno iniziato ad alzare i tassi d’interesse nel tentativo di stabilizzare i prezzi, gli zombie vedono il costo del loro debito crescere costantemente. A ciò bisogna aggiungere l’erosione dei redditi, dei risparmi e della ricchezza, immobiliare e mobiliare, liquefatta dall’inflazione.

    L’ultima volta che l’economia mondiale ha sperimentato la stagflazione è stato negli anni Settanta. Allora, però, i tassi debitori erano più bassi. Oggi, invece, si potrebbe parlare del rischio di “choc da stagflazione”. Anche perché non si pensa di ridurre i tassi d’interesse per alimentare la domanda, le produzioni e i consumi.

    Vi sono poi degli eventi geopolitici che hanno avuto e continuano a creare choc negativi nell’offerta: la pandemia, la guerra in Ucraina, certe problematiche interne cinesi, ecc. Rispetto alla grande crisi finanziaria del 2008 e del periodo iniziale del Covid, questa volta non si potrà intervenire con salvataggi pubblici ai settori in difficoltà. Il rischio è generalizzato.

    Alcuni economisti americani, come il professore di Harvard, Kenneth Rogoff, già capo economista del Fmi, vorrebbero distogliere l’attenzione dalle aree di crisi degli Usa, dove, per esempio, il debito delle grandi imprese è diventato un enorme cancro e dirigerla altrove. In particolare Rogoff ha scelto il Giappone e l’Italia come focolai di crisi, perché, a suo dire, l’aumento dei tassi d’interesse renderebbe per loro sempre più difficile garantire il servizio sul debito pubblico.

    Anche i Paesi emergenti sono sotto pressione. Essi sono direttamente influenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’inflazione stanno rendendo molto difficile la gestione del loro debito. The Economist ha identificato ben 53 Paesi vulnerabili che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso che la Banca Mondiale sostiene che il 60% dei Paesi emergenti o poveri è diventato debitore ad alto rischio.

    Poiché i governi non sono intenzionati a tagliare i bilanci o ad aumentare le tasse per ovvi motivi sociali e politici, ancora una volta la patata bollente passa nelle mani delle autorità monetarie. Cresce perciò la richiesta che le banche centrali tornino a monetizzare i deficit. In altre parole, un altro periodo di quantitative easing!

     

    Altri, invece, vorrebbero globalizzare gli allargamenti monetari e finanziari facendo giocare un ruolo centrale al Fmi. Pochi mesi fa il Fmi aveva emesso una montagna di Diritti speciali di prelievo, la sua moneta, equivalenti a 650 mld di dollari. L’intervento era stato abilmente presentato come necessario al sostegno dei Paesi più poveri. In realtà, all’Africa sub sahariana sono andati soltanto 32 mld. Infatti, la distribuzione è stata fatta in rapporto al pil dei Paesi.

    Le politiche attuali potrebbero posporre le crisi ma non evitarle. Per una più adeguata gestione del debito è da farsi almeno l’introduzione di strumenti atti a contenere le varie forme di speculazione.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Un euro sempre meno utilizzato

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 31 gennaio 2023.

    Il mercato dei cambi valutari, il cosiddetto foreign exchange FX, una parte importante della bolla finanziaria e dei derivati, vive una crescente fibrillazione. Il rischio di una grave crisi è grande. A dirlo è la Banca dei Regolamenti Internazionale di Basilea nella sua recente «Triennual Survey».

    Il turnover nei mercati FX è in forte rialzo a livello globale. Nell’aprile 2022 il fatturato è stato pari a 7.500 miliardi di dollari al giorno, un volume 30 volte superiore al pil globale giornaliero. Il 14% in più rispetto al 2019. Circa il 90% delle operazioni è fatto con la valuta americana. L’euro ha una quota del 31%, in forte calo rispetto al 39% del 2010. La valuta cinese è passata da meno dell’1% di venti anni fa a oltre il 7% di oggi.

    Secondo la Bri, a rendere più difficile la gestione è la maggiore frammentazione del trading sui cambi perché si è passati a forme bilaterali di negoziazione elettronica. La Bri parla di uno spostamento da forme visibili ad altre più opache. Una delle principali fonti di vulnerabilità è l’indebitamento in dollari insito nei mercati valutari. A differenza della maggior parte dei derivati, quelli sulle valute comportano lo scambio di capitale e quindi danno luogo a obblighi di pagamento (debiti) pari all’intero importo del contratto.

    A metà del 2022 questo indebitamento in dollari ammontava globalmente a 85 mila miliardi. Se si aggiungono tutte le monete, i debiti arrivano a 97.000 miliardi di dollari, cioè pari al pil globale del 2021 e tre volte il commercio mondiale.

    Per i soggetti non bancari fuori degli Usa, per esempio i fondi d’investimento, si stimano 26 mila miliardi di obblighi di pagamento tenuti fuori bilancio, il doppio del loro debito in dollari registrato in bilancio. Nel 2016 erano 17.000 miliardi. Le banche non statunitensi hanno circa 39.000 miliardi di tali obblighi fuori bilancio rispetto a quelli registrati nei bilanci pari a 15.000. Sono più di 10 volte il loro capitale.

