Euro

  • Corte Costituzionale tedesca

    La sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 5 maggio scorso è di particolare importanza nonostante alcuni commentatori l’abbiano sottostimata. Qualcuno è arrivato a sostenere che il giudizio dei magistrati tedeschi non cambi nulla per la Banca Centrale Europea ma si sbaglia di molto perché il suo effetto sarà come quello di una bomba a grappolo che colpirà in più direzioni.

    Vediamo di cosa si tratta esattamente.

    Il procedimento è cominciato a seguito della denuncia presentata da alcuni politici tedeschi dell’AFD e della CDU che accusavano la Banca Centrale europea di fare operazioni che eccedevano i propri compiti statutari. I ricorrenti sostenevano che anziché limitarsi a svolgere una politica monetaria come previsto dal suo Statuto, la BCE aveva dato vita ad un’azione vera e propria di politica economica per aiutare Stati che si trovavano in difficoltà finanziaria (vedi Italia, Spagna e similari). La questione riguardava le operazioni di acquisto dei Titoli di Stato effettuati da Mario Draghi a partire dal 2015, quando era Presidente. La sentenza del 5 maggio non riguarda quindi gli acquisti effettuati recentemente ma strettamente solo quelli del passato. Ovviamente, però, finirà con l’influire anche sul futuro. Interpellata dalla stessa Corte Costituzionale tedesca, la Corte di Giustizia Europea aveva dichiarato nel 2018 che in quelle operazioni non vi era nulla di illegale che eccedesse i compiti della stessa BCE e che il tutto andava considerato come perfettamente regolare. La sentenza emessa dai giudici di Karlsruhe statuisce che potrebbe realmente trattarsi di una attività corretta, purché tuttavia fossero rispettate tutte le condizioni previste dallo Statuto della Banca Centrale stessa. Cioè che i Titoli di Stato di ogni Paese acquistati non siano superiori come entità alla percentuale di capitale che ogni stato possiede all’interno della banca stessa. Poiché l’Italia partecipa alla BCE con il 13,8%, i Buoni del Tesoro italiani comperati da Francoforte, in proporzione al totale degli acquisti di buoni del tesoro della zona euro, non dovrebbe aver superato tale percentuale. Inoltre, la Corte sospetta che acquisti di volume così importante come quelli avviati da Draghi nel 2015 possono aver causato “effetti economici sproporzionati” rispetto al mandato di pura politica monetaria.

    In realtà, l’acquisto ordinato da Draghi e continuato dalla Lagarde fu effettuato sulla base di un programma chiamato PSPP (Public Sector Purchase Programme). Fino al febbraio scorso, per ogni 100 milioni di euro in titoli statali, la BCE ne comperava 27 milioni in Bund tedeschi, 19 milioni in OAT francesi e 14 milioni in BTP italiani. La proporzione era quindi rispettata. Già nel marzo scorso, tenuto conto degli attacchi speculativi contro il debito pubblico italiano, la BCE ha investito invece 12 miliardi in BTP e soltanto 2 miliardi in Bund. Oggettivamente, questi ultimi acquisti hanno ecceduto la proporzionalità prevista. Qualora si dovessero ora seguire le indicazioni della Corte Costituzionale tedesca, la BCE sarebbe obbligata o a ridurre l’acquisto di titoli di stato italiani o ad aumentare quelli degli altri Paesi. La naturale conseguenza sarebbe che lo spread tra l’interesse pagato dai tedeschi e quello a carico dei nostri BTP non potrebbe che aumentare.

    Per quanto riguarda gli “effetti economici” i giudici tedeschi chiedono alla Banca di Francoforte di dimostrare in un tempo massimo di tre mesi e in modo comprensibile e comprovato che gli obiettivi di politica monetaria perseguiti dal PSPP non siano sproporzionati rispetto ai compiti statutari di carattere puramente monetario. Qualora le spiegazioni della BCE non fossero considerate soddisfacenti, la Banca Centrale Tedesca dovrebbe ritirarsi dal capitale della stessa e non contribuire più al suo finanziamento. Impongono inoltre sia al governo di Berlino che alla Banca Centrale di sorvegliare (rimproverandoli di non averlo fatto nel passato) l’operato della BCE per assicurare che tutti i dovuti requisiti siano costantemente rispettati.

    Attualmente, a causa della pandemia da coronavirus, al PSPP si è affiancato un altro programma considerato di emergenza, il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme) che però non è preso in considerazione dalla sentenza (salvo nuove denunce di qualche tedesco – od olandese).

    Se osserviamo il tutto dal punto di vista strettamente giuridico e formale, quanto deciso a Karlsruhe non fa una piega.  Purtroppo, il risultato di questa sentenza porta molte conseguenze (una l’abbiamo vista) e invita ad alcune considerazioni.

    Innanzitutto la Corte tedesca cita due articoli della Costituzione della Repubblica Federale ed esattamente l’articolo 20 e l’articolo 79. L’articolo 20 prevede che le leggi tedesche siano sempre superiori a qualunque possibile decisione del governo. L’articolo 79 obbliga Berlino a considerare assolutamente prioritario l’obbedire alla Costituzione della Repubblica rispetto a qualunque Trattato o accordo internazionale. Per meglio capire cosa ciò significhi è bene ricordare che nella Costituzione italiana l’articolo 117 prevede che il nostro Stato debba sottostare ai vincoli che derivano dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali sottoscritti e ratificati dal Parlamento. In altre parole mentre noi, partecipando all’Unione Europea ci sottomettiamo alle decisioni che ne derivano, la Germania considera ogni impegno europeo sempre subordinato alle proprie leggi interne.  Ancora più chiaramente: ogni accordo firmato con Bruxelles potrà non essere rispettato se, in qualche modo, dovesse intaccare gli interessi immediati della Germania.

