Usa

  • Dalla Fondazione Italia USA 200 borse di studio per il master online “Leadership per le relazioni internazionali e il made in Italy”

    La Fondazione Italia USA ha rinnovato per il 2024 il bando che offre 200 borse di studio Next Generation per il master online “Leadership per le relazioni internazionali e il made in Italy”, allo scopo di sostenere concretamente i giovani nel loro ingresso nel mondo del lavoro globale e delle sfide internazionali.

    Il sito del master da cui presentare la candidatura è masteritaliausa.org, sezione Borse di Studio Next Generation.

    Il master è svolto in collaborazione con Agenzia ICE e GEDI Gruppo Editoriale che commissionano il project work, è diretto dall’ex ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca prof. Stefania Giannini, presieduto dall’ambasciatore Umberto Vattani, presidente della Venice International University, e si avvale di un panel didattico di prestigio internazionale formato da oltre 35 docenti. Il master opera all’interno del programma accademico delle Nazioni Unite, UNAI – United Nations Academic Impact del quale la Fondazione Italia USA fa parte.

    “Sono i giovani – ha indicato il ministro dell’Università Anna Maria Bernini nel suo messaggio agli studenti del master – che hanno il compito di immaginare e realizzare l’Italia del futuro. Auspico che questa esperienza formativa contribuisca a formare menti aperte, visionarie, coraggiose ed internazionali. Il Paese ha bisogno della vostra tenacia, del vostro entusiasmo e della vostra creatività”.

  • Gli Usa piegati dagli interessi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 18 novembre 2023

    Le guerre e gli scontri geopolitici in corso hanno oscurato certe preoccupanti tendenze economiche negli Usa e anche nel resto del mondo. Non hanno cancellato le realtà. Basti osservare attentamente gli andamenti finanziari di oltre oceano. L’agenzia di stampa Bloomberg stima che a fine ottobre 2023, il pagamento degli interessi sul debito pubblico federale, calcolato su 12 mesi, ha raggiunto circa 1.000 miliardi di dollari. Il livello annualizzato degli interessi pagati è raddoppiato rispetto alla fine di marzo 2022.

    È l’effetto combinato del Quantitative Easing e dell’immissione di liquidità, con i quali la Federal Reserve ha sostenuto il sistema durante la crisi pandemica, e poi con i successivi aumenti del tasso di sconto per contenere l’inflazione, prodotta in parte proprio dal QE. Il governo americano pagherà più interessi sul debito anche rispetto alle già stratosferiche spese militari!

    Nell’anno fiscale 2023, che è terminato il 30 settembre, il deficit di bilancio è stato di 1.700 miliardi di dollari, un aumento di 320 miliardi, cioè il 23% in più rispetto a quello dell’anno fiscale precedente. La gran parte di quest’aumento si deve alla crescita di ben 184 miliardi per interessi sul debito. Sarebbe stato di 2.000 miliardi se la Corte Suprema non avesse bloccato il programma di cancellazione del cosiddetto “debito degli studenti”. Il debito pubblico ha superato 26.200 miliardi, con un aumento di circa 2.000 miliardi rispetto al 2022. A ciò ha contribuito molto la diminuzione delle entrate di ben 457 miliardi, dei quali 456 sono meno tasse sui redditi dei cittadini. Altro che ripresa, è una realtà amara per la maggioranza della popolazione americana.

    Gli alti tassi d’interesse hanno reso i prestiti più costosi, aumentando così la pressione anche sul debito americano. Oggi i Treasury bond a 10 anni hanno un tasso di interesse di quasi 5 %, tre volte il livello di due anni fa! Nei mesi scorsi l’aumento dei tassi ha mandato a gambe all’aria parecchie banche regionali che erano piene di titoli pubblici a basso rendimento. La crescita dei tassi è andata di pari passo con l’inflazione. Adesso si afferma che quest’ultima sarebbe scesa al 3%. Molti si affidano alla smorfia napoletana per “indovinare” quali saranno i tassi futuri dei T-bond.

