Processi

  • In attesa di Giustizia: contrappasso

    C’è qualcosa di allegorico, cabalistico, nella parabola professionale e di vita di Piercamillo Davigo che da magistrato del Pubblico Ministero aveva promesso di “rivoltare l’Italia come un calzino” magnificando lo standing dei suoi colleghi di funzione: “i magistrati sono il meglio della società civile ed i pubblici ministeri sono il meglio del meglio del meglio”, poi da giudicante aveva presieduto i Collegi di Corte d’Appello e di Cassazione  trasformandoli in altrettanti Comitati di Salute Pubblica; del resto, ipse dixit, non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Anche lui, viene ora da chiedersi?

    L’inesorabile trascorrere degli anni gli ha fatto terminare anzitempo la consiliatura al C.S.M. e da pensionato ha intrapreso quella di editorialista per un quotidiano giacobino che, nella versione cartacea, può essere destinato solo agli scopi meno nobili. Ma la parabola non si era ancora conclusa: l’ultima delle esperienze nel mondo della giustizia l’ha fatta in un ruolo che mai avrebbe immaginato, a stretto contatto – orrore! – con un avvocato cui ha affidato il compito di difenderlo smentendo se stesso a proposito del giudizio di appello, ritenuto superfluo e causa di malfunzione del sistema, ma che ha già preannunziato dopo la sua condanna.

    Quest’ultimo segmento di vita è stato scandito anche da correlazioni enigmaticamente realizzatesi: Davigo è stato rinviato a giudizio proprio nel giorno in cui ricorreva il trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio alla macelleria giudiziaria di “Mani Pulite” di cui è stato indiscusso protagonista e la sua sentenza di condanna è stata pronunciata mentre si celebrava la memoria di Silvio Berlusconi che, praticamente da solo, ha dato per decenni motivo di esistere alla Procura di Milano ed alla “casella delle lettere” messa a disposizione dal Corsera: se si vuole sapere il perché e gli si vuole dare credito, basta leggere il primo libro intervista di Luca Palamara con Sallusti.

    Torniamo a Brescia: il momento della lettura di una sentenza è un passaggio di grande solennità che si ascolta in piedi e le prime parole sono sempre “In nome del Popolo Italiano…” dando corpo al canone 101 della Costituzione; in nome di quel Popolo, a rappresentarlo durante la pronuncia di condanna, vi era anche Francesco Prete, che è il Procuratore Capo di Brescia, a fianco dei suoi sostituti che avevano condotto le indagini ed il dibattimento: un gesto volto a dimostrare che in quell’Ufficio ci si era mossi con iniziative condivise e probabilmente anche sofferte perché rivolte nei confronti di un ex collega.

    Francesco Prete, ai tempi di Mani Pulite, era un giovane P.M. in forza proprio a Milano e la sua stanza era vicina a quella di Davigo ma non ha mai fatto parte del famoso (o famigerato) pool: lavoratore, equilibrato, studioso, il suo tragitto professionale lo ha portato a dirigere tre Procure (Vasto, Velletri ed infine Brescia) senza mai cercare il “colpo di teatro”, l’inchiesta sensazionalistica che aiuta la carriera o – comunque – offre notorietà e non l’ha perseguita nemmeno ora che le regole di competenza per i processi ai magistrati assegnano a Brescia i procedimenti a carico di quelli milanesi e proprio la sua Procura di un tempo rivela l’esistenza di un verminaio di prassi opache, per usare un termine garbato, di cui si è sempre avuto il sospetto: Francesco Prete ha mantenuto un basso profilo con interviste ridotte al minimo, riserbo e parole misurate che dovrebbero essere patrimonio di chi svolge ruoli sensibili come il suo.

    Contrappasso anche in quest’ultima immagine che raffigura due uomini divenuti inaspettatamente avversari e due modi diversi di interpretare la funzione giurisdizionale mentre un comunicato della Giunta dell’Unione Camere Penali, senza (troppo) sarcasmo, auspica che nel futuro di Davigo, ora che ha scoperto il diritto all’appello, vi siano Giudici con una concezione delle impugnazioni diversa dalla sua.

    Ci mancava la solidarietà, obiettivamente un po’ di maniera, del nemico di sempre per trasformare in fiele il contenuto del calice già amarissimo toccato in sorte all’ultimo (speriamo) dei grandi inquisitori.

    Un augurio di buona sorte, nel rispetto della presunzione di innocenza non si nega a nessuno e lo formuliamo anche noi ma quello in cui è inscritta la parabola discendente di Piercamillo Davigo è come un arazzo che, attraverso ironie e contrappassi, sembra intessuto di una Giustizia quasi poetica.

  • In attesa di Giustizia: giustizia vista mare

    Trani è una città meravigliosa, affacciata su un mare cristallino, ricca di storia, di cultura, di bellezze architettoniche: tra queste vi è Palazzo Torres, edificio del XVI secolo, dirimpettaio della Cattedrale romanica, adibito agli Uffici Giudiziari ed ospita una delle Procure più fantasiose della Repubblica specializzata in quella giustizia creativa di cui questa rubrica si è interessata alcune settimane fa. Creativa non meno che birichina, per usare un garbato eufemismo.

