Regioni

  • L’Autonomia Differenziata legalizza la discriminazione territoriale degli italiani

    E’ giunto il momento di dire basta alle manipolazioni e alle bugie, alla luce del testo del Senato sull’Autonomia Differenziata, che si presenta perfino peggiorata rispetto al disegno di legge iniziale.

    In primo luogo che fine hanno fatto gli emendamenti di FdI che “avrebbero migliorato la legge Calderoli e confermato il diritto alla parità sui LEP?” Spariti, nelle parti che avrebbero dovuto garantire LEP uguali per tutti, mentre rimangono solo le affermazioni di pura propaganda, prive di contenuti reali.

    In realtà la riforma è stata incredibilmente peggiorata nelle parti che penalizzeranno il Sud, ma farà pagare un prezzo altissimo anche al Nord.

    Per raggiungere l’obiettivo della “scissione dei ricchi” e consentire alle Regioni sottoscrittrici delle Intese di tenersi le risorse erariali nel proprio territorio, Calderoli ha creato il sistema dei “due binari a velocità differenziata”, che sono il vero strumento con cui si sancisce con legge dello Stato la discriminazione dei diritti degli Italiani del Sud, e non solo.

    Infatti, premesso che non è mai stata prevista alcuna uguaglianza dei cittadini sui LEP, anche perché non ci sarebbe mai stata la disponibilità finanziaria per garantirli, quantificata in non meno di 80-100 miliardi l’anno, la discriminazione che crea i Paria nel nostro Paese è nella modalità mortificante con cui il Disegno di legge stabilisce, in base alla ricchezza, i “due binari a velocità differenziata”. E quindi, con il “binario dell’Alta velocità”, garantire il conseguente diritto delle Regioni sottoscrittrici delle Intese di gestire da subito ed in totale autonomia, nonché rinnovare ogni anno, i LEP; mentre, con il “binario dei treni regionali”, le altre Regioni non sottoscrittrici delle Intese saranno condannate a ben altre tempistiche e, soprattutto per lungo tempo, e forse per sempre, alla spesa storica.

    Ma come funziona il sistema dei “due binari a velocità differenziata”? Semplice, le regioni firmatarie delle Intese, appena definita la procedura e pubblicati i disegni di legge di approvazione delle Intese, da subito, grazie al combinato disposto degli articoli 3, 5 e 8 del disegno di legge, potranno definire i propri LEP e operare il loro assalto alla diligenza delle risorse erariali dello Stato. E potranno aumentarne il valore, modificarli e inserire nuovi LEP con cadenza annuale. Questo, come è noto, provocherà la riduzione delle risorse erariali statali e, quindi, la fine di ogni principio di solidarietà e di perequazione, in pratica la fine dell’Unità Nazionale. Come un ritorno al passato, all’Italia preunitaria. Le altre Regioni, non sottoscrittrici delle Intese, invece dovranno attendere l’adozione dei decreti legislativi, quindi 24 mesi dall’approvazione della riforma, e cioè verso marzo-aprile 2026, e che saranno basati sulla Spesa Storica dei costi e fabbisogni Standard, mentre le regioni ricche avranno aumentato i loro LEP già per due anni consecutivi. Ma non finisce qui, perché l’aggiornamento dei costi e fabbisogni standard, per le regioni non sottoscrittrici delle Intese, è previsto a cadenza triennale e a condizione che prima o contemporaneamente alla emissione dei decreti DPCM siano stati emessi i decreti di stanziamento delle risorse per consentire tali aggiornamenti. Il che vuol dire che, se non ci saranno tali disponibilità finanziarie (cosa del tutto probabile), non ci sarà neanche l’aggiornamento. Un po’ come, parafrasando i condannati all’ergastolo, “fine attesa mai”. Ma ciò che in assoluto appare indecente è la inaccettabile disparità tra Regioni che avranno tutto con cadenza annuale, a differenza di decine di milioni di italiani, non solo del Sud, che dopo i 24 mesi iniziali, dovranno attendere almeno altri tre anni, e cioè non prima di marzo-aprile del 2029, l’aggiornamento dei LEP, ma solo se a quella data ci saranno anche le necessarie risorse a copertura dei costi di aggiornamento. Questa non è una riforma, ma una condanna alla marginalizzazione di quasi la metà della popolazione italiana, che non può e non deve subire questa mortificazione.