    Questa situazione rischia di generare un permanente stato d’instabilità del bilancio federale. Il rischio di un shutdown al primo di ottobre era stato evitato all’ultimo minuto con un accordo bipartisan alla Camera dei deputati. Per legge, le agenzie federali devono far approvare dal Congresso i programmi di spesa per spendere i soldi. Il shutdown implica la sospensione di numerose operazioni del governo federale per mancanza di soldi, con effetti negativi sui lavoratori pubblici, sull’economia e sull’intera cittadinanza.

    Senza nuovi accordi, il prossimo 17 novembre ci potrebbe essere un nuovo shutdown. Probabilmente sarà ancora una volta evitato, ma queste montagne russe per il bilancio federale non sono un bel biglietto da visita per il resto del mondo.

    A giugno scorso fu evitato il default con un accordo bipartisan, il “Fiscal Responsibility Act of 2023”, che sospende il fatidico tetto del debito federale fino al primo gennaio 2025. L’accordo prevede un limite di spesa discrezionale di 1.590 miliardi di dollari per due anni. In altre parole, il governo può prendere prestiti e spendere di più di quanto fissato nel bilancio federale. La ragione della crisi era dovuta al fatto che già in gennaio si era raggiunto il tetto del debito previsto per il 2023 di 31.400 miliardi. L’agonia fu protratta fino a giugno con “misure straordinarie” di carattere amministrativo-finanziario.

    Persino due agenzie di rating americane, Standard &Poor’s e Fitch, da sempre molto generose nei confronti dei titoli americani, hanno dovuto ritoccare al ribasso il loro rating circa la capacità di ripagare il debito. Gli Usa hanno perso la tripla A, il massimo dei rating, e ciò potrebbe avere un effetto sia sul costo del debito sia sulla propensione degli investitori a fare prestiti al governo federale. Moody’s ha invece confermato la tripla A ma con un outlook da stabile a negativo.

    Gli Usa guardano avanti e si aspettano che in dieci anni il debito federale sarà di 52.000 miliardi di dollari. Per il momento sembrano voler ignorare le cause profonde delle crisi, della finanza speculativa, delle banche too big to fail, dello shadow banking per concentrasi, invece, sul taglio delle spese sociali di bilancio e sull’aumento delle tasse. Non offrono nessuna idea nuova per affrontare i problemi succitati e i loro riverberi negativi in tutto il mondo, a partire dall’Europa.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Number of Venezuelan migrants at US-Mexico border halves

    The number of Venezuelans illegally crossing the US-Mexico border has nearly halved since deportation flights restarted last month.

    Statistics from Customs and Border Patrol (CBP) indicate a 46% drop in such arrivals.

    In early October, US President Joe Biden’s government announced it would deport Venezuelans who were ineligible for asylum or temporary legal status.

    More than seven million people have fled Venezuela in recent years.

    According to the CBP figures released on Tuesday, border agents apprehended 29,637 Venezuelans at the border last month, a sharp drop from September’s record high of 54,833.

    Overall illegal entries along the southern border also decreased in October by 14% – from nearly 219,000 in September.

    On 18 October, US Immigration and Customs Enforcement (ICE) began deportation flights to Venezuela. Since then, hundreds of Venezuelans have been sent home.

    Acting CBP Commissioner Troy Miller said the “resumption of removal flights… consistent with delivering consequences for those who cross the border unlawfully” had contributed to the dramatic decline of Venezuelan illegal migrant detentions.

    In September, the US also said that about 472,000 Venezuelans would be eligible for Temporary Protected Status (TPS) for a period of 18 months.

    Those granted TPS status are eligible to work while they wait for their asylum cases to be heard.

    The influx of Venezuelan migrants into US cities such as New York, Denver and Chicago has become a politically contentious issue, with even some Democratic elected officials criticising the Biden administration for its handling of the issue.

    New York City Mayor Eric Adams, for example, blamed the federal government for not providing enough assistance to help the city house and provide services for newly arrived migrants.

    The economy of oil giant Venezuela has collapsed under socialist President Nicolás Maduro, who has been in power since 2013.

  • Per la prima volta una donna al comando della Marina americana

    Si chiama Lisa Franchetti, ha 38 anni, è l’ex capo della 6a flotta statunitense e delle forze navali statunitensi in Corea del Sud ed ha anche servito come comandante d’attacco della portaerei. Sarà lei a guidare, per la prima volta nella sua storia, la Marina americana dopo il voro favorevole del Senato.