    Chi scrive ha sperimentato quasi tutte queste caratteristiche nel corso di oltre un lustro destinato prima alle indagini e poi alla celebrazione di un processo la cui impalcatura accusatoria era altrettanto eufemistico definire strampalata: proveniva conforto dalla vista dell’Adriatico dai finestroni dell’Aula dove si celebrano i processi penali e da un collegio difensivo di grande competenza e simpatia.

    Tra noi difensori diventati grandi amici, al piacere di condividere quella trasferta si aggiungeva però la preoccupazione per il destino del giudizio ma non tanto perché si dubitasse dell’esito favorevole quanto per le voci che si rincorrevano sistematicamente circa l’imminente arresto di alcuni magistrati locali e quello che ne sarebbe potuto derivare. Alla fine furono in tre: due P.M. ed il loro Capo, nel frattempo transitato a dirigere la Procura di Taranto (dove, pure, sembra abbia fatto danni) ma il nostro processo, sia pure tra molte difficoltà, era nel frattempo approdato alla scontata assoluzione di tutti gli imputati.

    Come si è anticipato, la fantasia non era mancata nemmeno nel formulare quelle imputazioni, nel solco di una tradizione dei Procuratori tranesi che sembra  privilegiare  l’estro del momento più che un coscienzioso studio del codice penale: dall’indagine sulle agenzie di rating, a quella nei confronti di Deutsche Bank per la vendita di titoli di Stato italiani, per proseguire con l’inchiesta sulle presunte pressioni di Silvio Berlusconi per la chiusura della trasmissione Annozero, passando per le investigazioni a carico di dirigenti dell’American Express per truffa e usura; ciliegina finale sulla torta, un’ultima sul legame tra vaccino e autismo. Cosa c’entrasse Trani in tutto questo non è neppure ben chiaro.

    Procedimenti, uno per l’altro, terminati con un nulla di fatto e tutti a firma del medesimo magistrato: uno score da fare impallidire persino Gigino De Magistris, meglio noto, ai tempi della sua esperienza catanzarese da P.M., come “Gigi Flop” o anche il Pubblico Mistero (senza la n!) in ragione della miserevole sorte delle sue elefantiache indagini.

    A Trani, però, come si è già annotato, sono anche birichini e altri due P.M. (uno è proprio l’eccentrico inquirente le cui gesta sono state poco sopra celebrate) sono stati recentemente condannati in via definitiva a severissime pene – quattro mesi uno e sei mesi l’altro – per avere interrogato alcuni testimoni cercando di ottenere la confessione di avere pagato delle tangenti con la moral suasion all’altezza di una caserma della gendarmeria di Ouagadougu e sollecitazioni a liberarsi la coscienza con frasi del tipo: “dal carcere c’è una visuale sul mare stupenda e, secondo me, col problema che ha le farebbe pure bene…”. A Trani sono vista mare anche le patrie galere.

    Delicatissimo, come direbbe Christian De Sica, se non altro in confronto ai metodi inquisitori dei domenicani.

    I lettori vorranno, a questo punto, sapere che destino attenda ora questi due: in galera non andranno perché la pena è con la condizionale e nel frattempo sono rimasti a svolgere le loro funzioni. D’altronde, c’è scritto in tutti i Tribunali che “La legge è uguale per tutti” …perché avrebbero dovuto essere discriminati rispetto ai colleghi di Milano che, peraltro, sembra si siano in tempi recenti “limitati” a nascondere le prove a discarico degli imputati e non ad estorcere confessioni? E sono rimati al loro posto.

    Riflettendo su usi e costumi “milanesi”, anche all’epoca di Mani Pulite si usavano metodi intransigenti per ottenere confessioni ma, se non altro, erano un po’ meno grossier.

    Ebbene, l’autorevole e rigoroso Organo di autogoverno della magistratura si è pronunciato da qualche giorno ed i due P.M. di Trani sono stati sospesi per un po’ a riflettere sulle loro birichinate e poi, via! A Torino a fare i Giudici Civili, quasi evocando con la nuova funzione una virtù dimenticata e da coltivare: la civiltà. Questa volta, tuttavia, non nella veste di parte processuale che può solo avanzare richieste ma di decisori delle cause loro assegnate in un settore del diritto che non hanno mai praticato e per il quale si può solo sperare che abbiano attitudini migliori sconfessando l’antico adagio: studia, studia, altrimenti finirai a fare il pubblico ministero.

  • In attesa di Giustizia: elegant dinners

    La culla del diritto (che sarebbe, poi, l’Italia: si può dire perché il 1°aprile è trascorso da poco) ha esportato oltreoceano uno dei suoi più recenti – rispetto ad immarcescibili istituti del diritto romano, come l’usucapione – prodotti giuridici: la giustizia di scopo ovvero ad orologeria.

    Ecco, ci mancava questo in un Paese che ritiene conseguito un traguardo di civiltà perché ai condannati a morte, invece che friggerli sulla sedia elettrica, viene iniettato un farmaco miscelato con dei sedativi (quando ci sono e quando se ne ricordano) che arresta il cuore mentre si apre il sipario davanti al boia ed un selezionato pubblico di invitati può assistere al supplizio come se fossero al Telegatto.