    Se a ciò si aggiunge che tale riforma ha almeno dieci violazioni della Costituzione, prima fra tutti l’abolizione del Fondo di Perequazione imposto dall’Articolo 119, terzo comma della Costituzione, e che non risulta dimostrata la copertura finanziaria del provvedimento, come evidenziato nel dossier della Camera, si ha evidente l’impossibilità di approvare una norma che non si comprende e, alla luce di tali carenze, come possa essere stata approvata dal Senato. L’approvazione di questa riforma in pratica, nel violare svariati principi costituzionali, contabili, etici e di ragionevolezza oltre che di doverosa e umana solidarietà, sarebbe la prima norma di legge della Repubblica italiana a sancire legalmente il principio della discriminazione su base territoriale dei cittadini italiani, e questo sarebbe un reato da Corte Internazionale di Giustizia. In ogni caso appare evidente che nessun parlamentare eletto nelle Regioni non sottoscrittrici delle Intese, di qualsiasi componente politica, può ignorare tali gravissime penalizzazioni dei diritti costituzionali dei cittadini del Sud, e non solo, e quindi operare con doverosa coscienza nel rispetto dei suoi doveri costituzionali, di rappresentanza e difesa dei cittadini italiani e dei territori a rischio di gravissima discriminazione dei loro diritti Costituzionali.

  • I tre asset istituzionali

    La maggioranza di governo persegue due obiettivi programmatici ambiziosi e considerati compatibili.

    Il primo è rappresentato dal riconoscimento di una maggiore autonomia per le regioni del Veneto(*),  Lombardia ed Emilia Romagna. Il secondo, viceversa, prevede una forte riforma istituzionale e contemporaneamente della divisione di poteri attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio o in subordine del Presidente della Repubblica

    Nel caso in cui queste due importanti riforme venissero entrambe approvate dai due rami del Parlamento ci troveremmo di fronte a un asset istituzionale caratterizzato da un insostenibile terzetto di istituzioni locali. in quanto alle cinque regioni a statuto autonomo si dovrebbero aggiungere altre tre dotate di una maggiore autonomia amministrativa sulle materie delegate ed infine una terza rappresentata dalle regioni a statuto ordinario.

    In questo contesto la stessa elezione diretta del Presidente del Consiglio rappresenterebbe per gli abitanti delle tre tipologie di regioni prerogative ed aspettative decisamente differenti proprio in rapporto al livello di autonomia conseguito dalla propria regione di residenza.

    Uno stato federale, infatti, non si può reggere su tre diversi asset istituzionali la cui differenza si basa sul riconoscimento di tre tipologie di autonomia amministrativa e fiscale.  Viceversa, tutti gli asset istituzionali basati sul riconoscimento del federalismo trovano la propria ragione costitutiva quando esprimono un stato centrale più o meno titolare di prerogative, in aggiunta al riconoscimento dei poteri locali demandati ai singoli Stati o alle regioni.

    Al di là, quindi, delle dichiarazioni formali della maggioranza, emerge evidente come molto probabilmente verranno disattese le legittime aspettative di maggiore autonomia amministrativa da parte dei veneti  e  contemporaneamente si abbandonerà una qualsiasi riforma verso un presidenzialismo anche se spurio.

    La realtà politica attuale dimostra come nessuno di questi obiettivi di “riforme istituzionali” sia nella realtà raggiungibile in quanto il vero l’obiettivo di queste “visioni istituzionali” rimane quello di sostenere un alto interesse che rappresenta la molla per mantenere il proprio consenso elettorale.