    È evidente, a questo punto, che la stessa Unione Europea, checché se ne dica enfatizzando il termine “Unione” non resta che un calderone di Stati che la riconoscono sovrannazionale soltanto e fino a quando ciò fa loro comodo. Così almeno per quanto riguarda l’interpretazione che la Corte Costituzionale tedesca dà della cosa.

    Un secondo aspetto a conferma di quanto sopra è che la Corte tedesca smentendo, almeno in parte, la precedente sentenza della Corte di Giustizia Europea se ne considera oggettivamente superiore. Quanto alla BCE di cui si è sempre vantata l’“indipendenza”, scopriamo ora che dovrebbe rispondere del proprio operato ad un organo interno della Germania, cui dovrebbe fornire “spiegazioni”. Davanti a una sentenza di tal genere poco potrà fare perfino il più europeista dei politici tedeschi poiché se contraddicesse all’imposizione della Corte di Karlsruhe si metterebbe automaticamente fuori delle sue proprie leggi.

    Così stando le cose, occorre prendere atto che se non cambia la Costituzione tedesca, non sarà mai possibile procedere verso quella maggiore integrazione da tanti auspicata e prevista addirittura dai padri fondatori.

    Che fare? Le scelte sono due.

    La prima: prendiamo atto che fino ad ora abbiamo scherzato e cioè che l’Europa non esiste e mai esisterà. La seconda (che il sottoscritto auspica da sempre): i politici del continente, quelli convinti che in un mondo di grandi potenze l’unico modo per garantire il nostro attuale benessere è quello di “unificarci “per davvero, prendono il coraggio di rimettere mano a tutti i Trattati e di trasformare la nostra fittizia “unione” in una vera Federazione. Tertium non datur.

  • L’indignazione e la vergogna

    Era veramente arrabbiato nero. Così almeno sembrava nell’immagine televisiva: gli occhi sbarrati, il petto in fuori pronto alla sfida, la voce stentorea che urlava d’essere indignato e pieno di vergogna per dovere vivere in un Paese che fa parte di questa Europa, per lui indegna di rappresentare più di mezzo miliardo di cittadini. Non posso viverci con questa vergogna. E questo turbamento e disagio che lo sconvolgeva da dove arrivava? Da una dichiarazione improvvida della presidente della BCE, Christine Lagarde, che rimandava misure finanziarie a copertura dei danni economici e sociali provocati dal diffondersi del coronavirus. Doveva provare una vergogna immensa a pensare che non poteva farci niente. E non servì a niente che il giorno dopo la presidente della Commissione europea dichiarasse ufficialmente che l’Italia avrebbe avuto tutto quello di cui abbisognava, miliardi e attrezzature sanitarie. La vergogna rimase probabilmente, perché il nostro stette zitto. Questa visione del nazionalismo identitario e sovranista pensa all’uscita sul serio, o la minaccia per ottenere contropartite? Alcuni autorevoli rappresentanti della Lega (due almeno) sembra che ne siano convinti, tanto ne parlano e spesso. Al turbamento dell’indignazione s’aggiunge la lamentela: non ci ascoltano, non accettano mai le nostre proposte, proposte che in verità non esistono in modo articolato ed organico, perché si riducono a dire che le cose devono cambiare. Ma come, nessuno lo dice. Uscire! Ma hanno un’idea di quel che potrebbe succedere all’Italia che navigasse sola nel mare magno della globalizzazione, sconvolta dai talvolta feroci venti della geopolitica e dalle tempestose onde della geo economia? Povera Italia! Sarebbe soffiata via in un amen, come accadde nel 1992 quando in una notte un solo finanziere speculatore, George Soros, fece perdere alla lira il 25% del suo valore. L’Italia si impoverì di un quarto, pur appartenendo alle Comunità europee. E l’anno dopo, incredibilmente, il nostro capo del governo gli assegnò la più alta decorazione italiana. In segno di ringraziamento? Sono molti i misteri della politica! Ora da sola, come potrebbe l’Italia far fronte ragionevolmente a questi rischi e a queste insidie? Altro mistero. Ma allora, perché questi politici dall’indignazione facile si vergognano soltanto per ragioni esterne all’Italia e non si indignano mai per i danni che essi stessi provocano alle nostre finanze, al bene comune della nostra comunità nazionale? Il caso dell’istituzione del reddito di cittadinanza ne è l’esempio più riprovevole. Miliardi gettati nel pozzo nero dell’assistenza senza nessun riscontro positivo. Perché non escono loro dall’Italia, anziché volerci fare uscire tutti dall’Europa? Già, ma dove andrebbero? Forse da Putin che ha già sovvenzionato il loro partito? L’avrà fatto con i rubli, con gli euro? Se l’avesse fatto in euro, come potrebbero continuare a dire che questa moneta, che li ha sovvenzionati, è la causa di tutti i nostri mali? Li accetterebbe Putin per continuare insieme la lotta all’Europa? Temiamo di no. Siamo tra coloro che ritengono che siano opportuni regolari rapporti dell’UE con la Russia imperiale di Putin; rapporti regolari politici e commerciali, che non permettano al nuovo Zar di inviare assassini a Londra ad avvelenare in albergo i suoi avversari. Relazioni responsabili ed affidabili gioverebbero ad entrambe le parti in causa e favorirebbero la creazione di una zona producente, tranquilla ed equilibratrice.