    La sua nomina è stata approvata con 95 voti, il Senato ha spinto infatti per colmare quel gender gap che ancora caratterizza la leadership militare. Unico voto contrario quello di un senatore repubblicano per protesta contro la politica abortiva del Pentagono.

    Con la nomina di Lisa Franchetti da parte del presidente Joe Biden per la prima volta una donna è a capo di un ramo del servizio militare del Pentagono poiché la Guardia Costiera degli Stati Uniti, guidata da una donna, l’ammiraglio Linda Fagan, rientra nel Dipartimento per la Sicurezza Nazionale e non nel Dipartimento della Difesa.

  • US-China chip war: Beijing unhappy at latest wave of US restrictions

    China has hit back at the Biden administration’s decision to impose new restrictions on advanced chip exports.

    The foreign ministry said the curbs “violate the principles of the market economy and fair competition”.

    The measures target chipmaking tools as well as advanced chips, including two from market leader Nvidia.

    The move is being seen as an attempt to close loopholes that became apparent after aninitial wave of chip controls last October.

    America said the measures were designed to prevent China from receiving cutting-edge technologies that it could use to strengthen its military, especially in the field of artificial intelligence (AI).

    The Biden administration has denied it was trying to hurt China economically, but Beijing’s foreign ministry branded the move “forced de-coupling for political purposes”.

    Chinese stock markets which feature chip-related companies have seen modest falls since the announcement. The CSI Semiconductor Index dropped 1.4% on Wednesday, while the STAR Chip Index lost 1.2%.

    An index tracking China’s AI companies also closed 1.8% lower.

    US chip stocks have also seen falls as the curbs also hit American firms Advanced Micro Devices and Intel.

    Nvidia has said in a filing that the new export restrictions will block sales of two high-end artificial intelligence chips it created for the Chinese market – A800 and H800. It said that one of its gaming chips will also be blocked.

    Although the curbs also affect other chip makers, analysts believe Nvidia will be hit the hardest because China accounts for up to 25% of its revenues from data centre chip sales. Nvidia’s shares, which are considered a star stock, fell by as much as 4.7% in the wake of the announcement.

    The Semiconductor Industry Association, which represents 99% of the US semiconductor industry by revenue, said in a statement that the new measures are “overly broad” and “risk harming the US semiconductor ecosystem without advancing national security as they encourage overseas customers to look elsewhere”.

    Two months ago, China retaliated by restricting exports of two materials, gallium and germanium, which are key to the semiconductor industry.

    China is by far the biggest player in the global supply chain of gallium and germanium. It produces 80% of the world’s gallium and 60% of germanium, according to the Critical Raw Materials Alliance (CRMA) industry body.

    The materials are “minor metals”, meaning that they are not usually found on their own in nature, and are often the by-product of other processes.

    Besides the US, both Japan and the Netherlands – which is home to key chip equipment maker ASML – have also imposed chip technology export restrictions on China.

    The constant tit-for-tat between the world’s two biggest economies has raised concerns over the rise of so-called “resource nationalism” when governments hoard critical materials to exert influence over other countries.

  • Amazon: US accuses online giant of illegal monopoly

    US regulators have sued Amazon, alleging that the internet giant is illegally maintaining monopoly power.

    The Federal Trade Commission (FTC) said Amazon uses “a set of interlocking anticompetitive and unfair strategies” to push up prices and stifle competition.

    Amazon said the lawsuit was “wrong on the facts and law, and we look forward to making that case in court”.

    It is the latest technology giant to be sued by US regulators.

    The FTC’s boss, Lina Khan, has had Amazon in her crosshairs for years.

    In 2017, Ms Khan, then only 29, published a major academic article arguing the online retailer had escaped anti-competition scrutiny.

    “With its missionary zeal for consumers, Amazon has marched toward monopoly,” she said at the time.

    Since her surprise appointment as FTC Chair in 2021, this case has been widely expected – and viewed as a crucial test of her leadership.

    The dominance of a handful of powerful tech firms has led some US politicians to call for action that would promote more competition in online search, retail and social media.

    However, the FTC under Ms Khan has had little to show for its strong rhetoric against Big Tech.