    Il riferimento è, chiaramente, al processone a carico di Donald Trump, rispetto al quale si è detto molto e molto confusamente, lasciando intendere che riguardi torbide storie di corruzione ma, in realtà non è così.

    Pagare una porno star (o, forse, due) per tacere a proposito di una trascorsa intimità, foss’anche prezzolata, non è un reato, soprattutto se il silenzio non è stato opposto in veste di testimone ad un’Autorità ma rispetto ai tabloid.

    Si dirà che, se di cotanta infedeltà coniugale si fosse subito saputo, la corsa per la Presidenza degli Stati Uniti poteva andare diversamente ed a favore di Hilary Clinton (una, tra l’altro, che ha esperienza in materia): ma se questo è il punto critico, il vero problema è che la prova di un ipotetico e bizzarro crimine di turbativa elettorale, conseguenza di inconfessati peccati contra sextum, risulta diabolica.

    Il tutto a tacer del fatto che non risulta che prima di allora “The Donald” sia stato un esempio di virtù maritali e non solo quelle: siamo, allora, al cospetto di un eccesso di puritanesimo tipico di una cultura rigorosamente calvinista, peraltro non nuovo su quelle sponde dell’Atlantico, verosimilmente valso a “colorire” un po’ l’iniziativa della Procura.

    Infatti neppure l’adulterio, probabilmente, è da considerarsi illecito penale ma non siamo così esperti nel diritto nordamericano (diverso per ogni Stato, più una normativa Federale) per escluderlo completamente se si tiene conto che, solo dopo la sentenza della Corte Suprema Lawrence vs. Texas del 2003 sono stati decriminalizzati una serie di atti sessuali (i lettori comprenderanno il riserbo nel declinarne dettagliatamente le caratteristiche in questa pagina) che ancora costituivano reato in ben quattordici Stati dell’Unione, eredità di norme coloniali britanniche con radici nella religione cristiana più risalente nel tempo.

    Insomma, a guardare bene tra i capi d’imputazione, si scopre che il problema non sono cene eleganti ed, ancor più, dopocena brillanti bensì il fatto di aver registrato come spese legali una trentina di fatture ad un legale per sistemare le Olgettine di laggiù e piuttosto che la mercede corrisposta alle signorine per i loro servigi ed il riserbo mantenuto in proposito.

    E qui ci sarebbe da discutere se una minuziosa fatturazione per prestazioni effettivamente svolte da un consulente, pur atipico, e pagate con soldi propri sia un reato tributario: ma si sa, a quelle latitudini con il fisco non si scherza e la storia di Al Capone lo insegna.

    Da qui a dire che elevare una montagna di incriminazioni per le quali l’accusato rischia – come pare – oltre un secolo e mezzo di carcere appare, sotto qualsiasi profilo, francamente eccessivo.

    Il vero problema che il caso Trump pone è, però, un altro: se sia solida una democrazia che per difendere se stessa dalla minaccia di un candidato ritenuto indegno e pericoloso debba ricorrere alla “giustizia di scopo”.

    Qui ne sappiamo qualcosa e l’esempio non sembra il migliore da seguire…saranno effetti della globalizzazione. Se qualcuno fosse punto da vaghezza di conoscere nel dettaglio l’indictement, il New York Times lo ha pubblicato per intero, battendo sul tempo Chi l’ha visto, Report e Quarto Grado:  basta collegarsi al sito per scaricarlo.

    Tra le imputazioni c’è anche la conspiracy che corrisponde più o meno alla nostra associazione a delinquere e sarebbe interessante capire perché nessuno degli altri presunti cospiratori sia stato chiamato alla sbarra – magari trascinato in catene come Amatore Sciesa – insieme all’ex Presidente cui, invece, è stato evitato l’oltraggio delle manette sebbene formalmente in arresto per una manciata di minuti.

    In conclusione, all’ombra dell’Empire State Building con perfetto tempismo rispetto alla imminente campagna elettorale, non si sono fatti mancare nulla o quasi di una coreografia che dai tempi di Mani Pulite ci è ben nota e di quello che non pare essere un modello di Giustizia da emulare.

  • La Commissione propone norme sul trasferimento dei procedimenti penali tra Stati membri

    La Commissione europea ha adottato una proposta di regolamento sul trasferimento dei procedimenti penali tra Stati membri. L’aumento della criminalità transfrontaliera ha portato a un aumento dei casi in cui diversi Stati membri sono competenti a perseguire lo stesso reato. Azioni penali parallele o multiple possono non solo essere inefficienti e inefficaci, ma anche ledere i diritti delle persone interessate in quanto una persona non può essere perseguita o punita due volte per lo stesso reato.

    La proposta contribuirà pertanto a prevenire la duplicazione dei procedimenti e a evitare casi di impunità quando è rifiutata la consegna nel quadro del mandato d’arresto europeo. Contribuirà inoltre a garantire che il procedimento penale si svolga nello Stato membro più adatto, ad esempio quello in cui si è verificato prevalentemente il reato. Le norme comuni comprenderanno: un elenco di criteri comuni per il trasferimento di un procedimento, nonché i motivi per rifiutare il trasferimento; un termine per la decisione sul trasferimento di un procedimento; norme sulle spese di traduzione e sugli effetti del trasferimento di un procedimento; obblighi relativi ai diritti degli indagati e imputati e delle vittime; norme sull’uso del canale digitale transfrontaliero per la comunicazione tra autorità competenti.