    Non ci ascoltano – si lamentano, e lo urlano alla televisione e non nelle istituzioni dove si decide. Voglio ricordare un avvenimento al quale partecipai tanti anni fa nel corso del quale le istituzioni europee accettarono, non senza polemiche, una importante proposta presentata da un politico italiano, Mario Scelba, già presidente del Consiglio dei Ministri italiano (10 febbraio 1954 – 6 luglio 1955), allora presidente del Parlamento europeo. Era il 1969. Come da sempre, il presidente del Parlamento europeo doveva recarsi ogni anno ad una riunione con il Consiglio delle Comunità europee per presentare, discutere e definire il bilancio annuale del parlamento. Quando avvertimmo il presidente Scelba che avrebbe dovuto prepararsi a questo incontro egli andò su tutte le furie. Non poteva accettare che il Parlamento, l’espressione della volontà popolare, potesse dipendere dall’Esecutivo. Ce lo disse chiaro e tondo e minacciò di denunciare pubblicamente la situazione, creando uno scandalo tra istituzioni. I suoi collaboratori, tra i quali modestamente mi trovavo anch’io per le funzioni di segretario generale che esercitavo in quel momento, gli dissero che non conveniva provocare rotture con il Consiglio e alzare inutilmente la voce. Conveniva invece andare alla riunione e spiegare le solide ragioni del Parlamento. Scelba, uomo di Stato, rispettoso delle regole diplomatiche e consapevole delle inutili chiacchiere che si sarebbero diffuse con la rottura, accettò di andare sereno e tranquillo (portò lui sotto il braccio il dossier del bilancio) alla riunione del Consiglio. Quando entrò s’accorse subito che i presenti al tavolo di fronte a lui non erano ministri, salvo il presidente. Erano ambasciatori o direttori generali delle finanze. Prese subito la parola e disse che ringraziava il presidente per l’invito, ma che la sua presenza era un atto di pura cortesia nei suoi confronti, ma non la partecipazione ad un dialogo, che tra l’altro rifiutava di fare con funzionari e non con ministri. Aggiunse che depositava il progetto di bilancio per permettere al presidente di conoscerlo personalmente, se lo desiderava, ma che non avrebbe detto una parola su di esso perché condivideva il principio della divisione dei poteri, che è uno dei principi giuridici fondamentale dello Stato di diritto e della democrazia liberale di montesquiana memoria. Affermò che quello sarebbe stato l’ultimo incontro con il Consiglio sul bilancio e che l’anno prossimo il Parlamento avrebbe rifiutato l’invito. Si alzò, andò a stringere la mano al presidente di seduta e se ne usci tranquillo e deciso come un giovanotto. Vi lascio immaginare lo sconcerto. In aula scesero altri alti funzionari. Tutti avevano la loro da dire: contravviene ai trattati, non rispetta l’articolo tal dei tali, non si può permettere di venir meno ad una procedura ormai consolidata, il tal comma dice che, ricorreremo alla Corte, siamo noi nel giusto, ecc.ecc. Tutto vero, ma il principio della divisione dei poteri era sacrosanto e l’anno dopo, senza riunione con il Consiglio, il Parlamento approvò autonomamente il suo bilancio, che divenne legale perché furono cambiate le regole. Nessuna rottura, nessun urlo alla televisione, nessuna minaccia di uscita, nessuno si indignò o provò vergogna. Ma la proposta del presidente italiano passò senza scandali, tranquilla e normale.

    Altri tempi, si dirà. Certo, erano altri tempi, un po’ più difficili di quelli di oggi. Altri uomini: è vero. La loro statura politica è diversa, la loro credibilità pure. Ma il peso politico di un Paese, nelle istituzioni internazionali dipende sì anche dalla statura dei politici, ma soprattutto dalla loro serietà, dalla fondatezza delle loro opinioni, dal lavoro che hanno svolto al governo nell’interesse vero del loro Paese e non nel rispondere a richiami ideologici che hanno fatto il loro tempo.

  • US could follow the EU into negative interest rate territory

    President Donald Trump is calling for zero or negative rates in the US, in line with EU and Japanese monetary policy. That policy shift is the combination of economic reality and electoral calculation.

    In 2016 Trump accused the US Federal Reserve of getting savers “absolutely creamed” with an ultra-low rate policy but three years following his election he has become a major advocate for cheap liquidity. In September he explicitly asked the US Fed to slash rates to zero or even into negative territory.

    “Go across the world and you’ll see either very low-interest rates, or negative rates. The President wants to be competitive with these other countries on this, but I don’t think he’ll fire Jay Powell (even if I should!),” Trump Tweeted.

    But US growth has come to a halt.

    The economy slowed further in the third quarter, as consumer spending is declining. Retail accounts for two-thirds of the US economy and it is losing ground as tariffs to Chinese and European products are taking their toll.

    On Wednesday the Commerce Department will provide a GDP snapshot, which is not likely to confirm a decelerating momentum towards recession. The effect of the $1.5 trillion tax cut package is wearing off and second-quarter growth was 1,6%, compared to 2% in the first quarter. Third-quarter is likely to show further decline.

    The economy is hamstrung largely because of the Sino-American trade war, ending an 11-year continuous growth streak. Inflation is projected to be below the 2% target, closer to 1,7%, despite rising prices on a range of products. In fact, the declining trade deficit shows subdued consumption, which in the US heralds bad news for the economy.

    While unemployment is at a 50-year low, consumer confidence is falling and business investment has contracted to three-year lows, including in the oil sector. The disaster of the 737 Max is also taking weighing heavily on manufacturing. Industries were building a stock in anticipation of increased Chinese tariffs but this positive effect on the GDP is now wearing off.

