Finanza

  • A cuccia le agenzie di rating

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi l’1 maggio 2020.

    Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, nel meeting di primavera per via telematica del Fmi e della Banca mondiale, ha affermato che, senza liquidità e sostegno alle imprese, alle famiglie e ai lavoratori, il mondo rischia un default di massa. Non solo l’Italia, quindi. E ha aggiunto che “poiché la crisi è globale, la risposta deve essere globale”. È necessario, perciò, preservare la “funzionalità dei mercati finanziari e la stabilità del sistema finanziario”.

    Non è la prima volta che le istituzioni italiane e i loro massimi rappresentanti si distinguono per chiarezza e lungimiranza in contesti e incontri internazionali. La puntualizzazione sull’aspetto finanziario merita, però, qualche riflessione aggiuntiva. Non per sminuire la gravità della situazione economica italiana, ma per meglio contestualizzarla nella ben più complessa e difficile situazione globale.

    Per prima cosa intendiamo evidenziare l’importanza e le rilevanti ripercussioni della decisione della Bce di mettere fuori gioco le agenzie di rating. Fino a qualche giorno prima, la Bce, sulla base di un singolare regolamento, accettava in garanzia da parte degli Stati membri soltanto titoli e obbligazioni con la pagella della tripla A fornita dalle agenzie di rating. Oggi la Bce si è liberata da questo obbligo e intende acquistare qualsiasi titolo pubblico, anche quelli sotto il rating BBB, cioè junk, i cosiddetti titoli spazzatura. La mossa ha, tra l’altro, neutralizzato le solite superficiali valutazioni di rating nei confronti dell’Italia e di altri paesi che solitamente abbassano la fiducia nei titoli dei debiti pubblici e che fanno aumentare i tassi di interesse da pagare. Ci auguriamo che questa decisione della Bce non valga solo fino a settembre 2021 ma che sia definitiva.

    Si tenga presente che le tre sorelle del rating, Standard& Poor’s, Moody’s e Fitch, da anni non hanno più voce in capitolo negli Usa. Non si permettono più di esternare valutazioni critiche sui titoli di stato americani. Già ci fu un sonoro ceffone da Barack Obama, adesso Donald Trump sicuramente le deporterebbe su un’isola deserta, se osassero commentare negativamente l’andamento dell’economia americana. In Italia e in Europa, purtroppo, sono ancora le benvenute.

    Un’altra riflessione merita di essere fatta sul ruolo presente e futuro del mercato. Si pensi al petrolio e ai suoi andamenti di borsa. Nei giorni passati si è assistito, attoniti e in silenzio, a un fatto storico gravissimo e senza precedenti: i contratti future sul petrolio venduti a un prezzo negativo! Il che significa che chi vendeva petrolio ha dovuto pagare per farlo comprare. Il petrolio pompato sarebbe stato così tanto che, sia per gli altissimi costi di stoccaggio sia per la mancanza di spazio per conservarlo, le compagnie petrolifere hanno o avrebbero dovuto pagare i loro clienti per prenderlo. Pura pazzia. Frutto di speculazioni finanziarie e di irresponsabili “giochi geopolitici globali” in un momento economicamente già molto pericoloso.

    Occorre sapere che la stragrande maggioranza dei contratti future sono solo virtuali e speculativi, non prevedono cioè alcuna vera compravendita di greggio o di altre materie prime o di generi alimentari e, quindi, nessun loro passaggio fisico dal venditore al compratore. La crisi odierna, per fortuna, sta facendo apprezzare il ruolo dell’economia reale e dello Stato. Non servono perciò straordinarie e complicate regole. Basterebbe imporne una: chi va sul mercato per qualsiasi business deve impegnarsi a portarlo a termine fisicamente. I veri operatori si comportano così. Per scoraggiare gli altri, cioè coloro che, invece, intendono soltanto lucrare sulla differenza di prezzo, dovrebbe essere loro imposto un significativo deposito di garanzia.