    Al fine di migliorare l’efficienza della procedura di trasferimento, il regolamento proposto introduce una competenza giurisdizionale in casi specifici. Si prevede che esso ridurrà il livello di frammentazione, garantirà una maggiore certezza del diritto e, in ultima analisi, aumenterà il numero di procedimenti penali trasferiti con successo.

    Il regolamento proposto dovrà ora essere discusso e approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio prima di entrare in vigore.

    Poiché la proposta riguarda procedure transfrontaliere, per le quali sono necessarie norme uniformi, la Commissione presenta una proposta di regolamento, strumento direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri e obbligatorio in tutti i suoi elementi. Un regolamento assicura pertanto un’applicazione comune delle norme in tutta l’UE e la loro entrata in vigore contemporaneamente.

  • In attesa di Giustizia: si fa presto a gridare all’ingiustizia

    In un Paese in cui il giustizialismo è alimentato da ininterrotte lezioni di pseudo diritto impartite in perfetta malafede da stampa votata alla disinformazione e talk shows che sembrano non avere scelta differente dall’invitare il pensionato Davigo a sproloquiare di inesistenza di innocenti ed infallibilità delle Procure, ogni assoluzione suona come un’ingiustizia. Ed alcune paiono più inaccettabili di altre.

    In questa rubrica è stato già trattato l’esito del processo per il crollo della struttura alberghiera a Rigopiano e solo dopo pochi giorni è intervenuto un altro proscioglimento ritenuto scandaloso: quello per la “Torre dei piloti” del porto di Genova, si ricorderà, l’urto di una nave contro la torre di controllo portuale.

    In appello, a dieci anni di distanza dall’evento – questi sono i nostri tempi – si è avuta una riforma sostanziale della sentenza di condanna di primo grado per omicidio colposo plurimo, attentato alla sicurezza dei trasporti ed altri gravi reati: tutti assolti gli iniziali imputati, con indignazione altisonante e diffusa tra i famigliari delle vittime che alimenta diffuso malumore nei confronti dei giudicanti.

    Sarebbe sempre buona cosa conoscere gli atti – il che non è – ma qualche considerazione può essere fatta provando a spiegare in parole semplici quale possa essere la complessità di accertamento delle responsabilità per reati come questi: colposi, cioè a dire commessi non per volontà di commetterli ma per una forma di negligenza o imprudenza.

    Uccidere il coniuge non amato per ereditare, per esempio, significa commettere un reato doloso programmando ed organizzando la morte per interesse. Facile: omicidio volontario.

    Viceversa, investire un pedone nel procedere ad alta velocità e non riuscendo a frenare per tempo, uccidendolo, esclude che vi fosse la volontà di togliere la vita a quella persona, pur essendone responsabile della morte. Omicidio colposo.

    In questo esempio la colpa risiede in un comportamento di guida rischioso violando le regole del codice della strada. Comportamenti illeciti così diversi avranno, però, causato lo stesso dolore nei familiari delle vittime: anzi maggiore nel reato colposo, perchè l’omicidio è senza movente, e come si suole dire, “non si può farsene una ragione”. Ed è difficile far accettare ai parenti di quelle vittime che la pena per il reato colposo sarà di entità minore a quella per l’omicidio volontario e di grado inverso al loro dolore.

    A prescindere dall’esemplificazione volutamente essenziale, l’accertamento dei reati colposi può essere molto complicata soprattutto per quella particolare categoria di reati colposi, che più di ogni altra assurge ai palcoscenici mediatici: si chiamano “reati omissivi impropri” nei quali la condotta colposa non consiste in una semplice imprudenza ma nell’aver omesso un comportamento che, secondo l’accusa, avevi il dovere di compiere. Qui il copione si complica, altro che la banale storia di un pazzo che entra in un supermercato con il mitra e stermina venti persone: se il medico avesse fatto per tempo una tac, mio figlio, forse, si sarebbe salvato; se i pubblici amministratori avessero avvertito del pericolo dopo quel primo sciame sismico, le vittime del terremoto, forse, si sarebbero salvate; se i tecnici della manutenzione avessero fatto in modo più completo i controlli dovuti, l’aereo, forse, non sarebbe precipitato…. Il giudice, in questi processi deve condannare o assolvere stabilendo per prima cosa quali fossero i doveri dell’imputato, che egli avrebbe omesso di adempiere; poi, deve mentalmente ricostruire cosa sarebbe invece accaduto se l’imputato avesse adempiuto al proprio compito. Laddove da questo esercizio logico, che già in partenza è privo di riscontri fattualmente certi, derivi il risultato che le vittime si sarebbero salvate, l’imputato verrà condannato; altrimenti, anche solo in presenza di un dubbio sulla ricostruzione logica della catena causale, sarà assolto.

    Quindi, nemmeno basta provare che l’imputato non fece il proprio dovere: per condannarlo occorre provare che se invece l’avesse fatto, le vittime si sarebbero certamente salvate.