    As the US enters an election year Trump is eager to maintain growth and avoid the kind of economic slowdown the economy experienced in 2008/9. Now, a growing number of economists are looking for a domestic jolt to the economy, espousing bold expansionary monetary policy, including the conservative Fed Chair Alan Greenspan.

    Negative rates penalize financial institutions for saving money rather than lending to the real economy. However, they also penalize private savings, fixed-income funds – mostly pension scheme – and thus can have a detrimental political effect in mature and ageing societies. In addition, cheap liquidity in full employment conditions can inflate housing prices, leading to further inequality as homeownership becomes more expensive.

     

  • Von der Leyen lavora alla revisione del patto di stabilità

    La Commissione europea che Ursula von der Leyen guiderà da novembre sta iniziando a lavorare sulla riscrittura del Patto di stabilità e crescita (SGP) per semplificarlo e far sì che la sua applicazione sia più chiara e semplice. Secondo quanto scoperto dal Financial Times, il piano, noto informalmente come “SGP 2.1”, è progettato per aumentare la fiducia tra le capitali della zona euro nell’applicazione delle regole di bilancio tramite una “sostanziale semplificazione” delle regole.

    I sostenitori della riforma del Patto ritengono che le tensioni commerciali globali, la minaccia di una Brexit senza accordo e una politica monetaria vincolata obbligano l’Unione Europea ad avere regole chiare che aiutino la politica fiscale. Per questo tra le principali riforme a cui si lavora c’è un ripensamento degli obiettivi di debito per consentire “una riduzione del debito ragionevole e sostenibile per le economie più vulnerabili» (attualmente i Paesi con un debito superiore al 60% del Pil dovrebbero ridurlo di 1/20 all’anno per raggiungere il target).

    Il documento rileva che la commissione dovrà procedere con cautela dato “l’alto livello di polarizzazione e sfiducia tra i sostenitori di una rigorosa applicazione automatica delle regole e coloro che sostengono un approccio più basato sul giudizio”.

  • Da BNP Paribas ad Epstein, un mare di guai per Deutsche Bank

    Deutsche Bank ha pubblicato i dati del secondo trimestre, dai quali risulta una perdita netta di 3,15 miliardi di euro (2,94 solo nel settore investment). La banca ha annunciato 18.000 licenziamenti in tutto il mondo, equivalenti al 20% del personale. Benché il portafoglio derivati dell’isituto di credito sia di 48.000 miliardi di euro, il più alto al mondo e pari a 24 volte il debito pubblico tedesco, tra gli azionisti del fondo speculativo Cerberus (che ha una quota del 3% delle azioni) c’è chi sostiene che le perdite siano state causate da una attività troppo modesta nel settore derivati.

    Deutsche Bank intende cedere a BNP Paribas 150 miliardi di euro di attività legate agli hedge funds ma neanche questo convince chi, non pochi, ritiene che la banca francese non stia molto meglio di quella tedesca. L’economista francese Jean Pierre Chevallier sostiene che il rapporto tra capitale sociale e debito di Deutsche Bank è del 36%, mentre quello di BNP Paribas, che dovrebbe salvare la banca tedesca, è del 41%.

    Deutsche Bank dovrà affrontare inoltre gravi problemi legali negli Stati Uniti. Il ruolo della sua filiale americana viene scrutinato e si parla di operazioni di riciclaggio del denaro fino a 230 miliardi di euro in Estonia. Il Dipartimento della Giustizia americano indaga anche sul fatto che la Deutsche Bank possa aver violato le leggi anti-riciclaggio per attività svolte per conto del fondo statale 1Malaysia Development Berhad (1MDB). In questo caso gli inquirenti stanno indagando sul ruolo di Tan Boon-Kee, a capo del settore di DB per clienti e istituzioni finanziarie per l’Asia e il Pacifico, in contatto con il finanziere malese Jho Low, che ha svolto un ruolo centrale nello scandalo 1MDB.

    Infine Deutsche Bank è implicata anche nel caso di Jeffrey Epstein: il finanziere di Wall Street accusato di traffico e sesso con minori e di cospirazione deteneva infatti decine di conti nella banca tedesca dal 2012 e potrebbe averli usati per finanziare un giro di prostituzione a livello internazionale. La banca ha promesso di cooperare con gli inquirenti americani.

  • La politica monetaria e la depatrimonializzazione del risparmio

    Prima della creazione di un mercato globale successivo all’ingresso della Cina all’interno del Wto le politiche monetarie portate avanti dalle singole banche centrali nazionali, in concerto con la direzione politica governativa, potevano sortire degli effetti nel breve e forse nel medio termine.

    In questo senso basti pensare, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, alla svalutazione competitiva tanto richiesta dalla classe politica e dirigente che assicurava un “plus” all’export come semplice applicazione della svalutazione della lira. Nessuno allora, come del resto oggi tra i sostenitori del ritorno alla Lira, e di conseguenza ad una politica di svalutazione, prese in considerazione la depatrimonializzazione dei beni mobili ed immobili che venivano ovviamente espressi nella valuta soggetta alla perdita di valore (svalutazione).

    All’interno di un mercato globale, viceversa, le politiche monetarie che vengono portate avanti dalla Bce e dalla statunitense Fed si pongono l’ambizioso obiettivo di giungere ad un punto di equilibrio tra il sostegno alla crescita (quantitative easing, Ttlro e Tassi minimi) e, soprattutto in Europa, ad una copertura finanziaria e quindi alla sostenibilità del crescente debito in particolare dei paesi del Sud Europa.