    (*) A fronte anche di un referendum dall’esito plebiscitario

  • Il tallone di Achille dell’Autonomia Differenziata è l’incostituzionalità

    Non ci vuole un dottorato in diritto costituzionale per capire che l’impianto giuridico dell’Autonomia Differenziata è una selva di violazioni della Carta Costituzionale, impossibile da attuare specialmente sul terreno della gestione delle risorse.

    Cionondimeno, fino ad oggi, pur a fronte di dubbi e qualche incidente velocemente insabbiato, come l’analisi del Servizio Bilancio del Senato, che appunto ne metteva in discussione lo scorso maggio l’insostenibilità finanziaria e il conseguente rischio di vulnerare il principio di equità ed eguaglianza dei diritti dei cittadini, ha potuto continuare senza troppe scosse il suo iter.

    Però si tratta di una barca che galleggia grazie ad una enorme bolla d’aria, ma con grandi buchi nella carena, priva di vela e senza motore, inevitabilmente destinata ad affondare appena evaporerà la bolla di bugie, falsità e irreparabili anticostituzionalità che la caratterizzano.

    Ad aiutare a fare chiarezza, hanno senz’altro contribuito le dimissioni dal Comitato per l’individuazione dei LEP e del fabbisogno di quattro dei suoi più autorevoli componenti, che ne hanno rilevato appunto l’incostituzionalità, con la violazione in merito proprio al rispetto dei termini sanciti per garantire in tutto il territorio nazionale i diritti civili e sociali a tutti gli italiani e nella esigenza di eliminare, o quanto meno ridurre, le distanze tra regioni ricche e fragili del Paese.

    I quattro saggi Amato, Bassanini, Gallo e Pajno, ritengono che non solo l’impostazione della legge non consente di adempiere a tali fondamentali obiettivi, ma anche che le modalità per stabilire i costi dei LEP non prevedono meccanismi per valutare una definizione puntuale del costo degli stessi, tale da assicurare standard adeguati anche nei territori che oggi ne sono sprovvisti e, conseguentemente, della definizione dei maggiori costi che, appunto, non sono previsti.

    Ma, soprattutto, secondo i quattro dimissionari, rimangono irrisolti alcuni problemi di fondo come l’incoerenza di consentire alle commissioni paritetiche regionali il diritto di decidere i nuovi LEP, e i relativi costi standard, materia per materia e con il solo vincolo della disponibilità delle risorse erariali nel proprio territorio, senza che prima venga costruito l’intero complesso dei LEP per i diritti civili e sociali in tutta Italia, onde evitare il rischio dell’esaurimento delle risorse a disposizione.

    Inoltre eccepiscono l’inconcepibile esclusione del Parlamento nel ruolo centrale che gli compete, come organo di elaborazione dei costi standard dei LEP.

    Una esclusione del Parlamento che viola l’art. 117 lett. m) della Costituzione (competenza legislativa esclusiva), ma anche perché spettano al Parlamento – e non alle commissioni paritetiche regionali – le decisioni sulla allocazione delle risorse pubbliche.

    Fin qui le corrette valutazioni dei quattro dimissionari che danno uno spaccato ben preciso alla incostituzionalità del disegno di legge sull’Autonomia Differenziata, ma nei fatti c’è molto di più.

    Infatti, oltre alla citata violazione degli art. 116 e 117, secondo comma lett. m) della Costituzione, risultano ulteriori violazioni gravi della Carta Costituzionale, tra cui quella dell’art. 117, comma 2 lettera e) che sancisce la legislazione esclusiva dello Stato in merito alla perequazione delle risorse finanziarie; nonché quella ancora più inaccettabile, dell’art. 119, comma 3 e cioè l’eliminazione di fatto del Fondo Perequativo.

    Quest’ultima violazione, in pratica sostituisce il Fondo Perequativo con le parole “Misure Perequative”, ricorrendo dunque a una locuzione generica, peraltro riportata solo nel titolo dell’articolo 9 del ddl Calderoli, che di fatto elimina ogni forma di solidarietà delle regioni ricche nei confronti delle regioni fragili, anche perché  prevede di “perequare” attraverso l’individuazione dei Fondi strutturali dell’Unione Europea e quelli della coesione nazionale, da sempre già disponibili per le regioni fragili. Quindi una perequazione inesistente, ma con l’aggravante di un aumento della platea che fino ad oggi ha avuto accesso a tali risorse, per l’estensione alle regioni fragili del Centro e del Nord.