    Sono questi i processi difficili, come quello della Torre dei Piloti, in cui sono indispensabili la conoscenza accurata dei fatti e di problematiche tecniche ed il lavoro, l’autonomia, l’indipendenza anche emotiva del giudice meritano sempre il massimo rispetto. Processi nei quali il senso di responsabilità dei mezzi di informazione dovrebbe esprimersi nelle forme più intransigenti. E sono invece proprio questi i processi che i media celebrano come la cronaca di una drammatica partita nella quale il dolore delle vittime – sacrosanto ed inestinguibile – viene cinicamente agitato come bandiere nelle curve di uno stadio soprattutto se alto può levarsi il grido “Ingiustizia!”. Pur senza aver letto una riga del fascicolo, prima ancora che sia motivata la sentenza e, meno che mai, avere capito cosa c’è scritto.

  • In attesa di Giustizia: comici involontari

    Uno dei più subdoli principi su cui fondare la responsabilità degli accusati fu teorizzato ai tempi di Mani Pulite e da allora largamente condiviso e applicato: soprattutto in presenza di qualcuno da condannare a tutti i costi pur senza avere uno straccio di prova.

    Qualcosa, tuttavia, sembra stia cambiando: la Procura di Latina indaga sulle presunte malefatte di una cooperativa i cui amministratori avrebbero malversato fondi pubblici, golosamente intascati invece di distribuirli come salario ai dipendenti ed impiegarli a vario titolo per la corretta gestione della attività. Del dovuto riserbo e del rispetto del segreto istruttorio neanche a parlarne, e fin qui niente di nuovo: di questo aspetto dovremo riparlare.

    La grande novità cui si deve plaudire è  proprio il superamento in questo caso del principio del “non poteva non sapere” a vantaggio di uno stivalato difensore dei braccianti, dei poveri e degli oppressi sebbene sia legato da strettissimi vincoli con le indagate principali che, non solo lo lascia indenne da informazioni di garanzia (e di ciò, nel rispetto delle regole, vi è da compiacersi), ma provoca alternati sussulti di inatteso garantismo da parte di quella sinistra che vi aveva abdicato ab immemorabile. Bene ma non benissimo posto che l’autodifesa – di avvocati per ora sembra non esserci bisogno – non si è basata sulla strenua negazione dell’illegalità ma sulla assoluta inconsapevolezza di quanto pare accadesse all’interno dei componenti dello stato di famiglia ed è culminata con la illustrazione di un diritto che, sino ad ora, non risulta canonizzato né da codici né da pensatori illuminati e progressisti come – tanto per citarne uno –  Martin Luther King: il diritto all’eleganza. Insomma, la moglie di Cesare è un modello al di sopra di ogni sospetto che non conosce oblio e c’è chi tra lacrimevoli sfoghi riesce a regalare momenti di involontaria comicità.

    Questa settimana, poi, il Ministro della Giustizia ha osato preannunciare lo stimolo ad alcune riforme di matrice apertamente liberale subito intese come una dichiarazione di guerra alla magistratura, risultando in particolare intollerabili le affermazioni a proposito di separazione delle carriere tra giudicanti ed inquirenti e buon governo dello strumento delle intercettazioni.

    L’indomita reazione è stata affidata – tra i primi – al Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati il quale ha pianto per le bestemmie alla Costituzione uscite dalla bocca del Guardasigilli, dimenticando che – sia pure timidamente ma in maniera chiara – la nostra Carta fondamentale all’articolo 107 già delinea la netta distinzione tra Giudici e P.M.;  per non farsi mancare nulla, a proposito di intercettazioni, ha ricordato che una legge intesa a regolarne la pubblicità e punire chi ne fa oggetto di indebita divulgazione. Peccato che abbia omesso di rilevare che i casi di indagine e condanna per questo illecito uso di materiale investigativo siano statisticamente irrilevanti: un’altra pièce comica che si risolve in straordinario assist per un finale da avanspettacolo con Macario affidato al Direttore del quotidiano che, non a caso, ha come azionisti di riferimento proprio un comico in pensione oltra ad un impomatato leguleio.

    Tuona Marco Travaglio, dalle colonne de Il Fatto Quotidiano, chiama alle armi il popolo dei giusti e degli onesti per fronteggiare con adeguata durezza e la proverbiale profondità di pensiero qualsivoglia iniziativa intesa a stravolgere le riforme volute dal migliore Ministro della Giustizia degli ultimi trent’anni nei cui confronti si è consumato l’estremo oltraggio…e chi sarà mai? Claudio Martelli, Giovanni Conso? Nossignori: Alfonsino Bonafede, e non siamo su scherzi a parte.

    Con ciò, il buonumore accompagnerà tutti nelle prossime Festività.

  • In attesa di Giustizia: No Martini, No Party

    Bisogna ammettere che, come esordio del Governo in materia di giustizia, c’era da aspettarsi di meglio: trascurando per questioni di spazio oltre che di complessità tecnico giuridica quanto deciso circa il rinvio della entrata in vigore della “Riforma Cartabia”, stretta nella morsa tra impreparazione degli Uffici Giudiziari a mandarla a regime ed il rispetto dei tempi per conseguire i fondi del PNRR, ed i limiti da porre all’ergastolo ostativo, è il decreto anti rave party che merita commento fatta la premessa maggiore che, curiosamente ma non troppo, proviene dal Ministero dell’Interno e non da quello della Giustizia e sembra proprio scritto da uno di quei questurini di altri tempi che facevano carriera nell’Ufficio Affari Riservati.

