Trump

  • Dazi danno per la Cina e boomerang per gli Usa, i due giganti cercano un’intesa

    Cina e Stati Uniti si sono dati tempo fino al 2 marzo per chiudere un nuovo trattato, secondo quanto il presidente Usa Donald Trump, e quello cinese, Xi Jinping hanno concordato a Buonos Aires, a margine del G20, per evitare una nuova ondata di tariffe su 267 miliardi di dollari di prodotti cinesi. 

    Il round tenutosi a Pechino tra le delegazioni dei due Paesi nei giorni scorsi attesta quantomeno buona volontà su entrambi i versanti. Pechino, infatti, deve fare fronte a un calo di appeal dei suoi prodotti sui mercati mondiali e i dazi americani certo non aiutano, Washington di contro deve fare i conti col fatto che proprio l’adozione dei dazi ha spinto chi commercia con la Cina ad accelerare gli scambi, prima di incorrere in nuove misure penalizzanti varate dall’amministrazione americana.

    L’avanzo commerciale della Cina con il mondo si è ridotto lo scorso anno a 351,76 miliardi di  dollari in calo di oltre il 16% dal surplus di 422,51 miliardi del 2017 quando si era contratto del 17%, secondo i dati diffusi dalle Dogane cinesi, le esportazioni totali cinesi nell’anno sono aumentate del 9,9% a 2.480 miliardi mentre le importazioni sono aumentate del 15,8% attestandosi a 2.140 miliardi. In controtendenza, lil surplus commerciale della Cina con gli Usa, grazie alla robusta domanda americana di beni cinesi, ha raggiunto, i 323,32 miliardi nel 2018, con un balzo del 17% rispetto all’anno precedente.

    Come rilevato da Il Transatlantico di Andrew Spannaus seguendo il round negoziale sino-americano dei giorni scorsi, «Sullo sfondo di trattativa e guerra di parole rimangono le domande più importanti, sul futuro della politica economica cinese. Queste riguardano prima di ogni altra cosa le prospettive di apertura del mercato agli investimenti esteri, da cui dipendono in parte le riforme del sistema cinese. L’apertura del settore bancario e finanziario, ad esempio, innescherebbe un profondo cambiamento nelle attività d’investimento in Cina e nelle attività cinesi all’estero. Il presidente Xi ha già annunciato da tempo tale apertura, ma le resistenze sono ancora molte. Come minimo si dovrà attendere la fine delle trattative commerciali con Washington (che dietro le quinte riguardano da vicino anche questo punto), per vedere cambiamenti sostanziali. Sulla stessa onda viaggiano le speranze e le aspettative delle riforme industriali in Cina. Da un lato Pechino vuole affrontare un cambiamento epocale e divenire realmente competitiva su un piano di respiro globale; dall’altro Washington vuole assicurarsi i vantaggi, che in parte già possiede, necessari per continuare a essere il principale partner commerciale della Cina e sfruttare in modo espansivo un mercato potenziale di oltre un miliardo di consumatori».

  • Le ragioni di Trump per liquidare l’accordo Usa-Urss sulle armi atomiche

    Il presidente Trump ha annunciato la sua intenzione di porre fine al trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF) del 1987, un importante trattato di controllo degli armamenti stipulato tra Usa e Urss e che ha eliminato un’intera categoria di armi nucleari negli ultimi anni della guerra fredda. Il ritiro, rileva INSS Insight, fa seguito alle continue accuse statunitensi di violazioni del trattato da parte della Russia, dapprima testando e successivamente (presumibilmente) schierando un numero limitato di missili vietati dal trattato. L’opinione degli esperti negli Stati Uniti sul ritiro previsto è divisa, in quanto la decisione avrebbe un impatto significativo sulla struttura di sicurezza nucleare tra Stati Uniti e Russia.

    Ma, prosegue INSS Insight, dietro l’annuncio c’è anche il fatto che pure l’emergere della Cina come una potenziale minaccia desta preoccupazione. La Cina, che non fa parte del trattato INF, ha schierato missili a terra a medio raggio e il ritiro dall’INF permetterebbe agli Stati Uniti di sviluppare i mezzi per contrastare questi missili con missili a terra.

    Gli Stati Uniti, la Russia e la Cina stanno tutti modernizzando le loro forze nucleari e questo – conclude l’analisi di INSS Insight – rende necessario un nuovo modello multilaterale per limitare le minacce nucleari: «La Cina e la Russia, insieme agli Stati Uniti, dovranno svolgere un ruolo di primo piano nell’elaborazione del nuovo controllo degli armamenti e dell’architettura del disarmo come mezzo per raggiungere un nuovo paradigma di stabilità strategica. Rimane aperta la questione dell’impatto che la multilateralizzazione dell’architettura di controllo delle armi nucleari USA-Russia avrà su altri stati, incluso Israele».