    Insomma una legge fortemente anticostituzionale, che viola le norme di corretta gestione della contabilità pubblica, laddove non prevede alcun monitoraggio dei flussi finanziari Stato-Regioni, man mano che le commissioni paritetiche delibereranno in merito ai nuovi LEP e stabiliranno in maniera autonoma e arbitraria, unicamente in base alle rispettive disponibilità erariali, i nuovi costi standard, il cui effetto sarà il veloce prosciugamento delle disponibilità finanziarie dello Stato, che verrà inevitabilmente svilito nel suo ruolo e, con esso, ogni principio di reale valore patriottico a discapito della stessa Unità Nazionale.

    Ecco perché è fondamentale fermare questo disegno di legge e puntare ad una sua profonda modifica, con l’introduzione di criteri di equilibrio, monitoraggio, perequazione e garanzia di sostanziale parità dei LEP e dei costi standard per tutti gli italiani, nel rigoroso rispetto delle norme costituzionali.

    *Presidente di Europa Nazione

  • Superficialità, ignoranza e collusione dell’Autonomia Differenziata

    Riceviamo dall’On. Nicola Bono un articolo che volentieri pubblichiamo

    I termini della polemica tra Schifani e Fontana sull’Autonomia Differenziata confermano il dubbio sulla reale conoscenza della legge.

    Sin dall’inizio di questa vicenda, le manipolazioni per non fare capire l’esatta portata di questa legge sciagurata, che rischia di marginalizzare definitivamente e senza speranza ogni territorio fragile del Paese, hanno intossicato il dibattito e manipolato la buona fede della quasi totalità degli italiani, convinti che i LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) e i costi standard sarebbero stati davvero realizzati su scala nazionale a garanzia di tutti i cittadini.

    Una bugia che ha portato lo stesso Schifani a polemizzare sulla questione, sottolineando con rude cipiglio che “se non ci saranno adeguate garanzie per i LEP in tutti i campi principali dei diritti, a partire dalla Sanità, non ci sarà il suo assenso finale” e che “su questo saremo molto rigorosi e vigili”.

    Un atteggiamento sicuramente apprezzato da tutti gli oppositori dell’Autonomia Differenziata, ma che purtroppo è del tutto sterile perché quello che pretende Schifani, in base alla legge che lui stesso ha approvato in sede di Conferenza Unificata, probabilmente senza avere approfondito la vera posta in gioco, già oggi prevede l’esatto contrario e, cioè, la totale disparità dei LEP, da Regione a Regione, perché non c’è e, soprattutto, non c’è mai stata, all’interno della legge Calderoli, alcuna possibilità di garantire i LEP a tutti i cittadini italiani.

    Quella di Calderoli è una legge truffa, che ha come obiettivo unicamente l’egoistica trattenuta, a favore delle regioni ricche, delle risorse erariali pagate dai cittadini che, fino ad oggi, sono state devolute a Roma e poi parzialmente redistribuite a tutte le regioni.

    Schifani, nella sua polemica, ignora che sarà proprio dopo la fissazione dei LEP, da parte della cosiddetta Cabina di regia, e dopo l’emanazione dei decreti, da parte del Consiglio dei ministri, che inizierà l’operazione di prosciugamento delle risorse statali, attraverso il lavoro delle Commissioni paritetiche regionali, le quali prenderanno il posto della Cabina di regia. Tali commissioni, nelle regioni ricche, decideranno sia i nuovi LEP sia soprattutto i nuovi costi standard, in modo da appropriarsi delle risorse erariali dei rispettivi territori regionali e, conseguentemente, condannare le regioni e i territori fragili, che non sono solo al Sud, alla definitiva marginalizzazione economica e sociale.