    Lo stesso, ovviamente, dovrebbe essere fatto per tutte le operazioni finanziarie allo scoperto. Per esempio, vendere virtualmente un titolo qualsiasi per poi ricomprarlo a una certa scadenza, o viceversa.

    La finanza speculativa ha sempre giustificato simili operazioni come il toccasana dell’equilibrio di mercato. Non è così. La pandemia e il conseguente lockdown produttivo ci hanno insegnato empiricamente che contano le produzioni, i beni, e non le speculazioni.

    Queste ultime, così come i derivati otc, si basano anche su un’elevata leva finanziaria, cioè quel sistema che può generare enormi masse finanziarie sulla base di un piccolo capitale realmente a disposizione. In alcuni paesi europei, compresa l’Italia, tali operazioni allo scoperto sono state bandite per tre mesi. A nostro avviso dovrebbe essere una misura definitiva da parte della Consob.

    Da alcune settimane continuiamo ad assistere a evoluzioni delle borse così forti da far apparire come delle semplici altalene per bambini anche le più spericolate montagne russe. Non sorprende affatto che il mondo della finanza appaia indifferente. Ma è più che mai inaccettabile che le autorità politiche e quelle di controllo restino, impotenti o incompetenti, alla finestra. Sembra che in diversi paesi sia stato richiesto l’intervento delle autorità competenti. La Consob avrebbe voluto farlo ma ha scoperto di non averne il potere.

    Riteniamo che l’emergenza pandemia ci insegni che l’interesse collettivo viene prima dell’interesse di parte. I governi a livello mondiale si sono finora responsabilmente impegnati a sostenere le economie minate dal corona virus con circa 8 mila miliardi di dollari e le banche centrali sono disposte a fornire “liquidità illimitata”. Di fronte a questo straordinario impegno pubblico e a questa assunzione di responsabilità collettiva e condivisa non possiamo non chiederci perché ancora non si riformino i mercati e non si blocchino le speculazioni selvagge.

    *già sottosegretario all’Economia – **economista

  • Da Bruxelles 3 miliardi di euro in aiuti all’Europa orientale, Tunisia, Giordania per affrontare il post Covid-19

    La Commissione europea ha annunciato un pacchetto di assistenza macrofinanziaria da 3 miliardi di euro per dieci paesi dell’allargamento e dei paesi vicini, per aiutarli ad affrontare l’impatto economico di Covid-19. Una volta che il Consiglio e il Parlamento avranno approvato la proposta, sarà erogata la prima rata dei prestiti che sarà disponibile per un anno, “in termini estremamente favorevoli per aiutare tali paesi a coprire le loro immediate e urgenti esigenze di finanziamento”. La seconda parte potrebbe essere erogata nel quarto trimestre del 2020 o nella prima metà del 2021. L’Ucraina riceverà il maggior importo di fondi, con 1,2 miliardi di euro. Al di fuori dell’Europa, 600 milioni saranno assegnati alla Tunisia e 200 alla Giordania. Mercoledì scorso, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha twittato dicendo che la decisione della Commissione di fornire al paese più di un terzo dei fondi “dimostra che l’Ucraina aveva ragione a fare la sua scelta europea”.

  • Il coronavirus e il comportamento della finanza

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 18 marzo 2020

    In un momento in cui la pandemia da coronavirus impone delle riorganizzazioni e dei limiti di comportamento al singolo cittadino e alle istituzioni politiche, sociali ed economiche dei vari Paesi, è grave e inaccettabile che la finanza si comporti in modo irresponsabile. Proprio come ha sempre fatto sia prima che dopo la grande crisi del 2008. È fuorviante dare la responsabilità per gli sconquassi finanziari in corso solo al coronavirus. La pandemia è l’equivalente di un disastroso evento geopolitico che può scatenare una nuova e pericolosa crisi in una situazione già precaria.