    Il diverso esito di queste politiche monetarie sostenute dalla BCE e dalla Fed, riscontrabile tra Europa, dove la crescita continua a rimanere troppo bassa in rapporto all’immissione di nuove risorse finanziarie, e Stati Uniti risulta molto semplicemente in buona parte legato al raggiungimento dell’indipendenza energetica dell’economia statunitense.

    In Europa, tuttavia, questa politica monetaria fortemente espansiva della quale hanno beneficiato soprattutto gli stati a forte debito, come l’Italia, sta riportando ad una situazione paradossale relativa al risparmio, e di conseguenza per i risparmiatori, già evidenziata e simile ai tempi della svalutazione competitiva.

    I tassi negativi attraverso i quali determinati stati e aziende riescono a finanziarsi, se rappresentano un reale sostegno alla sostenibilità del debito sovrano per i primi e allo sviluppo per i secondi, tuttavia creano un danno patrimoniale per il risparmio privato. In altre parole, il valore nominale espresso in euro o altra valuta risulta sempre stabile ma all’interno di un eccesso di liquidità perde progressivamente valore in rapporto e come diretta conseguenza della immissione di nuove risorse finanziarie nel mercato. Prova ne siano le bassissime marginalità che le gestioni del risparmio privato riescono ad assicurare ai propri sottoscrittori.

    Quindi ogni politica monetaria presenta dei costi che non vengono mai valutati al momento della  propria introduzione, come negli anni ottanta e novanta avvenne per la svalutazione competitiva.

    Non  fu valutata la perdita di ricchezza complessiva legata alla depatrimonializzazione dei beni immobiliari e mobiliari espressi nella valuta oggetto della perdita di valore: la lira. Allo stesso modo ora la politica monetaria fortemente espansiva offre uno scenario, nel breve termine, di sostenibilità tanto al debito degli Stati quanto un minimo sostegno alla crescita economica finanziando le imprese, non tiene, tuttavia, in alcuna considerazione la perdita del valore del risparmio privato e soprattutto della propria redditività.

    Due esempi a distanza di quasi quarant’anni che dimostrano ancora una volta come la politica monetaria possa assicurare un approccio finanziario con un orizzonte vantaggioso solo ed esclusivamente nel brevissimo termine. I costi tuttavia di tale strategia monetaria si riverberano completamente all’interno del variegato settore del risparmio privato. La politica monetaria, in altre parole, rappresenta una scelta di minimo respiro i cui costi vengono scaricati interamente nel medio lungo termine sulle spalle dei risparmiatori. O ci si illude ancora che “stampare moneta” non presenti alcun costo come taluni ancora oggi affermano?

     

  • Mondi paralleli e dissociati

    All’interno di un mercato globale ogni  strumento finanziario viene valutato nella sua complessità e prospettiva con parametri complessi ed articolati. Non solo gli investimenti produttivi sono naturalmente soggetti a tale valutazione ma gli stessi strumenti finanziari, ed ancor più quelli  espressione del debito sovrano, subiscono le più attente valutazioni basandosi su parametri relativi alla sostenibilità del paese emittente come alla crescita economica agli asset industriali e non escludendo l’invecchiamento della popolazione.

    A seconda delle valutazioni finali vengono chieste per la sottoscrizione di tali titoli del debito i famosi costi di servizio al debito (gli interessi), che all’interno di una valuta unica come l’euro possono variare a seconda delle singole realtà nazionali la cui diversa valutazione viene espressa dallo spread. Questi complessi passaggi e valutazioni riguardano ovviamente anche le valute che ovviamente esprimono un valore che gli viene attribuito attraverso i medesimi parametri per la valutazione del debito. Già qualche mese fa, infatti, ci si era occupati della creazione di una valuta parallela emessa in prospettiva dai singoli comuni a guida 5 Stelle a Roma e Torino (https://www.ilpattosociale.it/2019/02/01/la-nuova-moneta-il-monopoli-ed-il-sottobicchiere/).

    Anche i mini Bot in buona sostanza rappresentano una sorta di moneta parallela utilizzata dalla pubblica amministrazione per pagare i propri fornitori quindi i propri debiti. Nel mondo infantile che ha coniato tale balzana idea questi non verranno sottoposti a nessun tipo di valutazione e avranno una circolazione parallela a quella del mondo reale economico. In pratica potrebbero avere stampato in capo il simbolo della Repubblica Italiana o del gioco dell’oca che cambierebbe nulla.

    Nel momento in cui tali mini Bot, per le più diverse esigenze di che li abbia ricevuti in pagamento per una prestazione, dovessero venire convertiti in valuta reale o posti a garanzia per un eventuale finanziamento il castello di carta immediatamente crollerebbe in quanto il patto di mutua accettazione dei mini Bot è relativo alla pubblica amministrazione e ai fornitori di servizi e beni alla stessa. Così  in quel preciso  momento il valore nominale del titolo del debito stesso risulterà quello che in realtà rappresenta: zero.

    Una situazione talmente paradossale perché anche nel caso in cui questi, invece, venissero riconvertiti da un istituto bancario in garanzia per finanziamenti, allora come logica conseguenza dovrebbero essere inseriti nel computo  complessivo del debito pubblico, aggravando ancora di più e per una motivazione insostenibile il  rapporto debito pubblico PIL.