    Non avere capito questo meccanismo ed avere dato imprudentemente il proprio assenso ad una norma che spaccherà il Paese e che provocherà la fine dell’Unità nazionale, evidenzia la leggerezza e la superficialità di una classe politica che non ha né il senso dello Stato, né la capacità di tutelare i propri territori.

    La responsabilità in tal senso della classe politica nazionale e soprattutto meridionale è enorme, perché pochi hanno letto questa legge e, tra chi l’ha letta, molti non l’hanno capita e i pochi che conoscono la vera posta in gioco sono, per lo più, complici consapevoli di una manovra contro il Paese e contro tutti gli italiani, non solo quelli delle regioni fragili, ma anche quelli del Nord, che pagheranno inevitabilmente anch’essi la destrutturazione dell’Unità nazionale.

    E tutto questo solo per soddisfare l’egoismo infinito e deleterio della classe dirigente di un partito, la Lega, che ha sempre operato contro lo Stato unitario e che oggi gode anche della complicità incomprensibile e contraddittoria di F.d.I., partito promotore di un concetto di patriottismo che è l’esatto contrario di ciò che determinerà, se non sarà fermata, l’attuazione dell’Autonomia Differenziata.

  • L’Autonomia Differenziata non dividerà il Paese solo a condizione che vengano applicate le regole già previste nella Costituzione