  • The Khashoggi Affair: Challenging US-Saudi Relations and the Stability of the Kingdom

    The Khashoggi affair, which is far from over, poses the most significant challenge to US-Saudi relations since the 9/11 terrorist attacks in the United States. Thus far, the administration’s response reflects uncertainty and ambivalence, given its understanding that Riyadh’s conduct demands a response, versus its hope that it will not be forced to acknowledge the failure of its Middle East policy, which assigns Saudi Arabia a critical role, particularly in the efforts to contain Iran. The recent events have intensified the internal unrest that has marked the kingdom for some time, against the background of the confrontational conduct of Crown Prince Mohammad bin Salman. It is important to prepare for a period of instability in the kingdom, and more important, for possible shocks to US-Saudi relations. Both these developments can be expected to impact directly and negatively on Israel’s interests, and on Israel’s ability to view Saudi Arabia as a viable partner in pursuing common goals.

    The Saudi statement that journalist Jamal Khashoggi died in the course of an altercation inside the Saudi consulate in Istanbul, and that the officials responsible, including senior Saudi officials, have been arrested and removed from their posts, was met with a positive initial reaction from US President Donald Trump. The White House, however, like other state leaderships around the world, has emphasized that the picture is not complete, and that the Saudis bear the burden of continuing the investigation and providing answers to many outstanding questions. Demands are also increasing for an independent international investigation of the matter. Parties in the West, including the US Secretary of Treasury, the Finance Ministers of Britain, Germany, and France, and the head of the International Monetary Fund, have refrained from taking part in the conference “The Future Investment Initiative”, which opened on October 23, 2018 under the auspices of the Crown Prince himself.

    The responses of President Trump and other US administration officials since the beginning of the incident have reflected their sense of being torn between an understanding that the Saudi conduct demands a response, and the hope that it will not be necessary to acknowledge the failure of the policy the US has pursued thus far vis-à-vis the kingdom, including the decision to place its hopes in Crown Prince Mohammad bin Salman (MBS); this could well endanger interests that the President has defined as essential interests. They include:

    • The President’s Image: On the one hand, concern is mounting that the incident will cast a dark shadow over the president’s judgment. Newspaper reports have noted that behind closed doors, President Trump has stressed that the close relations between his son-in-law, Jared Kushner, and the Saudi Crown Prince are a burden on US policy. The President and his administration understand that they are already taken for granted by the Saudi leadership, based on the assessment that Riyadh has them in its pocket, and that their response will help the kingdom overcome the impact of the incident. On the other hand, Trump has no interest in being perceived as a weak and hesitant leader.
    • Economic Issues: President Trump has repeatedly emphasized the price of harming Saudi investments in the United States, particularly in light of promises to purchase $110 billion in weapons (although there are doubts whether the deals in question will actually be implemented in full). The importance he assigns to this issue, and to the possible risks that would stem from imposing sanctions on Saudi Arabia, also figure in the context of the US mid-term elections (November 2018) and the desire to take advantage of the improved economic conditions in the United States as leverage to improve Republican candidates’ chances of being elected. With regard to the Saudi issue – as opposed to the issue of Supreme Court Justice Brett Kavanaugh – significant gaps exist between President Trump and leading Republican lawmakers considered close to the President, who are demanding a strong United States response to the Saudi actions.
    • Regional Policy: Even prior to the Khashoggi incident, questions emerged regarding Saudi Arabia’s ability to fulfill the central role the Trump administration had designated for it in advancing its efforts to contain and restrain Iran in the Middle East. In the United States, as in Israel, great hopes were pinned on Mohammad bin Salman, whom they regarded as a partner in the struggle against Iran and in the regional peace process. However, many in the United States now harbor far more limited expectations, particularly in light of their annoyance with Riyadh’s conduct in the war in Yemen, in the crisis vis-à-vis Qatar, and the temporary arrest of Lebanese Prime Minister Saad Hariri in the Saudi capital.

    Thus the incident continues to reverberate in the United States and the international arena, even after the Saudi version on the altercation in the consulate. Many parties, including in the regional arena (Turkey, Iran, and Qatar), have no interest in allowing the incident to disappear from the headlines. Presumably the American administration, perhaps for lack of an alternative, has yet to announce it feels the matter is closed. It is doubtful whether President Trump’s attempt to distinguish in the public mindset between the failings of the Saudi leadership on the one hand, and the role assigned to the kingdom of an important and credible strategic partner on the other hand, will succeed enough to reduce the pressure on him to issue a severe response.

    The Khashoggi affair, which is still far from over, poses the most significant challenge to US-Saudi relations since the 9/11 terrorist attacks in the United States. At least in one sense it is even more serious, as it challenges Saudi Arabia’s internal stability. At the time of the 2001 attacks in the United States, the royal family was unified and mobilized to preserve their common interests. The royal family that confronts the current incident, however, is not unified, and MBS has many opponents in the religious establishment, as well as among his half-brothers and uncles. Under the collective rule of the Ibn Saud family, which created checks and balances and resulted in a cautious and well thought-out policy that was consistent with Saudi capabilities and interests, MBS has instituted a centralized autonomous rule that employs violent methods to silence opponents.

    The monarchy was surprised by the severity of the responses to the Khashoggi affair in the international community, and as in other cases, appears to have been unprepared to deal with the fallout. Khaled bin Salman, the Saudi ambassador in Washington who is a brother of MBS and from this point on may be designated to play a more central role in the decision making process (that thus far has lacked thought and planning), has been summoned hastily to Riyadh. From a policy perspective, it appears that the King understands that his son the Crown Prince went too far, must be restrained, and must embrace a more thoughtful and cautious policy that will not result in unnecessary criticism at home or abroad. However, the King himself is elderly and ill, and the extent to which he is capable of controlling events is not entirely clear. As a result, concern exists regarding the stability of the kingdom.