    Le operazioni sulle valute, quindi, creano debiti in dollari in gran parte a brevissimo termine che non compaiono nei bilanci e mancano nelle statistiche sul debito. Lontano dagli occhi, afferma la Bri, non dovrebbe tuttavia significare lontano dalla mente. In passato ci sono stati persino casi di fallimento di alcuni attori coinvolti.

    La Bri sottolinea che ogni giorno dello scorso aprile un terzo del fatturato FX, circa 2.200 miliardi di dollari, era a rischio. Un aumento del 16% in tre anni. In definitiva la Bri invita le banche centrali e i governi ad approntare con urgenza regole stringenti. Evidentemente ritiene che le parole e le danze degli sciamani della finanza non bastino.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La verità sul MES

    L’opposizione politica all’adozione del MES, acronimo del Meccanismo Europeo di Stabilità, giustifica questa scelta evocando improbabili scenari di pericolosità inaudita per i destini del Paese, senza però indicarne concretamente nessuno, ma limitandosi a ipotesi generiche e approssimative, che richiamano unicamente alla memoria il duro e sacrificato salvataggio della Grecia.

    Un esempio che non calza per niente, alla luce del fatto che l’Italia non è la Grecia, che aveva a suo tempo falsificato i bilanci ed era ad un passo dal default, e soprattutto perché l’eventuale utilizzo dei prestiti, non riguarderebbe il salvataggio dello Stato, ma costi e utilizzi contenuti e sostenibili.

    Quindi siamo di fronte ad una fobia anti MES, che mal si concilia con le logiche della politica, che devono analizzare le questioni e i dossier, per trarne il giusto giudizio e cogliere la valenza delle scelte.

    Ma quando la politica si veste con l’abito della demagogia, basta gridare al lupo al lupo e la razionalità va a farsi benedire.

    Ma l’Italia davvero vuole correre il rischio di non ratificare il nuovo MES, sulla base di pregiudizi che sono inesistenti? Ovvero giocare la carta, un tantino ipocrita, del rifiuto del governo a prendere una posizione definitiva a favore della ratifica, per lasciare la purezza del rifiuto a Premier e Ministro dell’Economia, affidando al Parlamento la “libertà” di votare a favore della ratifica, salvando contemporaneamente la narrazione demagogica e il buon vicinato con i partner UE?

    Ma davvero si sente il bisogno di un finto gioco delle parti, in cui un Parlamento di nomina dall’alto e senza alcuna libertà di scelta, pena la non ricandidatura, consenta la ratifica che i leader sotto copertura euroscettica non vogliono ufficialmente concedere? Non sarebbe ora che la narrazione uscisse dalle logiche del sì o no al MES, per prendere atto che la nuova versione non costituisce per nessun Paese, e meno che mai per l’Italia, un pericolo alla propria sovranità, specie in termini di obbligo alla ristrutturazione del debito pubblico?

    Basta leggere il dossier per verificare come funziona il meccanismo di stabilità e per prendere atto della totale inesistenza di pericoli simil Grecia.

    In primo luogo perché l’unica condizione è che i fondi concessi vengano usati per spese sanitarie dirette e indirette, rafforzare la sanità territoriale, ma anche la prevenzione sanitaria in altri campi, come la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e delle scuole. Non sono previsti altri vincoli, come quelli imposti in occasione del salvataggio della Grecia e non viene richiesta alcuna riforma economica o di bilancio.

    L’unico controllo è, prima della concessione del prestito, la valutazione del debito preesistente del Paese da finanziare, che deve essere sostenibile, cosa che l’Italia ha notoriamente avuto riconosciuto. Ma nella peggiore ipotesi, qualora non venisse riconosciuto, l’unica conseguenza sarebbe la mancata concessione del prestito, e la questione finirebbe lì.

    Ecco perché appare strumentale e parossistico l’atteggiamento di paura nei confronti delle presunte conseguenze di accedere al prestito dei fondi Mes.

    Ma c’è davvero qualcuno che potrebbe pensare che l’Italia possa finire come la Grecia?

    L’Italia con il suo PIL, il diritto di veto di cui gode, insieme a Francia e Germania, che gli proviene dalla partecipazione con il 17,7% di contributo al fondo e con la sua potenza economica, non potrebbe mai essere messa in un angolo per il prestito di appena 37-40 Mld di euro, da destinare alla Sanità nazionale, pari al valore di una manovra finanziaria.

    Come potrebbe mai un debito così insignificante, mettere il Paese in ginocchio?

    La situazione è quindi del tutto diversa, ed il punto politico non è la ratifica, ma l’utilizzo dei 37-40 Mld di euro, che oggi potrebbero se richiesti e spesi con velocità e intelligenza, riuscire a recuperare le falle mostruose della sanità nazionale, e consentire di riportare il rapporto dell’assistenza medica e ospedaliera di nuovo a livelli di civiltà, salvando migliaia di vite umane, altrimenti a rischio. Non è pensabile, per questioni ideologiche, di penalizzare ancora gli italiani.