    Nel precedente tentativo di attuazione dell’Autonomia Differenziata, con i referendum plebiscitari di Lombardia, Veneto ed Emilia e Romagna e l’accordo tra Governo Gentiloni e Governatori delle tre regioni referendarie, l’operazione non funzionò perché chiaramente basata sull’aggiramento delle norme preesistenti. Infatti quella proposta violava i principi costituzionali ed inventava una procedura mai codificata da nessun provvedimento legislativo, con un unico obiettivo, e cioè di concedere l’agognata scissione finanziaria alle ricche regioni del Nord, a discapito delle più povere regioni del Sud. In cosa consisteva la truffa? Semplicemente sulla inversione dei termini già codificati di prevedere la definizione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) ed i loro costi standard, nonché la costituzione del fondo perequativo tra le Regioni, proprio a garanzia della solidarietà tra Regioni di diversa condizione economica. Una impostazione chiara e corretta che però era impattata sulla mancata definizione negli anni appunto dei costi standard dei LEP, necessari per l’avvio solidale della norma, eliminando qualsiasi pericolo di divisione del Paese. Ma i promotori evidentemente più che all’Autonomia Differenziata ambivano alla secessione finanziaria e, piuttosto di chiedersi perché non erano stati determinati i costi standard dei LEP, pensarono bene di aggirare la norma inventando una procedura mai passata dal Parlamento, basata su non meglio definite “intese bilaterali” tra Governo Gentiloni, ed i Governatori Fontana, Zaia e Bonaccini che attribuiva subito le nuove competenze alle regioni, e rinviava i LEP e i costi standard entro i tre anni successivi. Una vera furbata arricchita da altri vantaggi inediti come il diritto di Lombardia e Veneto di trattenere tutti i surplus di finanziamenti ottenuti per i pagamenti dei servizi e, soprattutto la clausola che, se nei tre anni previsti non si fosse riuscito a concordare i costi standard (dimostrando che non ci credevano neanche loro) si sarebbe proceduto a garantire i servizi a costi pari alla media nazionale. Un vero colpo di genio che, aggiunto alla inesistenza di qualsivoglia ipotesi di costituzione del fondo perequativo tra le Regioni, di fatto diventava, se approvato, il delitto quasi perfetto con cui la Lega avrebbe realizzato i suoi obiettivi di scissione finanziaria e quindi i presupposti per una inevitabile spaccatura del Paese. Per fortuna quella operazione non fu perfezionata, perché giuridicamente insostenibile e siamo arrivati all’attuale proposta, che però non sembra lontanissima da quella fallita nel 2019. Ha un bel dire il Ministro Calderoli che non tollera chi lo accusa di avanzare proposte che potrebbero spaccare il Paese, visto che non aiuta né quello che dice, né quello che scrive. Infatti basta leggere la sua intervista al Corriere della Sera del 17 gennaio 2023, dove fa due affermazioni che smentiscono clamorosamente tutte le sue rassicurazioni. La prima è la risposta, abbastanza inverosimile, proprio alla domanda se stia proponendo una legge contro il Sud alla quale replica chiedendo di indicare un solo punto una riga o un comma della legge in cui si affermi il danneggiamento delle regioni meno ricche e, in tal modo conferma il contrario, poiché mai nessuno scriverebbe esplicitamente una legge con tali presupposti, mentre i danni sono evidenti dalla analisi del combinato disposto del contenuto delle norme stesse. Ma è la seconda affermazione che costituisce una confessione perché alla domanda di dove sia il fondo perequativo, afferma di avere lavorato sul tema con il Ministro Fitto e lo immagina implementato con le risorse europee destinate alla coesione e, quindi, con risorse già disponibili dalle Regioni del Sud. Una gaffe enorme nel furbesco tentativo di glissare il principio costituzionale che al contrario lo vede come un fondo perequativo tra le Regioni con finalità di riequilibrio economico delle disparità tra Nord e Sud. E che dire in merito alle previsioni dei costi standard che prevede il lavoro per un anno di una commissione composta dal gotha nazionale di esperti? Che accadrà se passato l’anno i costi standard non fossero definiti? Esattamente la stessa cosa del 2019 e cioè che l’Autonomia differenziata partirebbe ugualmente e in tutte le materie, e ogni regione, in base alle sue ricchezze, affronterebbe autonomamente la gestione delle sue nuove competenze spaccando il Paese. Ecco perché non si possono effettuare né consentire fughe in avanti, ma piuttosto attuare in maniera rigorosa le norme costituzionali vigenti, senza scorciatoie né furbizie truffaldine, perché la posta in gioco è altissima e non consente errori. Per questo dopo oltre vent’anni, nel corso dei quali un solo LEP è stato definito in termini di costi standard e cioè quello degli asili nido, si proceda senza indugio a definire analiticamente gli stessi, essendo fondamentali per la realizzazione del dettato costituzionale e la definizione dei criteri e delle risorse da destinare al fondo perequativo, che non potrà mai essere finanziato con i fondi di coesione. Allo stesso modo appare una pretesa del tutto ingiustificata della Lega, la richiesta di approvazione urgente da parte del Consiglio dei Ministri della Autonomia Differenziata, quale grazioso cadeau prima delle elezioni regionali, poiché è più che evidente l’impossibilità di approvare alcuna norma sull’Autonomia senza avere prima fissato i costi standard dei LEP, come sancisce la costituzione. C’è da auspicare che, fino a quando non saranno realizzati questi adempimenti propedeutici, nessun Consiglio dei Ministri approvi alcunché, perché ogni fuga in avanti in materia sarebbe ragione di sospetto sulle vere intenzioni che si vogliono perseguire e, conseguentemente una minaccia alla unità Nazionale.

  • I dati del Mef sulle regioni per il 2018

    Sulla base dei dati raccolti grazie ai modelli 730 per il 2018 compilati da 21,2 milioni di contribuenti nonché dei 9,6 milioni di modelli Reddito Persone Fisiche e dei 10,6 milioni di CU compilati dai sostituti d’imposta risulta che la regione con reddito medio complessivo più elevato è la Lombardia (25.670 euro), seguita dalla Provincia Autonoma di Bolzano (24.760 euro), mentre agli antipodi la Calabria detiene il reddito medio più basso (15.430 euro). “Anche nel 2018 rimane cospicua la distanza tra il reddito medio delle regioni centrosettentrionali e quello delle regioni meridionali”, sottolinea testualmente il Mef.

    Il reddito complessivo totale dichiarato ammonta a circa 880 miliardi di euro (+42 miliardi rispetto all’anno precedente, +5%) per un valore medio di 21.660 euro, in crescita del 4,8% rispetto al reddito complessivo medio dichiarato l’anno precedente. L’incremento del reddito complessivo è dovuto all’aumento dei redditi da pensione, lavoro dipendente e lavoro autonomo.