    Both Washington and Jerusalem have an interest in stability of the kingdom. Consequently, Riyadh can leverage this asset, and in an effort to distance itself from some of the negative impacts of the Khashoggi affair, may suggest increasing its efforts in the struggle against Iran. It may also attempt to convince the US that there is no alternative to the current leadership regarding the necessary internal reforms, despite a worsening in the major economic parameters since the appointment of MBS as Crown Prince: in 2017 the scope of foreign investments in the kingdom (FDI) was at a 14 year low of $1.4 billion, given the fear of foreign investors and the fact that wealthy Saudis are pulling their money out of the kingdom at an unprecedented rate.

    Against this background, there is clear concern within the US administration that a possible deterioration in relations between the two countries will illustrate that President Trump’s gamble on the Saudi leadership as the backbone of his policy in the Middle East was mistaken. In practice, as the threat to the kingdom’s internal stability continues to rise on the eve of the imposition of a significant round of sanctions on Iran, there are new questions regarding the validity of the United States strategy, which aims to contain Iran in the region by means of a Saudi-led Arab coalition that constitutes the “foot on the ground” that sets in motion operative measures to curb Iran.

    Many in the US and in Israel, motivated by various interests, praised MBS despite the warning signs that began to emerge some time ago. The uncertainty in the kingdom is considerable, and the sensitivity will only increase as the king’s succession draws near. Not only is this first time that the crown is passed to a grandson of the founder of the kingdom (as opposed to a son), but the Crown Prince has acquired many opponents and has yet to stabilize his role. A period of instability in Saudi Arabia and shocks to US-Saudi relations could have a direct and detrimental impact on Israeli interests and Israel’s ability to view Saudi Arabia as a partner in its efforts to pursue common goals.

     

  • The One and Only Way to Development

    A due anni dalla sua elezione, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con la chiusura del negoziato bilaterale con Messico e Canada, ottiene l’appoggio (inaspettato solo due anni fa) anche dei sindacati per i risultati ottenuti. Va ricordato infatti come la strategia economica dell’amministrazione statunitense  inizialmente si manifestò con una politica di riduzione del carico fiscale per le aziende al fine di incentivare gli investimenti industriali (ma anche quelli in servizi)  all’intero dei confini statunitensi. Gli effetti di questa politica fiscale si manifestarono attraverso aumenti successivi dell’occupazione (effetto degli investimenti delle aziende stesse) fino a conseguire il risultato, al momento attuale, di un tasso di disoccupazione del 3.7%. Considerato al 5% il livello di disoccupazione frizionale (espressioni fisiologica di chi cambia lavoro ed entra nel mondo per la prima volta dal lavoro) questo dato del 3.7% significa piena occupazione.

    Tale incentivazione fiscale ha trovato il pieno appoggio delle aziende le quali infatti risposero attraverso investimenti finalizzati al “reshoring produttivo” da paesi a basso costo di manodopera.

    Lo stesso compianto Marchionne riportò la produzione dei Pick Up Dodge dal Messico negli Stati Uniti mentre molte altre aziende come Wal Mart o JP Morgan e la stessa Apple hanno redistribuito il “vantaggio fiscale” attraverso bonus retributivi per tutti i dipendenti, oppure hanno attivato investimenti che produrranno nuove occasioni di occupazione di medio ed alto contenuto professionale e retributivo.

    Il risultato economico complessivo vede oggi il Pil Usa al +4,2%, nonostante la stretta sui tassi della Fed assorbita dal sistema economico statunitense senza troppi problemi. Ovviamente al di qua dell’oceano Atlantico non si è compresa la valenza economica e soprattutto la dinamica occupazionale, quindi di sviluppo, di tale politica di incentivazione fiscale la quale addirittura se applicata all’intero degli Stati dell’Unione viene intesa come una forma di concorrenza sleale quasi che il principio della concorrenza sul quale si basa il mercato globale non valesse per i singoli Stati, una realtà invece ben chiara all’amministrazione statunitense.

    Allo stesso modo in Europa venne accolta la decisione di rompere il Nafta ed avviare degli accordi bilaterali sempre dalla amministrazione Trump, già sotto accusa, sempre nella “illuminata” Europa, per la politica dei dazi che avrebbe, secondo la nomenclatura europea, affossato il “libero mercato” introducendo una deriva protezionistica. La chiusura definitiva delle trattative con il Canada invece dimostra la visione strategica, economica e di sviluppo che da sempre sottende le scelte, anche controcorrente, della amministrazione americana.

    Innanzitutto nell’accordo tra Stati Uniti e Canada vengono eliminati i dazi del 300%, che gravavano sui prodotti lattiero caseari made in Usa, dimostrando che la difesa ad oltranza dello status quo di certo non rappresenta la tutela del “libero mercato”. In tal senso infatti la dichiarazione del Primo Ministro Trudeau, il quale ha confermato un piano finanziario di sostegno agli allevatori della filiera lattiero casearia canadese, dimostra di fatto l’inesistenza del libero mercato, scelta legittima ma non proprio in linea con le visioni europee. Successivamente, per i prodotti complessi industriali l’accordo prevede ed  impone particolari requisiti perché i veicoli importati negli Usa da Canada e Messico possano essere considerati ‘duty-free’. Questi infatti  devono contenere il 75% di componenti prodotti nei tre Paesi, con un salario dei lavoratori che deve risultare minimo di 16 dollari l’ora.