    Negli ultimi 10 anni l’intero sistema economico-finanziario ha peggiorato la sua situazione, in tutti i settori. In rapporto al Pil mondiale e regionale i debiti pubblici e quelli corporate, delle imprese private, sono, purtroppo, aumentati di molto. Varie bolle finanziarie, soprattutto negli Usa, ma anche altrove, Cina compresa, sono cresciute. Si tratta dei derivati otc e delle bolle dei mutui immobiliari, per l’acquisto di auto e in generale dei debiti per i consumi, persino quelli per i prestiti agli studenti. Anche la borsa di Wall Street, e in misura minore le altre, è cresciuta a dismisura, in modo ingiustificato e per niente proporzionale al reale andamento delle imprese quotate.

    Per esempio, nel giro di poche ore il prezzo del petrolio è sceso del 30% portando il costo del barile intorno ai 30 dollari. È stato chiaramente provocato da una mossa geopolitica dell’Arabia Saudita contro la Russia, l’Iran e la Cina. Ovviamente con l’appoggio americano. Sarebbe sciocco pensare che sia dovuto soltanto alle contrazioni produttive in Cina o agli annunci relativi alla domanda e l’offerta del mercato. L’operazione, invece, è stata condotta attraverso «preparate» operazioni finanziarie speculative, futures e altri derivati, mirate al ribasso. Una mossa che, nell’intenzione di chi l’ha pensata, avrebbe dovuto piegare in brevissimo tempo le resistenze russe. Così non è stato e non è, in quanto la Russia, ci sembra, da tempo si è preparata a simili evenienze.

    La conseguenza sembra colpisca, invece, il mondo delle obbligazioni americane. Infatti, titoli per oltre 140 miliardi di dollari emessi da imprese energetiche americane minori, potrebbero in breve tempo finire tra i junk bond ad alto rischio, cioè diventare «obbligazioni spazzatura». Perderebbero lo status di «investment grade», per cui i possessori istituzionali, come le assicurazioni e i fondi pensione, dovrebbero disfarsene.

    Se l’attuale andamento del mercato petrolifero dovesse prolungarsi, altre obbligazioni, già con il penalizzante rating della tripla B, per 320 miliardi di dollari, potrebbero cadere nel famoso bidone della spazzatura. Si consideri che nel settore dell’energia degli Usa vi sono altre obbligazioni a rischio ammontanti a circa 2.000 miliardi di dollari, che potrebbero fare la stessa fine. Se ciò avvenisse, si potrebbero «infettare» altri 3.000 miliardi di dollari di obbligazioni del settore corporate che già galleggiano malamente nella palude della tripla B.

    Secondo noi questi «giochi» hanno un effetto distruttivo maggiore della peggiore pandemia perché possono far saltare l’intero sistema economico. Nel frattempo le banche centrali sarebbero chiamate a far fronte ai vari salvataggi per centinaia di miliardi di dollari o di euro. I grandi operatori della finanza, in verità, sanno che non basterà. Adesso chiedono il cosiddetto «helicopter money», l’inondazione di liquidità per tutti, come se si dovessero gettare banconote da un elicottero. Si tratta di un’idea proposta inizialmente dal monetarista Milton Friedman e poi rilanciata nel 2002 dal governatore della Fed Ben Bernanke per prevenire i rischi di una deflazione.

    L’uso dell’«elicottero» proverebbe che le banche centrali, dopo il 2008, invece di riformare il sistema finanziario, hanno usato tutti i mezzi monetari convenzionali e non convenzionali a loro disposizione. Adesso sarebbero disarmati di fronte ad una crisi di gravità e dimensioni maggiori. In Italia ben venga la decisione della Consob di proibire le operazioni allo scoperto in borsa. Dovrebbe essere una norma di divieto duraturo da adottare a livello globale.