    Tecnica redazionale ed impiego della lingua italiana a parte, una norma che preveda come reato «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica e la salute pubblica consiste nella invasione arbitraria di terreni … allo scopo di organizzare un raduno quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» è il trionfo delle ovvietà inutili. Inutili anche perché esistono già altre figure di reato applicabili ed aderenti all’ipotesi concreta di un rave party e soprattutto per il motivo che così come descritte le condotte rimproverabili sono pericolosamente generiche e sottratte al principio costituzionale di tassatività della norma. Tanto è vero che si è dovuti subito intervenire offrendo una prima interpretazione (il decreto è legge in vigore fino ad avvenuta conversione o mancata tale nel termine previsto) che tranquillizzi gli organizzatori di addii al celibato, autorizzi contests di barbecue all’aperto, consenta la celebrazione delle sagre di paese con somministrazione di vini sfusi e salamelle artigianali. Chissà, poi, a chi e come spetterà il compito di attestare il numero dei partecipanti (che, per integrare il nuovo crimine, non devono essere inferiori a 50) da cui, pure, dipende l’illegalità degli eventi verbalizzando il conteggio e distinguendoli da eventuali passanti o curiosi, umarell, come si dice a Milano,…o magari agenti sotto copertura della narcotici.

    Non è finita: questo nuovo reato viene addirittura fatto rientrare nel catalogo di quelli previsti nel codice antimafia ai fini della applicabilità di misure di prevenzione personale: il che, tradotto, significa che ad un rave party è riconosciuto il potenziale genetico dello stesso allarme sociale di una cosca mafiosa, di una associazione finalizzata alla tratta di esseri umani o di un sequestro di persona a scopo di estorsione.

    Vedremo che destino avrà il decreto in sede di dibattito parlamentare mentre già si levano i primi mea culpa insieme ad auspici e promesse che venga migliorato in Aula. Non sarebbe male se ciò avvenisse metabolizzando il canone costituzionale che all’articolo 17 sancisce la libertà di riunione dei cittadini, e che limita il potere di veto da parte dello Stato, previo avviso dell’evento all’Autorità, esclusivamente a “comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica” che sono cosa ben diversa dai motivi di “ordine pubblico”: categoria giuridicamente molto più ampia della “sicurezza pubblica”.

    Detta tutta, quei raduni, di cui generalmente si ha notizia anticipata, sono l’apoteosi della illegalità, durante i quali accade di tutto a prescindere dalla occupazione abusiva di terreni e luoghi: spaccio di droga, mescita di alcolici ai minorenni, violenze di varia natura. Cose che succedono – tra l’altro e quotidianamente – nelle zone della “movida” di città grandi e piccole e rispetto alle quali è necessaria innanzitutto la prevenzione, questa sì affidata alle Forze dell’Ordine con gli strumenti di cui già dispongono e quale che sia il contesto in cui si registrano situazioni simili.

    Iniziare meglio era sicuramente più facile che partorire un esempio di muscolare sciatteria normativa insensibile ai limiti costituzionali: e quanto all’arsenale punitivo è più che bastevole quello già esistente, nel caso con qualche minimo ritocco evitando di arricchire il codice penale con un reato da sbirri da operetta alla cui formula manca solo la causa di non punibilità per chi si presenti senza una bottiglia di spumante da condividere: no Martini? No rave party.

  • In attesa di Giustizia: carenze d’organico

    Qualche settimana addietro, questa rubrica si è occupata delle scoperture di organico dei funzionari amministrativi di Tribunali e Procure: nessuna riforma della Giustizia – né quella appena licenziata a firma Cartabia, né altre future – potranno ottenere risultati se non si rimedia a questa criticità non meno che a quella analoga che riguarda i ruoli dei magistrati, recentemente stigmatizzata dal  vice Presidente del CSM, le cui parole sono chiarissime: «Nonostante i concorsi già banditi, considerati i magistrati annualmente in uscita per anzianità, dimissioni o altro, e il fatto che ai prossimi vincitori di concorso saranno conferite le funzioni non prima del 2024, si arriverà presto ad una scopertura di oltre il 20%».

    L’Italia si colloca tra gli ultimi Paesi in Europa per numero di magistrati ogni centomila abitanti ed aggiungendo a questi dati le ricordate carenze – se possibile ancora più gravi – del personale amministrativo, appaiono evidenti le ragioni del disastro della giustizia italiana in termini di irragionevole durata dei processi.