    Di fatto questa scelta rinnova il concetto di concorrenza (vero mantra dei sostenitori del libero mercato senza regole) tra i vari prodotti espressione dei diversi sistemi economici nazionali.

    Partendo da questi parametri infatti la concorrenza viene spostata sul contenuto tecnico qualitativo ed innovativo, come di immagine, espressione culturale di una filiera produttiva complessa.

    L’indicazione di una soglia minima di retribuzione infatti pone le produzioni dei paesi evoluti (che si manifestano anche attraverso oneri contributivi a tutela degli occupati che in tali aziende operano) parzialmente al riparo da quei prodotti espressione di delocalizzazioni estreme in sistemi industriali privi di ogni tutela per i lavoratori come per i manufatti e quindi di dumping. Mentre nel nostro Paese, come in tutta Europa, si individuano le risposta all’invasione di prodotti espressione di dumping sociale, economico e normativo (sia in termini di sicurezza per i prodotti che per la manodopera) attraverso il concetto infantile legato al semplice aumento della produttività che da sola non può certo sostenere le nostre filiere produttive gravate da oneri contributivi impossibili da compensare con un aumento della produttività.

    La dinamica e l’evoluzione delle trattative relative alla definizione dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Canada dimostrano finalmente la focalizzazione dell’attenzione sulla tutela delle filiere produttive, espressione di un approccio pragmatico e non ideologico all’economia reale che tanto  negli ultimi decenni invece aveva offuscato le strategie economiche dei vari governi occidentali ed in particolare italiano ed europeo.

    L’aver individuato una soglia minima di retribuzione (16$) per ottenere il sistema “duty free” rappresenta una intelligente inversione di approccio alla gestione della concorrenza dei paesi che basano la propria forza esclusivamente sul dumping economico e normativo relativo alla tutela delle produzioni dei prodotti come degli occupati.

    Si apre finalmente una nuova visione attraverso queste scelte di politiche economiche e fiscali che sottendono tale accordo tra Stati Uniti e Canada, da sempre sostenute da chi scrive.

    La tutela delle filiere e la concorrenza possono e devono coesistere in un sistema economico/politico aperto ma, al tempo stesso, che presenti un minimo comune denominatore accettato ed applicato da chiunque operi nel libero mercato. Quindi solo così la concorrenza si può spostare e focalizzare sul contenuto complesso del prodotto e non sulla compressione e, in taluni casi, sull’annullamento dei fattori che concorrono a determinare  il costo del lavoro.

    Tutto il restante mondo economico al di fuori di questi parametri riconosciuti nell’accordo tra Stati Uniti e Canada diventa o, peggio, rimane pura speculazione di sistemi economici basati sul basso costo della manodopera e soprattutto del suo sfruttamento. Quella indicata dall’amministrazione statunitense quindi rimane l’unica via per assicurare un mercato libero basato sulla libera concorrenza in grado di porre il principio della concorrenza imperniato per il confronto tra i diversi  prodotti come  per i servizi sulla base di parametri, quali contenuto innovativo, tecnologico, qualitativo e di immagine. In altre parole si apre una finestra sulla possibilità di redigere un nuovo protocollo che permetta, una volta applicato, la libera concorrenza. Questo accordo di fatto apre una nuova fase sulle politiche per adeguare i protocolli a tutela delle filiere nazionali. La via indicata dall’amministrazione Trump dimostra esattamente quale sia l’unica e la sola via per lo sviluppo.

    The One and Only Way to Development, appunto…

  • Sull’acciaio Trump fa scuola alla Ue

    La Commissione europea ha pubblicato un regolamento che istituisce misure di salvaguardia provvisorie sulle importazioni di prodotti di acciaio, che riguarderanno la diversione dell’acciaio da altri Paesi verso il mercato dell’Ue a seguito dei dazi recentemente imposti dagli Stati Uniti. Le misure di salvaguardia, che non interessano le importazioni tradizionali di prodotti di acciaio, sono entrate in vigore il 19 luglio.

    La Commissaria per il Commercio Cecilia Malmström ha dichiarato: «I dazi statunitensi sui prodotti di acciaio sono all’origine della deviazione degli scambi, che può danneggiare gravemente i produttori siderurgici dell’Ue e i lavoratori del settore. Non abbiamo altra scelta se non istituire misure di salvaguardia provvisorie per proteggere l’industria dell’Ue dall’aumento delle importazioni. Misure che tuttavia garantiscono che il mercato dell’Ue rimanga aperto e che manterranno i flussi commerciali tradizionali. Sono convinta che assicurino il giusto equilibrio tra gli interessi dei produttori dell’Ue e quelli degli utilizzatori dell’acciaio, come l’industria automobilistica e il settore edilizio, che dipendono dalle importazioni. Continueremo a monitorare le importazioni di acciaio al fine di prendere una decisione definitiva entro l’inizio del prossimo anno».