    Le teorie economiche meritano tutte il medesimo rispetto se frutto di elaborazioni e di conoscenze del mondo economico complesso nel quale ci troviamo ad operare. Viceversa la creazione di una moneta parallela dimostra una assoluta irresponsabilità ed impreparazione che verranno pagate dal sistema italiano e quindi dalle famiglie italiane come dalle imprese italiane nel medio e lungo termine. Il parametro della convertibilità di un titolo del debito in moneta o garanzia per un finanziamento rappresenta il valore operativo di un qualsiasi titolo, anche del debito pubblico. Nello specifico, l’azzeramento del valore nominale dei “mini bot” a causa della loro provata mancata convertibilità risulterà deleterio non solo  per il mondo parallelo come semplice  manifestazione di professionalità dissociate ma sopratutto per quel mondo economico reale il quale si troverà in mano, a fronte delle proprie prestazioni, il vuoto cosmico legato al valore reale e verificato dai mercati dei “mini bot”.

  • 1936/2019: assalto alla Banca d’Italia e default culturale

    La furbizia italiana rappresenta un fattore di dileggio per quanto riguarda i commentatori esteri, risulta offensiva ed insopportabile per chi lavora onestamente e rispettando le regole. La furbizia, infatti, non si manifesta come espressione di intelligenza ma viene giustamente associata ad una mancanza di  rispetto e ad una impreparazione generale. Questa allora esprime semplicemente la capacità di raggiungere gli obiettivi (spesso anche se non sempre legittimi) attraverso sotterfugi e vie di comodo. Quando, invece, questa furbizia che generalmente viene attribuita ai livelli culturali inferiori di popolazione diventa espressione della classe politica allora tutti i commenti irridenti nei confronti dell’Italia trovano una nuova base di appoggio.

    Dopo il ridicolo tentativo  legato alla possibilità di utilizzare le riserve auree della Banca d’Italia (espressione della “intelligentia” leghista) ora, con la medesima impreparazione ed  incompetenza, si pensa di nazionalizzare la Banca d’Italia stessa con il medesimo obiettivo, cioè poter ottenere la disponibilità delle 2.451 tonnellate d’oro (https://www.ilpattosociale.it/2019/02/18/dalla-finanza-creativa-a-quella-infantile/).

    In altre parole questa comica proposta politica di “economisti cresciuti al Monopoli” prevedrebbe l’acquisizione della attuali quote della Banca d’Italia in mano ora ad Istituti bancari, assicurazioni e fondi di investimento da parte del Mise. Ignorando gli autori di questa folle proposta, che rispondono al nome di Fratelli d’Italia, come dal 29 marzo 2019 la Banca dei Regolamenti internazionali di Basilea reintegri il principio della Gold Standard nel mondo bancario.

    In altre parole si avvia un processo di rimonetizzazione delle riserve auree, quindi verso una “gold Remonetization“, decretando una forte e decisa inversione di tendenza rispetto alla decisione del 15 agosto 1971 del presidente Nixon.

    In altre parole il sistema bancario riesce ad ottenere nuove risorse finanziarie dalla monetizzazione delle riserve auree che verranno inserite nei bilanci.

    Contemporaneamente emerge evidente la preoccupazione relativa alla sostenibilità per i bilanci degli Istituti bancari in relazione all’accumularsi di titoli del debito sovrano. Questa decisione della BRI (Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea) si potrebbe definire storica ed anticiclica ed avviene nel pieno disinteresse e probabilmente anche nella assoluta ignoranza di tutti i brillanti esponenti governativi come dei novelli economisti che propongono di rilevare le quote di Banca d’Italia.

    Questa “nazionalizzazione”, assolutamente intempestiva e finalizzata semplicemente all’acquisizione di risorse da utilizzare per riequilibrare temporalmente il bilancio dello Stato, avverrebbe con le acquisizioni delle quote ora in mano di soggetti privati e raggiungerebbe un valore nominale delle quote della Banca d’Italia al 1936. Quindi da un valore attuale complessivo delle quote di circa 7 miliardi e mezzo si tornerebbe alla valutazione di 300 milioni di lire del 1936 , un valore di poco superiore ai 153.936 euro!

    La differenza tra il valore attuale inserito nei bilanci degli investitori (si  ricorda istituti bancari,  Assicurazioni e  fondi privati, in tutto centoventiquattro  [124!] investitori) e la proposta di acquisto “aggiornata” ad un valore del 1936 risulta prevedere una differenza di soli 7.499.846.063 euro: se non è furbizia spiccia questa! Una proposta economicamente impresentabile che ha ovviamente ottenuto l’appoggio dei 5 Stelle, confermando la loro assoluta incompetenza che già in matrimonio con la Lega aveva dimostrato prima con la volontà di utilizzare le riserve auree della banca stessa.

    Anche se questa ‘ideona’ rappresenta un assolutamente legittimo diritto di una coalizione di partiti tuttavia risulta insultante e demoralizzante e al tempo stesso conferma ancora una volta come il default culturale espresso dal ceto governativo unito alla furbizia popolana rappresenti un mix devastante per la nostra credibilità all’estero.

    Paradossale poi che questo “pseudo sovranismo di borgata“, espressione del default culturale che investe il nostro Paese da decenni, assuma sempre più i caratteri di un regime Socialista nel quale gli enti espressione della stessa indipendenza democratica vengano posti all’interno del controllo statale ma soprattutto politico. Esattamente come è già avvenuto per il Coni in aperta contraddizione con i principi del Cio (Comitato Olimpico Internazionale). La sintesi di ignoranza strutturale unita alla ricerca di  furbizie come di sotterfugi evidenziano il livello culturale della  classe politica italiana attualmente al governo a causa della  quale rappresentiamo sempre più, ed ora a pieno titolo, la barzelletta europea. Un mix devastante da risultare imbarazzante anche solo commentarlo.