    Di fronte ai crolli e alle incontrollabili evoluzioni finanziarie, le autorità centrali devono intervenire. Se lo Stato è chiamato a rispondere in tutti i settori, come quelli sanitari, occupazionali, economici e ambientali, non può essere consentito che i mercati finanziari restino fuori da ogni controllo e influiscano negativamente sugli andamenti dell’economia e degli assetti sociali. In un mondo dove tutte le ideologie sembrano siano state superate, di fatto, resta ancora dominante il neoliberismo, che sparge il virus della «magia del mercato perfetto» della domanda e dell’offerta, senza regole e senza un ruolo dello Stato.

    Emblematico è il coronavirus: muoversi in ordine sparso, non coordinato e centralizzato non risolve il problema. Vale ancor di più per la finanza e la speculazione. Non è più procrastinabile una riforma del sistema. Serve una nuova e moderna Bretton Woods. Se Wall Street e la City continuano a resistere, allora l’Unione Europea, magari insieme ai Paesi Brics, dovrebbe farsene carico e non in tempi biblici.

    *già sottosegretario all’Economia  **economista

  • Adam Farkas lascia l’Autorità bancaria europea per una lobby finanziaria e il Mediatore europeo avvia un’indagine

    Emily O’Reilly, il Mediatore dell’Unione europea, ha dichiarato di aver avviato un’indagine sulla decisione dell’Autorità bancaria europea (EBA) di consentire al suo direttore, Adam Farkas, di diventare capo di una lobby di spicco del settore finanziario. Il Mediatore europeo ha chiesto all’ABE di rispondere, entro il 28 febbraio, a dodici domande relative alla decisione di approvare la mossa di Farkas. L’ABE, che è il regolatore bancario dell’UE, ha dichiarato a settembre che il suo capo si era dimesso per assumere dal 1° febbraio l’incarico di CEO dell’Associazione dei mercati finanziari in Europa (AFME). Secondo l’agenzia Reuters, la mossa è stata approvata dopo che sono state poste in essere diverse condizioni, tra cui un divieto di 18 mesi per Farkas di svolgere consulenze all’AFME e ai suoi membri su argomenti direttamente collegati al suo lavoro svolto nei tre anni all’ABE.

    L’indagine è partita in seguito ad un reclamo presentato dall’organizzazione Change Finance in cui si sostiene che la mossa di Farkas potrebbe creare un “conflitto di interessi” in quanto l’ex direttore dell’ABE potrebbe avere una visione del processo decisionale dell’ABE. I vertici dell’EBA tuttavia si mostrano tranquilli dichiarando piena disponibilità e collaborazione al Mediatore. Durante la sessione plenaria di Strasburgo della scorsa settimana, diversi deputati hanno sottolineato l’importanza della trasparenza nell’UE per poter riconquistare la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni dell’UE e hanno chiesto garanzie per assicurare che i dipendenti pubblici lavorino al 100% nell’interesse pubblico e non per le grandi società. Gli eurodeputati hanno inoltre adottato una risoluzione che chiede alla Commissione europea di “valutare le pratiche correnti nel settore dell’occupazione post-pubblica a livello UE e nazionale” e di stabilire un quadro giuridico armonizzato per la “prevenzione delle situazioni di conflitto di interessi nell’occupazione post-pubblica. Hanno inoltre invitato il consiglio delle autorità di vigilanza dell’ABE a riconsiderare la decisione sulla scelta professionale di Farkas e hanno suggerito ai membri e ai rappresentanti delle istituzioni dell’UE di astenersi dal contattare Farkas per un periodo di due anni.

  • Il Mes e le riforme della finanza

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi del 24 dicembre.

    Pur essendo intervenuti più volte negli anni passati su molti argomenti relativi alla finanza, alle banche a al debito anche a livello internazionale, nelle scorse settimane, invece, abbiamo volutamente deciso di astenerci da ogni commento sulla questione del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità detto anche fondo salva stati. La ragione è stata quella di non essere ingoiati nei giochi elettorali dei vari attori in campo.

    La questione, però, è di grande importanza e merita di essere affrontata senza clamori e artifizi mediatici.