    In February it lost its attempt to stop Meta from buying VR company Within.

    And in July it lost an attempt to block Microsoft from completing its deal to buy the maker of Call of Duty.

    There is pressure on Ms Khan to make at least one high profile complaint stick – and at the FTC they have high hopes for this case.

    The agency, along with 17 state attorneys, claims that Amazon is a “monopolist” that stops rivals and sellers from lowering prices.

    The regulator also alleged the internet giant’s actions “degrade quality for shoppers, overcharge sellers, stifle innovation, and prevent rivals from fairly competing against Amazon”.

    However, Amazon says that if the “misguided” FTC lawsuit is successful, it would mean fewer products to choose from, higher prices, and slower deliveries for consumers.

    The key part of the case involves consumers losing money – getting worse deals – because of the alleged monopoly.

    US anti-competition legislation is complicated, but generally, prosecutors have to show companies have acted in a way that hurts consumers financially.

    That isn’t always an easy thing to prove when it comes to Big Tech, as many of their services are free – like Google’s search engine or Meta’s Instagram.

    Earlier this month, a court battle began between Google and the US government, which has accused it of having an advertising technology monopoly.

  • Secondo il “Washington Post” la Cina ha sfruttato la pandemia per raccogliere dati genetici a livello mondiale

    Le agenzie d’intelligence occidentali temono che la Cina abbia sfruttato la pandemia di Covid-19 per raccogliere una vasta mole di dati sul genoma umano a livello mondiale, da sfruttare per ottenere un vantaggio nella “corsa alle armi genetica” con gli Stati Uniti. Lo scrive il Washington Post, che ricorda come durante la pandemia Pechino abbia inviato aiuti a numerosi Paesi sotto forma dei sofisticati laboratori portatili di analisi genetica “Fire-Eye”. Il primo Paese a ricevere uno di questi laboratori, alla fine del 2021, fu la Serbia. Oltre a rilevare le infezioni da coronavirus tramite l’analisi di frammenti del virus, il laboratorio portatile sviluppato dalla Cina è in grado di svolgere complesse analisi del genoma umano, come vantato dai suoi sviluppatori: per questa ragione, l’arrivo di un esemplare del laboratorio Fire-Eye venne accolto con entusiasmo dalle autorità di Belgrado, che vantarono in quell’occasione di disporre “del più avanzato sistema di medicina e generica di precisione nella regione”.

    Nel corso della pandemia, Pechino ha donato o venduto laboratori analoghi a numerosi altri Paesi, e ora, secondo il WP, diversi analisti sospettano che la generosità della Cina sia parte di un tentativo di attingere a nuove fonti di dati genetici umani di alto valore in tutto il mondo. Si tratterebbe di uno sforzo intrapreso da Pechino da oltre un decennio ricorrendo a diversi metodi, che includerebbero anche l’acquisizione di società statunitensi del settore e una serie di operazioni di pirateria informatica. La pandemia avrebbe offerto ad aziende e istituti cinesi l’opportunità di distribuire strumenti per il sequenziamento del Dna umano in aree del Globo dove in precedenza Pechino aveva accesso limitato o nullo. I laboratori Fire-Eye si sono diffusi infatti in almeno quattro continenti e in più di 20 Paesi, inclusi Canada, Lituania, Arabia Saudita, Etiopia, Sudafrica e Australia. In diversi Paesi, come la già citata Serbia, i laboratori portatili si sono trasformati in centri di analisi genetica permanenti.

    Liu Pengyu, un portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, interpellato dal Washington Post ha negato categoricamente che Pechino possa aver avuto accesso ai dati genetici raccolti dai laboratori di sua produzione, evidenziando che oltre ad assistere i Paesi beneficiari nel contrasto alla pandemia, i laboratori donati e venduti dalla Cina stanno fornendo assistenza cruciale nello screening di altre malattie, incluso il tumore. L’azienda con sede a Shenzhen che produce i Fire-Eye, Bgi Group, sostiene di non avere accesso ai dati raccolti dai suoi laboratori portatili. Fonti statunitensi consultate dal quotidiano affermano però che Bgi sia stata selezionata da Pechino per edificare e gestire la China National GeneBank, un vasto archivio governativo dei dati genetici raccolti dalla Cina, che includerebbe già dati e profili genomici di milioni di individui di tutto il mondo. Lo scorso anno il Pentagono ha inserito Bgi nella lista delle “aziende militari cinesi” operanti negli Stati Uniti, e nel 2021 l’intelligence Usa ha stabilito che l’azienda sia legata allo sforzo globale del governo cinese teso a ottenere informazioni sul genoma umano a livello mondiale, anche negli Stati Uniti.