    Le misure provvisorie riguardano 23 categorie di prodotti di acciaio e sono istituite sotto forma di contingente tariffario. Le tariffe del 25% saranno applicate solo quando le importazioni supereranno la media delle importazioni degli ultimi tre anni. In linea con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, le misure riguardano le importazioni da tutti i paesi. Sono previste deroghe per alcuni paesi in via di sviluppo e per i paesi dello Spazio economico europeo: Norvegia, Islanda e Liechtenstein. Le misure provvisorie possono rimanere in vigore per un massimo di 200 giorni. A seguito di ulteriori indagini, che continueranno fino alla fine del 2018, potranno essere istituite misure di salvaguardia definitive.

  • Un buffone non può diventare re

    Chi si aspetta che nel mondo i diavoli vadano in giro con le corna e
    i buffoni coi sonagli, sarà sempre loro preda e il loro zimbello.

    Arthur Schopenhauer

    Il 6 luglio 2018 a Londra, durante la riunione del consiglio dei ministri, la premier britannica Theresa May ha presentato il suo programma della “Linea morbida sulla Brexit”. Programma che era stato pubblicato un giorno prima come “Libro Bianco” (White Paper). Un programma che non poteva essere condiviso e approvato da alcuni importanti membri del suo governo, ben noti come euroscettici.

    Il 9 luglio scorso le agenzie britanniche dell’informazione, e poi tutte le altre, diffondevano due notizie importanti. Di mattina presto veniva pubblicamente confermato che il ministro per la Brexit David Davis aveva rassegnato le sue dimissioni. Nel primo pomeriggio è arrivata l’altra notizia importante, quella delle dimissioni del ministro degli Esteri Boris Johnson. Tutti e due, da tempo, non condividevano il modo con il quale la premier Theresa May voleva trattare i futuri rapporti tra la Gran Bretagna e l’Unione europea.

    Un giorno dopo, e cioè il 10 luglio e sempre a Londra, in una simile scombussolata situazione politica britannica, si è svolto il vertice, ad alto livello, dei rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea e di alcuni Stati dell’Unione, con i rappresentanti dei sei paesi dei Balcani occidentali. Un vertice, nell’ambito di quello che ormai è ufficialmente noto come il Processo di Berlino, per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Il momento però, non è stato per niente appropriato. Anche per il semplice fatto che colui il quale doveva dare formalmente il benvenuto agli ospiti, cioè il ministro Johnson, un giorno prima aveva rassegnato le dimissioni. Un fatto, di per se, molto significativo. Sembrava quasi surreale e grottesco parlare di allargamento a Londra. Proprio lì, dove un giorno prima due importanti ministri avevano rassegnato le loro dimissioni perché non credevano più nella bontà dell’Unione europea, nonché nelle sue istituzioni e politiche. Mettendo così in primo piano l’eurosetticismo e offuscando il vero obiettivo del vertice. Il caso ha voluto che si doveva parlare d’allargamento, nell’ambito del Processo di Berlino, proprio nella capitale di uno Stato il quale, a fine marzo 2019, non farà più parte dell’Unione europea, in seguito al referendum del 23 giugno 2016 sulla Brexit. Perché, comunque sia, non si può non pensare ormai che la Gran Bretagna rappresenti più un paese che possa credibilmente sostenere la causa dei Padri Fondatori dell’Unione europea. Sono stati questi significanti simbolismi, che non potevano ispirare per niente ottimismo. Ragion per cui non dovrebbe essere stata sentita bene neanche la premier May, durante il sopracitato vertice, quando dichiarava che “La Gran Bretagna si sta allontanando dall’Unione europea” ma che comunque rispetterà “le responsabilità che ha per i paesi balcanici”.

    Il 13 luglio scorso a Londra è arrivato il presidente statunitense Donald Trump, una visita che non è stata per niente facile e, men che meno, amichevole. Visita durante la quale non sono mancati gli incontri imbarazzanti e le dichiarazioni provocatorie. In un’intervista rilasciata al noto quotidiano britannico “The Sun”, il presidente Trump apprezzava il dimissionario ministro degli Esteri Boris Johnson, convinto che lui “sarebbe un ottimo primo ministro”. Una sfida aperta alla premier May, con la quale si è incontrato in seguito. Ma anche la May non è rimasta a bocca chiusa. Dopo l’incontro con il presidente statunitense, lei, “maliziosamente”, ha rivelato alla BBC: “Mi ha detto che dovrei citare in giudizio l’Unione europea, non negoziare con loro, [ma] denunciarli”.

    Il presidente Trump era arrivato a Londra da Bruxelles, dopo il vertice NATO (11 – 12 luglio). Anche in quel vertice non sono mancate le minacce, le provocazioni e le dichiarazioni “forti”. Alcune delle quali “aggiustate” e “convenzionalmente ammorbidite” in seguito. Come quella del presidente Trump “di uscire dalla NATO” se gli alleati non dovessero rispettare le spese militari richieste dagli Stati Uniti. Secondo l’agenzia Associated Press, Trump avrebbe detto però, in un altro momento, che “gli Alleati della NATO abbiano deciso di aumentare le spese per la difesa oltre i precedenti obiettivi”. Affermazione contraddetta subito dal presidente francese Macron, secondo il quale non c’è stato “nessun accordo sull’aumento delle spese militari”. Per poi arrivare alle posizioni finali degli alleati. Queste sono state soltanto alcune discrepanze e contrarietà verificate e rese pubbliche mentre si svolgeva il vertice NATO a Bruxelles.