    Questa situazione endemica non sembra tuttavia preoccupare più di tanto la politica (ovviamente c’è anche un problema di fondi da destinare agli stipendi, così opportunamente evitato) ed, anzi, sotto stimolo della stessa magistratura, si preferisce affrontare gli interventi sulla durata dei giudizi intervenendo sulle regole processuali, in particolare su quelle poste a garanzia dei diritti di difesa sostenendo che la lentezza del sistema – ogni riferimento è principalmente rivolto al processo penale –  sarebbe frutto di superflue regole ipergarantiste, cui occorre porre un limite. Per esempio, quelle brutte persone che sono gli avvocati si ostinano a pretendere che il giudice che pronuncia la sentenza sia il medesimo che ha sentito i testimoni:  un principio fissato dal codice che impone, se cambia il giudice, la ripetizione della istruttoria per una regola di buon senso prima ancora che di garanzia. Troppo complicato e allora ci ha pensato la giurisprudenza a “riscrivere” quella norma e, di regola, in caso di mutazione del giudice, non si ripete un bel nulla, salvo cervellotiche eccezioni. Avrà ben più diritto il giudice di cambiare sezione, o funzione, o Foro, del cittadino ad essere giudicato dal medesimo giudice che ha istruito il processo, giusto?

    Gli esempi potrebbero proseguire a lungo ma non è il caso di avvilire i lettori oltre un certo limite; vale, piuttosto, la pena considerare, sulla scorta della denuncia proveniente dai vertici del CSM, che se pure il nuovo Governo decidesse il giorno dopo il suo insediamento una corposa implementazione degli organici, dovremmo attendere alcuni anni per averne i primi benefici.

    Una soluzione non definitiva ma di qualche utilità immediata potrebbe consistere nel fatto che il nuovo Governo eviti di richiedere al CSM la messa fuori ruolo di quei circa 200 magistrati che, come accade sistematicamente da decenni, vengono immancabilmente trasferiti presso i Ministeri.

    Si tratta di una pratica sconosciuta – certamente con queste dimensioni e questa sistematicità – in ogni altro Paese civile e la ragione risiede nel fatto che le democrazie funzionano solo se si garantisce la più rigorosa separazione dei poteri. Qui invece abbiamo una commistione fisica tra quello  giudiziario e l’esecutivo, con evidente squilibrio verso il primo cui la Magistratura italiana tiene moltissimo con i governi che a secondo del proprio colore prediligono questa o quella corrente, ed i magistrati che, acquisendo ruoli apicali di decisivo peso politico (capo di Gabinetto, capo dell’Ufficio legislativo, capo del personale, ecc.) entrano a piedi uniti nella concreta gestione e nel reale orientamento della politica giudiziaria del Paese.

    Ma come faranno le esangui casse dello Stato a fronteggiare anche i costi del reclutamento accessorio di magistrati? Questo sarà il vero problema: qualcosina si risparmia sulle indennità dei capi dipartimento e di gabinetto dei ministeri – più o meno 12.000 euro netti al mese moltiplicati per 13 e per quei 200 fortunati circa di cui si è detto – ed anche sui generosi incentivi economici applicati allo stipendio base di coloro che, invece, restano in ruolo e vengono destinati alle cosiddette sedi disagiate, cioè Tribunali con significative scoperture di organico, che non è detto siano luoghi dimenticati da Dio e dagli uomini, ma – per esempio – Venezia o Mantova.

    L’attesa di giustizia, ancora una volta,  è servita.

  • In attesa di Giustizia: accadde diciotto anni fa

    E’ molto interessante una recentissima sentenza della Corte Costituzionale (l’ultima pronunciata sotto la Presidenza di Giuliano Amato) che ha riconosciuto un perimetro più ampio ai danni risarcibili come conseguenza di quella responsabilità civile dei magistrati che è  già molto parsimoniosamente riconosciuta.

    Evitando ai lettori i dettagli tecnici, la Corte ha stabilito che le vittime di un ingiusto processo o di una ingiusta indagine hanno diritto, oltre che al risarcimento dei danni patrimoniali, a quello dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di fondamentali diritti della persona diversi – ecco la novità – dal diritto alla libertà personale. In sostanza, la decisione rileva che un cittadino “messo alla gogna” da una accusa ingiusta, anche se non arrestato, subisce egualmente la compressione di diritti non meno importanti quali quello alla dignità, alla reputazione personale e professionale ed alla salute fisica e mentale.

    Vediamo cosa è successo partendo dal presupposto che la Corte Costituzionale, generalmente, si pronuncia sulla costituzionalità di una legge laddove un’Autorità Giudiziaria abbia sollevato la questione durante un processo…e la legge in discussione è una delle meno applicate e meno ancora “digerite” dalla magistratura italiana. Scritta (malissimo) nella originaria versione da Giuliano Vassalli dopo il vergognoso massacro giudiziario di Enzo Tortora ed il conseguente referendum, fu poi blandamente rafforzata nel 2015.