  • Il denaro a volte puzza: normativa europea per verificare gli investimenti nella Ue

    Pecunia non olet dicevano i latini, il denaro non puzza, mentre l’Europarlamento teme che non sia così e ha approvato un primo strumento per il controllo degli investimenti diretti esteri, attraverso il quale intende tutelare i settori strategici europei. Il testo, approvato in plenaria con 500 voti favorevoli, 49 contrari e 56 astensioni, introdurrà anche il vaglio degli investimenti provenienti da società statali ‘opache’ legate a governi in settori critici e tecnologie.

    Le nuove regole proteggeranno settori industriali chiave come energia, trasporti, comunicazioni, dati, spazio e finanza, oltre che le tecnologie della robotica, l’intelligenza artificiale, l’industria dei semiconduttori. I negoziatori del Parlamento Ue hanno aggiunto alla lista iniziale l’acqua, la salute, la difesa, i media, la biotecnologia e la sicurezza alimentare. Gli eurodeputati hanno inoltre rafforzato il meccanismo di cooperazione per includere lo scambio di informazioni tra i Paesi Ue, che potranno formulare osservazioni sugli investimenti diretti per altri Stati membri. La Commissione Ue potrà chiedere informazioni e fornire il suo parere al Paese cui è destinato l’investimento, ma la decisione finale spetterà allo Stato membro interessato. Dopo il via libera in plenaria, il Consiglio dovrà ora approvare l’accordo in via formale.

    Gli eurodeputati della Lega e del M5S si sono astenuti al voto in Plenaria che ha approvato il primo strumento Ue per il controllo degli investimenti diretti esteri, con l’obiettivo di tutelare i settori strategici europei. Il testo è passato con 500 voti favorevoli, 49 contrari e 56 astensioni. “Lega e M5S, che del sovranismo hanno fatto la loro bandiera, si sono opposti all’introduzione di questo strumento segnando, ancora una volta, la distanza tra le roboanti dichiarazioni di quand’erano opposizione e l’incapacità di prendere una posizione di oggi che sono maggioranza”, ha commentato Alessia Mosca, europarlamentare Pd e capogruppo dei Socialisti e Democratici nella commissione Commercio Internazionale. “Oggi il Parlamento Europeo ha approvato la proposta della Commissione di creare uno ‘scudo’ contro gli investimenti predatori in Europa, che permetterà, in primo luogo, la salvaguardia di migliaia di posti di lavoro”, ha spiegato Mosca. “Attualmente, infatti, Paesi come la Cina attuano strategicamente acquisizioni di società europee per coprire il gap tecnologico che consente a Paesi sviluppati, come l’Italia, di essere ancora competitivi nonostante salari più alti e normative ambientali più rigide. Bloccando queste acquisizioni, impediremo il trasferimento in Cina della produzione di questi prodotti”, ha aggiunto. “Non solo: un’altra ragione per la quale Paesi esteri possono voler acquisire società europee è il tentativo di aumentare la propria influenza. Non si tratta di discorsi ipotetici, parliamo di avvenimenti già accaduti, ad esempio in Grecia. In seguito all’acquisizione della rete elettrica greca e del Porto del Pireo, principale asset nazionale, Atene ha bloccato dall’interno dichiarazioni e progetti considerati ostili dalla Cina”.

    Con 532 voti a favore, 22 contrari e 55 astensioni, il Parlamento europeo ha anche approvato norme per ridurre anche nei Paesi non euro ma appartenenti all’Unione (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Ungheria, Polonia, Romania, Svezia e Regno Unito) gli oneri legati all’invio di denaro a carico di imprese e persone e per promuovere maggiore trasparenza nei costi di conversione delle valute.
    Prima della fine dell’anno, le commissioni bancarie per i pagamenti transfrontalieri in euro su tutto il territorio dell’Ue dovranno dunque allinearsi a quelle per i pagamenti nazionali effettuati nella valuta locale ufficiale. La sforbiciata ai costi riguarda anche il prelievo di contante e i pagamenti all’estero: tutti i pagamenti transfrontalieri nell’Ue dovranno avere gli stessi costi, molto bassi, validi nell’Eurozona. Le nuove misure proteggeranno anche i consumatori dai costi arbitrari per le conversioni valutarie. Le spese di commissione saranno indicate in modo univoco, utilizzando il tasso di riferimento della Bce, più gli oneri aggiuntivi fissati individualmente dalle banche.