    Nello stesso periodo anche il primo ministro albanese, nelle sue vesti istituzionali, era presente in due dei sopracitati vertici. Era presente al vertice di Londra, nell’ambito del Processo di Berlino per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Era presente anche al vertice NATO a Bruxelles. Considerando sia il clima in cui sono stati svolti questi vertici, che l’importanza e l’impatto reale sui futuri sviluppi politici e geopolitici nei singoli paesi e a livello internazionale, allora si potrebbe facilmente immaginare la posizione ed il “ruolo” del primo ministro albanese in simili avvenimenti. Sia per il peso dell’Albania nella movimentata schacchiera internazionale, sia per altri, ormai pubblicamente noti motivi, anche a livello internazionale e per niente positivi. Per queste ovvie e comprensibili ragioni il primo ministro albanese si è trovato completamente trascurato da tutti, sia a Londra, che a Bruxelles. Il che per lui rappresenta un’enorme sofferenza. Perché, discreditato ormai in patria, cerca disperatamente “sostegni” internazionali. Non importa come e a quale prezzo. Anche perché le scelte si riducono sempre di più. Mentre la realtà politica e sociale albanese si aggrava ogni giorno che passa, riconoscendo in lui il principale responsabile, con tutte le probabili conseguenze.

    A fatti compiuti, risulterebbe, con ogni probabilità, che l’unico obiettivo della presenza del primo ministro albanese, sia a Londra che a Bruxelles, è stato quello di “strappare” almeno un sorriso e/o, magari, una stretta di mano di quelche “pezzo grosso” internazionale e fissare tutto in qualche fotografia. Poco importava se, così facendo, poteva diventare lo zimbello di tutti. Non a caso, commentando la fotografia ufficiale del sopracitato vertice di Londra, la BBC, con la solita ironia britannica, annotava che “qualcuno aveva dimenticato le scarpe”. Si riferiva alle scarpe da tennis bianche che portava il primo ministro albanese. Poco importava per lui, se per realizzare il suo unico obiettivo, poteva sembrare un mendicante che elemosinava un sorriso, una stretta di mano di passaggio, da immortalare subito in una fotografia. Buffonate del genere si fanno soltanto quando uno si trova in serie difficoltà di sopravvivenza.

    Chi scrive queste righe è convinto che il primo ministro albanese, dopo aver causato tanto male in patria, sta cercando disperatamente di fare il buffone all’estero, per ottenere qualsiasi supporto propagandistico. Egli, condividendo la saggezza popolare, secondo la quale un asino resta sempre un asino anche se lo ricopri d’oro, rimane altresì convinto che un buffone non può diventare re.

  • Trump non la smette di fare il ragazzaccio

    Sembra che ci trovi gusto a scandalizzare. Nel suo viaggio in Europa, prima di giungere a Bruxelles e nel corso della riunione in ambito Nato ha detto cose spiacevoli contro la Merkel, che, secondo Trump, versando molti miliardari alla Russia per l’acquisizione del gas e non pagando quello che deve al bilancio Nato, pone la Germania in una situazione di vassallaggio e non fa gli interessi dell’Occidente, mentre gli Usa le garantiscono la difesa. Dichiarazioni per lo meno grossolanamente avventate, subito controbattute caldamente dalla Merkel. Il bello è che alla fine della riunione, nel corso della conferenza stampa, Trump ha espresso elogi per la Merkel, che lavora bene ed è un’ottima interlocutrice. Proseguendo per Londra, stavolta l’attacco Trump l’ha rivolto alla May che sbaglierebbe le sue scelte per un’uscita soft dall’Unione europea. Gliel’avevo detto che quella non era le direzione giusta, ma non ha voluto ascoltarmi. Il piano d’uscita della May probabilmente ucciderebbe un patto di libero commercio tra Gran Bretagna e Stati Uniti, perché significherebbe per noi continuare a trattare con l’Unione Europea anziché con il Regno Unito. Parlando di Boris Johnson, pochi giorni dopo le sue dimissioni da ministro degli Esteri in dissenso contro il piano della premier per la Brexit, Trump dice che “sarebbe un buon primo ministro, ha quello che serve” per guidare il proprio paese: quasi un’investitura, considerate le note ambizioni di Johnson di approdare a Downing Street. Ma non è una palese interferenza negli affari interni di un Paese amico?  E sull’Unione Europea osserva: “Abbiamo già abbastanza problemi con la Ue. Non hanno trattato l’America con equità in materia di commercio, per questo sto reagendo”. Una topica via l’altra, con  dichiarazioni che subito dopo le smentiscono. E dopo aver trattato in questo modo i suoi ospiti, va a cena o a colazione con loro come se niente fosse. Dopo averla trattata in questo modo, oggi sarà a colazione con la May ai Chequers, la residenza di campagna dei primi ministri britannici. Si scuserà per le affermazioni negative fatte pubblicamente contro di lei? Non crediamo che ciò accada. Tra i “grandi”, forse, non vigono le stesse regole di galateo che si rispettano tra persone “normali”, ma si affidano agli organi burocratici i compiti che dovrebbero essere quelli delle persone. Un cenno di buon senso, infatti, è giunto da un portavoce della Casa Bianca che ha dichiarato: “Il presidente ha il massimo rispetto per Theresa May e non ha mai detto una parola contro di lei”. Da Downing Street non è giunto nessun commento, mentre la Bbc ha commentato:  “E’ come se Trump fosse passato con un bulldozer sul piano della premier per la Brexit”. Già, la May è stesa dal Bulldozer, ma Trump, tramite il suo apparato burocratico, o diplomatico se si preferisce, fa sapere che ha il massimo rispetto per lei. Buona colazione ad entrambi! Ma noi non riusciamo a capire se il presidente del Paese più potente del mondo si diverte a scandalizzare, o se usa questi modi contraddittori per fare politica. Quale politica, per favore?