  • Biden precipita nei sondaggi, in un possibile testa a testa con Trump perderebbe di nove punti

    In un ipotetico testa a testa fra Joe Biden e Donald Trump alle elezioni del 2024, il presidente in carica otterrebbe il 42 per cento dei sostegni contro il 51 per cento del suo predecessore. Lo dice l’ultimo sondaggio elaborato insieme dall’emittente statunitense Abc e dal Washington Post, con un aumento di tre punti percentuali per Trump e in calo di due per Biden rispetto al precedente sondaggio di febbraio. Il presidente democratico perde punti sia sul fronte della gestione economica che dell’immigrazione, con il 44 per cento dei partecipanti al sondaggio che ritengono di vivere sotto il suo mandato in condizioni finanziarie peggiori rispetto a prima. Una cifra, osservano gli analisti delle due emittenti, mai così alta dal 1986 per un presidente in carica. Ad oggi, solo il 37 per cento degli intervistati afferma di approvare le prestazioni di Biden, mentre il 56 per cento le disapprova.

    Sulla gestione dell’immigrazione al confine tra Stati Uniti e Messico, la valutazione di Biden è ancora più bassa. Sono in linea con le scelte di Biden solo il 23 per cento degli intervistati, mentre sul fronte di una valutazione generale del suo operato ben il 74 per cento dei partecipanti al sondaggio sono convinti che Biden sia troppo vecchio per un eventuale secondo mandato, dato in aumento di sei punti percentuali rispetto allo scorso maggio. Anche Trump è ritenuto troppo vecchio per ricandidarsi da un 50 per cento degli intervistati. Dal sondaggio emerge tuttavia un deciso sentimento anti-Biden, al punto che in caso di caduta del governo il 40 per cento afferma che attribuirebbe la colpa principalmente a lui e ai democratici del Congresso, contro un 33 per cento che riterrebbe responsabili soprattutto i repubblicani. Gli intervistati che affermano di aver votato nel 2020 riferiscono di aver sostenuto Biden rispetto a Trump con una percentuale del 50-46 per cento, molto vicina al risultato effettivo, pari al 51-47 per cento.

    L’immagine di Trump appare migliorata. Il 48 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver approvato la sua performance quand’era presidente, sebbene all’epoca secondo i sondaggi a sostenerlo era appena il 38 per cento. Altrettanti (il 49 per cento), tuttavia, sostengono di disapprovarlo oggi, una cifra che appare in calo rispetto al 60 per cento delle voci che lo criticarono a gennaio del 2021, quando lasciò l’incarico. Secondo Abc è in ogni caso degno di nota il fatto che Trump continui ad animare un certo dibattito sulle sue prestazioni da presidente, nonostante ben il 60 per cento degli statunitensi intervistati respingano con decisione la convinzione del “tycoon” secondo cui le elezioni del 2020 gli sarebbero state rubate: solo il 29 per cento pensa che Biden non abbia vinto legittimamente ed un ulteriore 12 per cento non si esprime.

    In vista del 5 novembre 2024 – data delle 60sime elezioni presidenziali Usa – e prima ancora delle elezioni primarie attese all’inizio dell’anno, il 62 per cento degli intervistati democratici e degli indipendenti sono convinti che il partito dovrebbe scegliere un altro candidato alla presidenza, mentre solo un terzo rimane fedele a Biden. Malgrado però il desiderio elevato di un candidato diverso, il 56/58 per cento non dà risposte chiare su chi dovrebbe essere l’alternativa. In una domanda a risposta aperta, l’8 per cento degli intervistati ha espresso una preferenza per la vicepresidente Kamala Harris, uguale percentuale per il senatore Bernie Sanders e il 7 per cento per Robert F. Kennedy Jr., nipote dell’ex presidente John Fitzgerald Kennedy. Per quanto riguarda Trump, l’ex presidente gode di un sostegno intrapartitico molto più ampio: il 54 per cento dei repubblicani e degli indipendenti di orientamento repubblicano lo favoriscono per la nomina nel “Grand Old Party” (Gop), ancora una volta risultati simili ai risultati precedenti e ben davanti alla sua opposizione. Il suo principale rivale ed attuale governatore della Florida, Ron DeSantis, ha il 15 per cento di sostegno, in calo rispetto al 25 per cento di maggio.