  • I venti anni dell’Euro

    Ieri “Il Patto” ha pubblicato un articolo sulla persecuzione dei cristiani, lamentando che su questo argomento il sistema dei media rimanga zitto e non informi, come dovrebbe essere naturale, di quel che succede ogni giorno, contro di essi, nel mondo. Ebbene, oggi ci lamentiamo perché i media hanno perso un’altra occasione. Il 15 gennaio a Strasburgo, il Parlamento europeo ha celebrato i vent’anni dell’entrata in funzione dell’Euro, un’occasione ottima per chiarire ai cittadini la funzione svolta dalla moneta comune, le sue eventuali debolezze, la cause di queste défaillance, i suoi vantaggi e le sue prospettive. Dopo tanto parlare che si è fatto durante la campagna elettorale del marzo scorso, dopo le tante accuse rivolte dai nuovi politici alla moneta comune, responsabile, secondo la loro sprovveduta non conoscenza – di tutti i mali che hanno colpito l’Italia (la povertà, la disoccupazione, la crisi finanziaria, la fuga dei giovani, il ridotto investimento di capitali stranieri nel nostro Paese, ecc.) sarebbe stato più che opportuno ed utile conoscere l’opinione di tanti personaggi esperti e competenti, sulle virtù e sui vizi dell’euro. Dal dibattito parlamentare, tuttavia, sono emerse sostanzialmente due elementi inoppugnabili, nonostante ciò che ne dicono i detrattori o i giovani politici attuali che si permettono di parlare di finanza internazionale avendo soltanto un’esperienza da baristi e da galoppini. Il primo è il suo riconosciuto e straordinario successo. Il secondo attiene alla forza di chi ha attuato questa impresa nella crisi finanziaria globale, la quale è durata dieci anni, cioè oltre la metà della vita dell’euro e di due terzi della sua circolazione fisica. Sono dati inoppugnabili, non opinioni, e Renzo Rosati, su Il Foglio del 16 gennaio, afferma che “la situazione avrebbe stroncato qualsiasi altra istituzione e alleanza multinazionale”. A riprova, cita il caso del dollaro, che fu scelto come moneta dagli Stati Uniti nel 1785, ma che solo dal 1929 la Federal Reserve  ne stampa le banconote e agisce da Banca centrale e prestatrice di ultima istanza. Il dollaro ha impiegato un secolo e mezzo per il suo rodaggio. L’euro soltanto venti anni. La forza a questa impresa l’hanno essenzialmente data soltanto due persone: Angela Merkel e Mario Draghi. La prima ha dovuto battersi anche con il suo governo e con la Bundesbank, talvolta riluttanti verso le decisioni della BCE. Ebbe scontri assai duri con il suo ministro delle Finanze Wolfang Schauble, che tra l’altro aveva un forte impatto sull’opinione pubblica. Il che sta a significare che la posta in ballo era molto alta e che la Cancelliera sfidava anche l’opinione pubblica, certa com’era della bontà delle sue scelte. I fatti le diedero ragione, ma il logorio del potere cominciò a manifestarsi proprio in occasione delle ultime elezioni politiche del 24 settembre 2017, con le quali il candidato socialista Schulz scomparve dalla vita politica. L’euro nel frattempo, con le decisioni di Draghi, resistette all’onda d’urto della crisi e alla cattiva gestione delle banche nell’utilizzo smoderato dei “derivati”. Non solo si è salvato, ma si è  anche rafforzato. Nel suo rapporto  annuale relativo al 2017 della BCE Draghi ha fornito altri elementi di valutazione. Nonostante il rallentamento dell’economia non c’è all’orizzonte nessuna crisi fatale. Anche l’economia tedesca sta sfuggendo alla recessione e la fine del soccorso monetario rappresentato dal Quantitative easing non modifica la situazione di lenta ripresa. Dei 19 Paesi dell’eurozona, sola l’Italia si trova in guai veri. “Gran parte delle sfide  – ha aggiunto Draghi – sono globali  e possono essere affrontate solo insieme. La vera sovranità sta in questa Unione, perché altrimenti andrebbe persa nella globalizzazione. In questo senso l’euro ha dato a tutti i membri la propria sovranità monetaria e un potente motore  di crescita per sostenere i propri standard di vita”. Già, ma l’Italia è in fondo alla classifica della crescita. Di chi la colpa, allora? Ma certo, dell’Euro! Così i governanti scaricano sulla moneta che ha compiuto quei miracoli la responsabilità del loro fallimento. Incredibile! L’Unione europea, infatti, è oggi l’area più ricca e omogenea del mondo, che conta 350 milioni di abitanti, un poco di più degli Usa, ma con un Pil appena al di sotto di quello americano. I due maggiori protagonisti della storia dell’euro sono quasi giunti al termine della loro parabola. Non vediamo nessuno all’orizzonte che possa sostituirli nel portare a termine l’opera iniziata da loro a favore della moneta unica. La BCE dispone di strumenti ancora limitati rispetto alla Federal Reserve, che può intervenire direttamente sul cambio e che continua ad aumentare i tassi, cosa ancora molto problematica per la BCE. Le critiche all’euro sembrano diminuite, anche se l’euroscetticismo di Matteo Salvini l’ha portato ad accusare la BCE di prevaricazione e causa di instabilità per i risparmi. Che al coro contro Strasburgo e l’Unione s’aggiungano Di Maio e Di Battista, è normale. Tra esperti ci si intende. Ma che ad essi si unisca la voce del vicedirettore del Corriere della Sera Aldo Cazzullo, la dice lunga sulla correttezza dell’informazione e soprattutto sulla sua completezza. “Un compleanno nel quale non c’è molto da festeggiare” – ha dichiarato a proposito della seduta speciale del Parlamento europeo sull’anniversario dell’euro. L’opinione è la seguente: solo la Germania ci ha guadagnato. La Francia è stata una delle nazioni più penalizzate e peggio è andata per le altre grandi economie continentali: la spagnola e l’italiana. E’ un’opinione. Ma i numeri contano qualcosa? Pare dicano il contrario. Senza euro e aggancio con la Germania la vulnerabile economia francese non avrebbe retto alla crisi, tanto meno il suo debito pubblico. Quanto alla Spagna, ancora meno. Per l’Italia, giudicate voi. I numeri dell’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro ci confortano: nel 2018 gli italiani per l’euro raggiungono il 57%, (12 punti in più rispetto a un anno fa). I contrari sono scesi al 30%. I francesi pro euro sono il 59% e gli spagnoli il 62%. Vorrà pur dire qualcosa, anche senza informazione diretta o con un’informazione incompleta!

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