  • Il vertice Nato con Trump a Bruxelles

    Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, è atterrato oggi (11/7/2018) a Bruxelles insieme alla moglie Melania, per una visita alla Nato, all’UE e al Regno Unito, prima di recarsi da Putin. Il vertice con la Nato potrebbe essere burrascoso. Trump accusa gli Stati membri di non rispettare le regole, soprattutto quelle finanziarie. Sarebbero diversi, infatti, gli Stati in arretrato con il pagamento delle quote, che corrisponderebbero al 2% del prodotto interno lordo (PIL). Il tweet presidenziale che ha suscitato polemiche e commenti insofferenti richiede agli alleati di rimborsare gli Usa per gli arretrati. Molti Paesi della Nato, infatti, – sostiene Trump – sono al di sotto del loro impegno pari al 2% ed inadempienti da molti anni nei pagamenti: rimborseranno gli Stati Uniti? Noi paghiamo troppo e loro troppo poco – continua – ma è una cosa sulla quale lavoreremo. Ora c’è il vertice Nato, poi incontri nel Regno Unito, cha ha qualche difficoltà, poi sarà la volta del Presidente russo: francamente – conclude Trump – quest’ultimo potrebbe rivelarsi il più semplice di tutti. Chi l’avrebbe mai detto?

    E’ proprio il rapporto con Putin ch preoccupa non poco gli alleati europei e il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha reagito con un ammonimento: Cara America, apprezza i tuoi alleati; dopotutto non ne hai così tanti e l’Europa spende di più per la tua difesa, perché tutti rispettano un alleato che è ben preparato e dotato. Il denaro è importante, ma generalmente la solidarietà lo è di più”.

    I leader europei della Nato temono il rimbrotto di Trump per i ritardi dei pagamenti, ma non è chiaro se sono disposti a versare gli arretrati menzionati. Che cosa può succedere in caso negativo? Quali potrebbero essere le reazioni del presidente americano? Qualcuno teme l’annullamento della partecipazione a qualche esercitazione della Nato, oppure che ritardi lo spiegamento, già concordato, di truppe ed equipaggiamenti in Europa. Temono anche che Trump, senza alcuna consultazione con gli alleati, possa stringere accordi con Putin. Di che genere? Con quali eventuali ripercussioni sull’Europa e, in particolare, sui paesi europei confinanti con la Russia?

    Quello con Trump, per gli europei, sarà comunque un vertice con un elevato rischio di imprevedibilità, accentuata non da un’accurata preparazione diplomatica, ma preannunciata da messaggi non affidati agli ambasciatori, ma lanciati attraverso il social network  Twitter. Non c’è che dire. L’uso dell’informatica fa progressi, speriamo che sostituendo la diplomazia non faccia danni. Un dato tuttavia è certo: l’uso di questo nuovo strumento da parte del presidente del più potente Paese del mondo per fare politica ha già creato timori ed incertezze. Qual è il vero obiettivo di Trump? Giova all’America creare divisioni in Europa? Chi sarà disposto a offrirle la solidarietà che l’Europa le ha garantito fino ad ora? Ne sapremo di più a conclusione del vertice e del viaggio a Helsinki?

  • Pensieri

    Positivo che Francia e Germania con Italia e Spagna si confrontino per trovare finalmente soluzioni comuni,  e cioè europee, al decennale problema migranti, sperando che arrivino anche i fatti dopo le dichiarazioni. Meno positivo è che per smuovere le acque paludose di un’Europa vecchia di idee e povera di contenuti ed azioni siano stati più utili i toni duri di Salvini che le tragiche realtà ed inadempienze di questi anni.

    Cosa ha impedito all’Europa di comprendere la comune realtà? Di trovare solidarietà reciproche, di modificare quell’orrido accordo di Dublino? Se anche le voci dall’Italia non sono state né incisive né coerenti negli anni passati la realtà era ed è, comunque, sotto gli occhi di tutti i leader europei, così come sono da tempo evidenti le inadempienze di alcuni Paesi. Se siamo ancora in un contesto sociale internazionale nel quale si dà ascolto a chi urla di più e non ai ragionamenti ed ai confronti si avvicinano tempi bui.