    Il Mes è operativo dal 2012. In discussione è la sua riforma. Forse se ne è parlato troppo superficialmente. Il primo aspetto della riforma è la possibilità che il Mes possa affiancare il Fondo di risoluzione unico per le banche in caso di una qualche grave crisi bancaria. Dal 2015, il Fondo è lo strumento operativo del Comitato di risoluzione unico (Srb, l’acronimo in inglese) dell’Unione bancaria europea. È costituito dai capitali provenienti dal sistema bancario europeo, non dagli Stati. Il suo compito è garantire la ristrutturazione ordinata delle banche in seria difficoltà e ridurne l’impatto negativo sull’economia reale e sulle finanze pubbliche.

    Oggi lo Srb vanta attivi superiori a 22 miliardi di euro. La Banca Popolare di Vicenza e la Veneto Banca non ne hanno potuto beneficiare perché si è ritenuto che «il loro fallimento non avrebbe rappresentato una minaccia alla stabilità finanziaria».

    Nella riforma si prevede che il Fondo possa chiedere aiuto al Mes in caso di mancanza delle risorse necessarie per affrontare eventuali situazioni di grave emergenza, come avvenne negli Usa nel 2008 con la bancarotta della Lehman Brothers. La stabilità del sistema bancario è nell’interesse di tutti gli europei, non solo della Germania. Certo, alcune banche tedesche e francesi sono considerate too big to fail e quindi sistemiche. Non è questo il caso della Popolare di Bari che dovrebbe essere di esclusiva pertinenza del governo e del sistema bancario italiano.

    Un altro aspetto della riforma riguarda l’assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà per l’eccessivo debito pubblico. Il Mes potrà dare il suo sostegno a condizione che il debito e la capacità di rimborso siano sostenibili. A questo proposito le valutazioni saranno compiute dalla Commissione europea di concerto con la Bce e il Mes e, ove possibile, insieme al Fmi. Il Mes può decidere una ristrutturazione parziale del debito. Non vi è, però, nessuna ristrutturazione automatica. Per una votazione d’urgenza si richiede la maggioranza di 85% dei voti e l’80% dei voti per procedure a maggioranza qualificata. La quota dell’Italia è del 17,9%. È quasi un potere di veto, quindi.

    Si ricordi comunque che il Paese che si rivolge al Mes per accedere ai crediti precauzionali deve soddisfare tre condizioni: un disavanzo pubblico inferiore al 3% del pil, un debito pubblico inferiore al 60% del pil oppure dimostrare che nei due anni precedenti la richiesta, era già impegnato a ridurre la parte eccedente il menzionato 60% a un tasso medio di un ventesimo l’anno.

    Per l’Italia ciò vorrebbe dire una riduzione del debito eccedente pari a 3,5% annuo. Qualora questi requisiti non fossero rispettati, è prevista una certa discrezionalità per l’erogazione di una linea di credito a condizioni rafforzate, sempre che vi siano una situazione economica e finanziaria solida e un debito pubblico sostenibile.

    Una lettura attenta della riforma del Mes induce in ogni caso a delle riflessioni. Prima di tutto, gli interventi previsti sono di fatto delle «misure tampone» a fronte di una crisi conclamata. Per cui non tanto il Mes, ma l’Europa e i governi interessati dovrebbero preventivamente intervenire per correggere le cause delle distorsioni finanziarie.

    Per quanto riguarda il settore bancario, il maggiore fattore di rischio è sicuramente la crescita esagerata, esponenziale, dei prodotti finanziari derivati, in particolare degli over the counter (otc). Infatti, l’ultimo rapporto dell’Esma, l’autorità europea per la vigilanza sui mercati finanziari, evidenzia che a fine 2018 il mercato europeo dei derivati aveva un valore nozionale di 735mila miliardi di euro (con un aumento dell’11% in un anno!), di cui 90% otc.