  • Gli Usa mandano armi a Taiwan

    L’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha approvato per la prima volta la fornitura di armi a Taiwan nell’ambito di un programma federale di assistenza militare diretta per Paesi stranieri. Il dipartimento di Stato ha informato il Congresso federale dell’approvazione di un pacchetto di aiuti militari a Taiwan del valore di 80 milioni di dollari: un importo relativamente contenuto, ma che rende Taiwan beneficiaria per la prima volta in assoluto del programma federale “Foreign Military Financing”, concepito per contribuire alle capacità di difesa di Paesi alleati e amici degli Stati Uniti. Tramite il ricorso al programma, la Casa Bianca finanzierà il pacchetto di aiuti militari attingendo ad un bilancio suppletivo già approvato per l’assistenza militare all’Ucraina. Prima d’ora i governi statunitensi non avevano mai concesso armi a Taiwan tramite programmi di assistenza diretta, una misura che rischia di essere interpretata dalla Cina come un riconoscimento indiretto della statualità dell’isola. Il dipartimento di Stato ha insistito ieri che il ricorso al programma di finanziamento non implica un riconoscimento della sovranità di Taiwan.

    Soltanto il 26 agosto Washington ha approvato la vendita a Taiwan di sistemi d’arma per un importo complessivo pari a 500 milioni di dollari, segnalando un ulteriore rafforzamento del sostegno militare all’isola nonostante le obiezioni della Cina. Secondo il dipartimento della Difesa Usa, le vendite includeranno sistemi di puntamento a infrarossi e altri sistemi per cacciabombardieri F-16. La decisione coincide con l’annuncio da parte di Taiwan di una spesa aggiuntiva pari a 2,97 miliardi di dollari per l’acquisto di armamenti il prossimo anno. Circa la metà dei fondi aggiuntivi verrà destinata all’acquisto di aerei da combattimento, e i fondi rimanenti andranno principalmente ai sistemi navali.

  • Aerei Usa nel Golfo Persico per impedire sequestri di navi da parte di Teheran

    Gli Stati Uniti hanno deciso d’inviare caccia F-16 nella regione del Golfo Perisco, in particolare intorno allo Stretto di Hormuz, per meglio proteggere le navi in transito da tentativi di sequestro da parte dell’Iran. Lo riportano i media Usa citando una fonte del Pentagono, secondo la quale Washington è sempre più preoccupata dai crescenti legami tra Iran, Russia e Siria.

    Gli F-16 si uniranno agli aerei da attacco A-10 che stanno già conducendo attività di pattugliamento dell’area da oltre una settimana. Questo dopo che a metà luglio l’Iran ha cercato di sequestrare due petroliere in transito attraverso lo Stretto, aprendo anche il fuoco contro una di esse. In entrambi i casi, le imbarcazioni iraniane sono tornate indietro dopo l’arrivo dell’incrociatore statunitense Uss McFaul.

    La fonte anonima del Pentagono ha spiegato che gli F-16 garantiranno copertura aerea alle navi e miglioreranno le capacità di controllo delle forze armate Usa nell’area, oltre a costituire una forza di deterrente contro nuovi attacchi iraniani. Lo stesso funzionario del dipartimento della Difesa ha aggiunto che gli Stati Uniti stanno considerando diverse opzioni sul tavolo per rispondere ai sempre più frequenti attacchi aerei della Russia in Siria, che complicano le operazioni degli Stati Uniti contro lo Stato islamico. Washington, ha aggiunto la fonte, continuerà in ogni caso a effettuare missioni di antiterrorismo nella parte occidentale del Paese.

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