    Difendere da ingressi incontrollati ed eccessivi le proprie frontiere non può tramutarsi in azioni violente che colpiscono comunque i bambini. Le iniziative del Presidente americano cancellano qualunque immagine degli Stati Uniti come Paese leader per il rispetto dei diritti umani, una nazione che per anni concedeva la cittadinanza a chi andava a combattere a suo nome e che oggi separa i bambini piccoli dai propri genitori non può ergersi a paladina, nel mondo, di libertà e democrazia, come dimostrano le molte guerre fatte per motivi economici e non certo di giustizia. E se nel passato l’America ha più volte sbagliato, lasciando spesso agli altri il peso e le conseguenze delle sue colpe, oggi dimostra di aver perso per sempre i valori della frontiera, quei valori che anche i film di una volta ci insegnavano, e cioè che la giustizia ed i buoni alla fine trionfano, oggi più che mai è solo il dio denaro che conduce la politica.

    Diceva Voltaire “se vuoi parlar con me fissa i tuoi termini”, vale a dire che nel parlare si deve sapere cosa si sta dicendo e se a volte si usa un linguaggio provocatorio per ottenere maggiore attenzione è anche vero che di provocazione in provocazione si può arrivare a non essere più credibili. La cosiddetta schedatura dei Rom è certamente incostituzionale come non appartiene ad un Paese civile che vi siano zone nelle quali si vive in mezzo alle immondizie, i bambini non vanno a scuola e molti delinquono professionalmente. Così come non è da Paese civile che ormai a due anni dal terremoto le macerie siano ancora lì e troppe persone senza casa ed aiuto per ricominciare. Abbassare i toni e migliorare i contenuti è l’invito che rivolgiamo al governo perché troppi hanno l’impressione che i toni siano tenuti alti non solo per fini elettorali ma perché non si sa ancora come risolvere i molti problemi che affliggono il Paese e che non dipendono dai Rom…

  • L’atteggiamento non amichevole di Trump al G7 in Canada

    L’atteggiamento inusuale di Trump, che alla riunione del G7 di Malbaie in Canada rifiuta di firmare il documento conclusivo sul commercio internazionale, dopo averlo discusso con gli altri sei partner e abbandona la riunione prima del tempo previsto per recarsi all’incontro a Singapore con il presidente della Corea del Nord, lascia esterrefatti i leader partecipanti e solleva qualche interrogativo. Perché un simile atteggiamento che prefigura una rottura? Quali insegnamenti trarre dall’unilateralismo di Trump? Va condannato senza appello come una violazione della fiducia tra alleati? Che cosa rappresenta veramente questo inalberarsi di un attore imprevedibile e senza disciplina?

    “Si può ipotizzare che l’unilateralismo del presidente americano rappresenti simultaneamente un rifiuto del multilateralismo come metodo di negoziato paritario e un riaffiorare del concetto di sovranità, come esercizio del potere egemonico e incarnazione post moderna di un soggetto che “decide in situazioni eccezionali”. Situazioni nelle quali traggono origine dei conflitti che non possono essere decisi né attraverso negoziati, né attraverso il ricorso a norme (quelle dell’OMC ad es.), e tanto meno attraverso l’intervento di un terzo non impegnato (Putin, in questo caso)”. (Irnerio Seminatore, direttore dell’Istituto europeo di relazioni internazionali di Bruxelles). Il quale continua: “Il potere di ritiro esercitato da Trump appare d’un colpo come illuminante, poiché procede politicamente da una indifferenza sovrana alla logica degli Stati rappresentativi e non si riconosce per niente in un obbligo multilaterale. Così la legalità e l’ordinamento giuridico delle istituzioni sopra-nazionali non costituisce il fondamento e nemmeno l’origine della legittimità di una decisione. L’unilateralismo di Trump restaura non solamente la soggettività politica della sovranità, ma la corrente della diplomazia neo realista, che si oppone ai paradigmi della tradizione democratica, espressi dalla “volontà generale” di Rousseau, l’unità politica del popolo e la finzione dello Stato di diritto.” Questo unilateralismo traduce in realtà la volontà di potenza di uno Stato dominante e la scelta razionale e intuitiva di un decisionista bonapartista, che impone nuove regole del gioco. Rappresenta anche una rottura della tradizione liberale che si situa al di fuori di ogni sistema convenzionale e normativo. Si tratta, in fondo, dell’attualizzazione dello “stato d’eccezione”, come rottura dettata dall’interesse nazionale degli Stati Uniti, di fronte alla minaccia nucleare di Kim Jong-Un e allo sconvolgimento geopolitico del centro di gravità strategico della scena planetaria”. Tutto ben detto. E’ un’analisi colta questa di Seminatore! E’ il tentativo di interpretare il gesto di Trump secondo i parametri della politologia ed i principi della diplomazia. Il tentativo è lodevole, ma forse inutile. Più che di politologia e di diplomazia si tratterebbe di psicologia e di psicoanalisi. Le risposte sarebbero molto più chiare e gli insegnamenti da trarre avrebbero a che fare con il carattere e l’educazione del personaggio in questione che, è facile riconoscerlo, non sono proprio tra i migliori. Ciò non vuol dire che le conseguenze non siano da vituperare, anzi! L’Europa non può farsi bistrattare in questo modo ed i cattivi caratteri che non la rispettano devono essere trattati per quel che meritano, nelle forme e nel rispetto dei sacrosanti principi della diplomazia.

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