    Il nostro sistema sanitario è stato massacrato da una miriade di tagli nei finanziamenti degli ultimi decenni, nel corso dei quali gli investimenti sono diminuiti in maniera esponenziale e gli stipendi dei medici ed infermieri, si sono ridotti dal 40% al 30% del totale. Erano 27 miliardi di euro nel 2000, sono stati 36 Miliardi di euro nel 2019, con un aumento nominale del 32%, molto più basso dell’inflazione, che nello stesso periodo è stata del 50%.

    In termini di potere d’acquisto quindi gli stipendi del personale sanitario si sono ridotti del 18%, facendo degli operatori della sanità italiana una delle categorie meno pagate d’Europa nel loro settore.

    Da qui conseguenze a cadere con i pronto soccorso strapieni e sotto stress, l’assenza di una medicina dei territori, la riduzione del numero dei medici ed infermieri in servizio, in pratica il serio rischio di implosione dell’intero sistema.

    Per questo, ciò che c’è da fare è l’esatto contrario di ciò che si è fatto negli ultimi vent’anni, investendo su un maggior numero di medici e infermieri, realizzare più presidi territoriali, organizzare la medicina dei territori, incoraggiare di nuovo i giovani a intraprendere le carriere sanitarie e fornire servizi sanitari veri ai cittadini.

    Abbiamo con il MES una fonte di risorse a costo praticamente zero, rispetto a qualsiasi altro strumento finanziario, e non è pensabile che si possa rinunciare al suo utilizzo, per questioni di identità politica o per paure astratte, che non hanno alcuna giustificazione.

    Per questo il MES va ratificato ed utilizzato, lo impone la situazione della sanità nazionale, ed il dovere di dare risposte concrete ai cittadini italiani più fragili perché bisognosi di aiuto.

  • Le bollette intaccano i risparmi, è boom di prelievi

    L’onda lunga della crisi economica generata dalla pandemia, ma soprattutto l’aumento delle bollette energetiche seguito alla guerra in Ucraina si fanno sentire sempre di più sui risparmi di famiglie e aziende. Così il salvadanaio degli italiani, dopo quasi tre anni di crescita costante, torna a svuotarsi. Un’inversione di tendenza certificata dai dati, che indicano come solo negli ultimi 3 mesi sono stati prelevati da conti correnti e altre forme di risparmio oltre 50 miliardi di euro.

    Si tratta di una diminuzione del 2,4%, spiega il Centro studi di Unimpresa, visto che a luglio l’ammontare delle riserve delle famiglie e delle imprese depositate nelle banche del Belpaese era a quota 2.097 miliardi, mentre ad ottobre la cifra è calata a 2.047 miliardi. Una fotografia scattata analizzando i dati della Banca d’Italia, spiega la confederazione delle imprese, secondo la quale “il deflusso improvviso potrebbe avere qualche ripercussione” sulla raccolta da parte delle banche e degli istituti di credito.

    “Quella che abbiamo sotto gli occhi è una situazione drammatica che noi, purtroppo, avevamo prospettato da tempo”, commenta il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara, sottolineando come “stanno venendo meno le forze e la liquidità, sia per le famiglie sia per le imprese, specie quelle più piccole. I costi sono insostenibili – prosegue – le bollette energetiche non più gestibili. Ecco perché, chi ha la possibilità attinge alle proprie riserve. Al governo riconosciamo l’impresa di aver confezionato una legge di bilancio comunque positiva e in tempi brevissimi. Tuttavia segnaliamo l’urgenza di avviare un piano straordinario di interventi pubblici e di sostegni a partire da gennaio”.

    Fino al luglio scorso, da oltre 2 anni si era registrata una crescita costante dei risparmi degli italiani, complice anche il periodo della pandemia e del lockdown che ha portato a un drastico calo dei consumi: 1.823 miliardi a dicembre 2019, 1.956 miliardi a dicembre 2020, 2.050 miliardi a ottobre 2021, 2.075 miliardi a dicembre 2021. Una tendenza all’accumulo che è proseguita per tutto l’anno in corso, salvo invertire la rotta da agosto in poi.

    Sono soprattutto i conti correnti la forma di accumulo più utilizzata da aziende e cittadini, sia durante la fase di risparmio sia come fonte a cui attingere in caso di liquidità necessaria in tempi rapidi: il saldo totale era pari a 1.182 miliardi a fine 2019, a 1.349 miliardi a fine 2020, a 1.449 miliardi a ottobre 2021 e a 1.480 miliardi a dicembre 2021, e ancora in aumento fino a 1.497 miliardi fino a luglio 2022. Poi la discesa di 45 miliardi (-3,0%) a 1.452 miliardi toccati a ottobre scorso. Più lineare invece l’andamento delle altre forme di deposito e accumulo di liquidità, come i depositi con durata prestabilita, i depositi rimborsabili con preavviso, i pronti contro termine.

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