  • Regioni: se il pericolo è nazionale vanno accettate le risposte del Governo nazionale

    Caro Direttore

    desidererei esprimere delle considerazioni sulle dichiarazioni del nostro Presidente del Consiglio Conte in merito alla Sua avversione alla nomina di un “Commissario super poteri” nell’affrontare la lotta al Corona virus in quanto (per Lui) le Regioni hanno già il potere per risolverla.

    Bene, abbiamo visto e toccato i risultati e le lotte tra Regioni per dimostrare chi è più efficace e brava, pensando solo a se stessa (Almirante parlò, se non ricordo male, per 29 ore alla Camera contro l’istituzione delle Regioni: aveva ragione!). Mi chiedo, quando è scoppiato il caso, si è costituita una commissione tecnica tra tutte le Regioni per scambiarsi conoscenze e proposte per una linea comune di comportamento? Allo stesso modo, si è proposto uguale commissione tra le Nazioni europee? Ed ultimo, non si è imposta alla Cina una commissione che andasse a studiare la situazione con i Cinesi stessi?

    Io credo che le Regioni abbiano sì la libertà di organizzare la propria risposta sanitaria sul proprio territorio, ma quando ci si trova ad affrontare una situazione di pericolo nazionale come questa credo anche che debbano fare un passo indietro ed accettare dal Governo nazionale le risposte più consone.

    Infine, nei confronti degli anziani di fronte alla lettera dell’Associazione degli anestesisti che sottolineava la necessità di curare prima le persone più giovani, ignorandoli, nessuna Regione si è espressa. Ma nel momento in cui qualche anziano si è manifestato favorevole è cominciata la gara a negare che non li si curi. Gli anziani avendo figli e nipoti non hanno bisogno di avere trattamenti speciali, sono già da soli disposti a sacrificarsi.

    Questa è l’immagine dei politici italiani, ma non solo loro…

    *ex Assessore alla Sanità di Regione Lombardia

  • Il Comitato europeo delle Regioni chiede all’UE una maggiore politica di innovazione sociale

    In occasione della Settimana europea delle Regioni e delle Città di quest’anno, la Piattaforma di Scambio di Conoscenze (Knowledge Exchange Platform)ha riunito esperti a livello locale ed europeo per discutere di come l’innovazione sociale può aiutare le città e le regioni a creare nuovi servizi in grado di rispondere ai bisogni sociali. Il presidente del comitato, Karl-Heinz Lambertz, ha sottolineato come molti progetti di innovazione sociale iniziano con il sostegno delle autorità locali. In questo contesto, il Comitato ha presentato alcuni esempi di successo, come quello della capitale croata, Zagabria, che ha adottato l’inclusività per migliorare l’accessibilità in tutti i settori, dall’assistenza all’infanzia ai trasporti pubblici e ai servizi sociali. Un altro esempio proposto è quello del Friuli Venezia Giulia, che mira a trasformare l’invecchiamento della popolazione in un’opportunità di sviluppo sociale ed economico, introducendo misure contro la solitudine. Il Comitato ha invitato la Commissione a rendere l’innovazione sociale uno dei criteri per le domande di fondi dell’UE e ad aprire i suoi programmi a istituzioni non tradizionali.

  • In Veneto e Trentino Alto Adige le migliori condizioni di salute d’Italia

    Un’analisi dell’Istat, compiuta dal 2005 al 2015 sulla base di diversi indicatori (dalla speranza di vita in buona salute all’ospedalizzazione) evidenzia che la miglior tutela della salute si registra in Veneto e Trentino Alto Adige, mentre la peggiore in Campania e, a sorpresa, in Val d’Aosta. «Le condizioni ottimali del Veneto e del Trentino Alto Adige – si legge nell’analisi – si contrappongono alle condizioni più critiche della Valle d’Aosta e della Campania, caratterizzate da comportamenti profondamente atipici rispetto al contesto generale».