    Il caso in questione ha una particolarità: la vittima della ingiusta ed infamante inchiesta giudiziaria all’origine della causa di responsabilità è a sua volta un magistrato. La vicenda origina in Calabria ed ha come protagonista negativo, l’allora PM Luigi De Magistris – meglio noto come Gigi Flop per il miserevole score delle sue indagini – in buona compagnia con il Procuratore Capo Mariano Lombardi di Catanzaro ed al collega di Ufficio, Mario Spagnuolo: alle 5 di mattina del lontano 11 novembre 2004 costoro mandano la Guardia di Finanza a perquisire l’abitazione del dott. P.A.B., magistrato di origini calabresi in servizio presso la Corte di Cassazione con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa; il magistrato non riuscì nemmeno a comprendere il senso della incolpazione provvisoria confusamente descritta nel decreto di perquisizione e sequestro e non solo perché scioccato visto che l’estensore era De Magistris, noto altresì come “Il Pubblico Mistero”, uomo aduso a formulare ipotesi delittuose che forse lui stesso faticava a comprendere. Dopo questa incursione, tranne lo sputtanamento, non accadde più nulla: nemmeno una convocazione per essere interrogato. Nulla di nulla, e siamo sempre nell’ambito di diffusi (mal)costumi giudiziari di questo Paese, e di alcune sue Procure in particolare. Quando finalmente, dopo due anni, la posizione di questo sventurato venne trasmessa all’Autorità competente (già: erano anche territorialmente incompetenti), cioè la Procura di Roma, chi lesse le fumisterie incomprensibili della imputazione provvisoria  richiese subito, ottenendola, l’archiviazione e il dott. P.A.B. diede avvio al giudizio nei confronti dello Stato per la sua responsabilità sussidiaria ed ottenendo la liquidazione dei danni patrimoniali, ma non quelli morali perché il dott. P.A.B. non era stato arrestato. Si va avanti ed infine la terza sezione civile della Cassazione ritiene di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale: ora la vittima di quella ingiustizia avrà diritto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali.

    Tuttavia mi sembra di sentire che ciascuno di voi, letta questa storia, si stia chiedendo: ma se la vittima non fosse stato un magistrato, sarebbe andata nello stesso modo? La stessa domanda che mi stavo ponendo anche io, al netto dei diciotto anni di attesa di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: non ci resta che piangere

    Verrebbe persino da ridere con talune letture se non fosse che si tratta delle decisioni – e ancor più delle motivazioni – di talune sentenze del C.S.M. in materia disciplinare: in realtà,  non ci resta che piangere.

    Vediamone qualcuna: per esempio non commette illecito disciplinare il magistrato che, avendo saputo di essere indagato ed avvalendosi di relazioni di ufficio con il personale di cancelleria, si fa consegnare il fascicolo che lo riguarda ancorchè secretato. E perché mai, direte voi? Il motivo, secondo il Consiglio Superiore risiede nel fatto che il poverello era evidentemente turbato e, in ogni caso, il fatto deve considerarsi di lieve entità perché ha pure restituito il fascicolo medesimo dopo averlo diligentemente fotocopiato per intero.

    Provateci voi a fare una cosa del genere – più o meno turbati e legati da vincoli amicali con i funzionari di cancelleria – e troverete i Carabinieri ad attendervi fuori dalla copisteria e non certo per ringraziare di non avere dato fuoco alle carte.

    Non è illecito neppure il comportamento del giudice che, giustamente preoccupato per il destino della propria moglie, ne discute amabilmente con il P.M. che la sta inquisendo chiedendo notizie: e che sarà mai? In fondo si tratta solo di un modesto gossip giudiziario, probabilmente scriminato anche dal valore sacramentale del matrimonio.

    Ah! Naturalmente, se si appartiene all’Ordine Giudiziario, ci si può mettere al volante ubriachi ed essere pure condannati per guida in stato di ebbrezza senza incorrere in altre sanzioni: basta che le circostanze del caso inducano a ritenere che il fatto sia di scarsa lesività e non abbia compromesso il prestigio della magistratura: forse perché – ormai – è a livelli talmente bassi che non è un bicchiere di vino in più a fare la differenza. Vi è, tuttavia, da sperare, la sbronza non sia una consuetudine e sia stata smaltita prima di andare in udienza o di mettersi a scrivere una sentenza: ma questi sono solo sospetti e  cattivi pensieri  di noi che siamo brutte persone.

    Sembra scontato, poi, che – senza tema di conseguenze – si possa imputare qualcuno e mandarlo sotto processo per un reato che neppure esisteva al momento della commissione del fatto: suvvia, basta un minimo di elasticità mentale per rendersi conto che, di fronte ad atti complessi, possa esservi qualche innocua disattenzione.

    E voi lettori avete mai saputo di qualcuno cui sia consentito andare nei cinema a luci rosse a molestare adolescenti? Si può, ma solo se sei un magistrato e vivi uno stato confusionale perché durante i lavori di ristrutturazione della casa ti è caduto in testa un legno.

    Si sappia, infine (ma potremmo non finire qui) che va benissimo anche lasciare in galera – persino per un paio di mesetti – qualcuno che dovrebbe, invece, essere scarcerato se il povero giudice è afflitto da non meglio specificati motivi di famiglia: un po’ come capitava a noi quando i genitori ci facevano la giustificazione per le assenze da scuola e non farci incappare in valutazioni negative della condotta.

    Tutti assolti, dunque? Ma certo che no, anche se le decisioni sfavorevoli sono – di solito – di manica extra large e consistono prevalentemente nell’ammonimento o la censura, più di rado nella perdita di anzianità (e, quindi, anche di scatti di aumento dello stipendio). Rarissime sono le rimozioni dall’Ordine Giudiziario.

    Per questa settimana è tutto, e sembra che basti e avanzi.

Pulsante per tornare all'inizio