    Nel dettaglio, la Campania si distingue in negativo per 30,4 decessi negli adulti ogni 10mila imputabili alle «maggiori cause» (tumori maligni, il diabete mellito, le malattie cardiovascolari e le malattie respiratorie croniche), cui si aggiunge la più alta propensione alla mortalità prematura, che supera i 315 anni di vita perduta ogni 10 mila nonché gli alti valori della mortalità e delle dimissioni per tumore. Valori molto alti anche per la Valle d’Aosta, in cui «il quadro di vulnerabilità generale è confermato dai valori significativi della mortalità prematura, misurata in 292 anni di vita perduta (APVP) ogni 10 mila, che lo posiziona al secondo posto in ordine di gravità».

    In mezzo a questi due estremi, l’analisi individua due macroaree, la prima al centronord (Toscana, Umbria e Marche, Piemonte, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna) con condizioni di salute «discrete», la seconda al centrosud (Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Abruzzo e Lazio), con «condizioni di fragilità generale» e valori peggiori rispetto agli altri ad esempio nella mortalità prematura e nella mobilità ospedaliera.

  • Conte2 taglierà le ambasciate delle Regioni?

    La diplomazia delle Regioni italiane costava 70 milioni di euro l’anno, nel 2012. In quell’anno, il governo Monti, allora in carica, prese in considerazione l’ipotesi di razionalizzare gli uffici di rappresentanza che le varie Regioni avevano aperto, in parallelo a quelli dello Stato centrale, tramite il ministero degli Esteri, in varie parti del mondo. Nel 2017 la situazione risultava tuttavia immutata né abbiamo sentito, durante il primo governo di Giuseppe Conte, parlare di una razionalizzazione delle spese di rappresentanza delle Regioni.  E questo la dice lunga su quello che avrebbe dovuto essere il governo del cambiamento. Dal governo Lega-M5s, che tuonando contro l’Europa auspicava sempre maggior autonomia, almeno per alcune Regioni, non risulta ci sia stato alcun intervento ad hoc per tagliare le spese inutili ed ora, se prenderà effettivamente vita il governo Conte 2, M5s e Pd, ci sarà qualcuno che affronterà questo problema?

    Tanto per rinfrescare a tutti la memoria nel 2012 a Bruxelles, accanto alla rappresentanza nazionale italiana, operavano 21 rappresentanze regionali (2 per il Trentino-Alto Adige, una della provincia autonoma di Trento e l’altra della provincia autonoma di Bolzano), alle quali se ne affiancavano altre due rispettivamente per conto dell’Associazione nazionale dei Comuni italiani e dell’Unione delle province italiane. Allora peraltro la rappresentanza della Basilicata non risultava operativa e nel 2018 quella della Calabria è rimasta sprovvista di personale.

    L’apertura internazionale delle Regioni non si è limitata a fare della partecipazione all’Unione europea l’unica occasione per aprire centri rappresentanza e (di conseguenza) di spesa. Infatti, il Veneto vantava 61 sportelli all’estero, la Lombardia 16 ‘Lombardia Point’, l’Emilia Romagna un ufficio presso la Tongil University di Shanghai, le Marche un paio di uffici in Indonesia e Cina, l’Abruzzo due in Romania e Brasile, il Molise un’agenzia nell’antistante Croazia, la Puglia uno sportello nell’antistante Albania.

    Accanto a tutte queste sedi, tutte le Regioni suddette, come pure le altre, hanno aperto uffici di rappresentanza non solo a Bruxelles ma anche a Roma. Nella capitale italiana sono stati infatti censiti 22 uffici di rappresentanza regionale (perchè l’esteso Molise ha valutato che gliene occorressero due).

    Il nuovo governo, qualunque esso sarà, vorrà finalmente abbassare i toni su Twitter e occuparsi seriamente delle spese inutili che quotidianamente aumentano il nostro deficit? Forse anche questo sarebbe un segnale che i cittadini e la Ue apprezzerebbero.

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