    La preoccupazione riguarda soprattutto le banche europee too big to fail. A cominciare dalla Deutsche Bank che avrebbe in pancia derivati per un valore nozionale di ben 43.500 miliardi di euro. A questo proposito, non è più rinviabile la separazione tra le banche d’investimento e quelle commerciali. Le autorità europee dovrebbero vietare a quest’ultime le operazioni speculative, elevare i depositi di garanzia per le operazioni rischiose e, comunque, limitare le vendite allo scoperto.

    A nostro avviso il vero nodo delle economie europee più fragili è quello di ridurre il rapporto debito/pil e promuovere la crescita attraverso una politica d’investimenti e di sostegno, anche da parte dell’Europa, alle produzioni e ai commerci.

    Perciò sembra strano che si preveda che il Mes possa accedere ai mercati di capitale con l’emissione di titoli e obbligazioni per proteggere il sistema bancario e i Paesi con una difficile situazione debitoria. Non si comprende, però, perché le istituzioni europee, con gli stessi strumenti e nelle dimensioni necessarie, non garantiscono nuovi crediti e capitali per gli investimenti, le infrastrutture, la ricerca e l’innovazione. Da troppo tempo si parla di euro bond per la crescita ma manca l’effettiva volontà di realizzarli. Perché?

    *già sottosegretario all’Economia **economista

     

  • La produttività delle politiche monetarie

    Il grido di allarme dell’uscente presidente della Bce Mario Draghi relativamente al rallentamento delle crescita economica europea dovrebbe finalmente aprire una seria valutazione sull’impatto delle politiche monetarie espansive inserite in un contesto di mercato  global, anche finanziario. La crescita insufficiente, infatti, lamentata dal presidente del Q.E. era ampiamente prevista in considerazione degli effetti della prima stagione di iniezione di liquidità ai quali si aggiungono fattori politici ed economici specifici che trovano espressione nel sentiment in constante flessione dei consumatori.

    L’ultimo quantitave easing ha permesso ai diversi Stati, in particolare al nostro, di applicare una politica di esplosione della spesa pubblica (+5% ogni anno) utilizzando in aggiunta anche i minori costi  regalati dal calo dei tassi di interesse e quindi dei costi di servizio al debito pubblico. Questa “reale sospensione dalla realtà delle valutazioni dei fondamentali economici del nostro paese” ha illuso tutti i governi, dal 2015 in poi, ed indotto gli stessi ad aumentare la spesa pubblica anche se finalizzata alla semplice copertura della sola spesa corrente mentre la stessa  in conto capitale, e quindi in fattori competitivi, veniva quasi azzerata: basti pensare agli 80 euro come al reddito di cittadinanza e a quota cento.

    Contemporaneamente la sovrabbondanza di liquidità ha letteralmente depatrimonializzato i risparmi i cui rendimenti con estrema difficoltà riescono a trovare rendimenti superiori allo zero virgola (https://www.ilpattosociale.it/2019/07/17/la-politica-monetaria-e-la-depatrimonializzazione-del-risparmio/).In questo contesto macro-economico risulta difficile immaginare una crescita dei consumi, e quindi una conseguente inflazione da domanda, in quanto il sentiment del consumatore trova la propria manifestazione nella crescita della liquidità nei conti correnti (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/03/la-crescita-dei-depositi-bancari-in-dieci-anni-75/). Una scelta fortemente criticata dal mondo politico ed economico il quale, tuttavia, ancora oggi non ha compreso l’entità dell’impatto devastante che la crisi  degli Istituti bancari come Popolare di Vicenza e Veneto Banca abbia determinato nel rapporto fiduciario tra risparmiatori e prodotti finanziari.

    Tornando alle dichiarazioni del presidente della Bce e relative alle cause della frenata della crescita della eurozona, queste vengono sostanzialmente indicate nel clima di incertezza legato alle tensioni internazionali (come la contrapposizione nel mondo arabo tra Arabia Saudita ed Iran) e al rallentamento del commercio mondiale a causa delle politiche “protezioniste” con una evidente accusa mossa all’amministrazione statunitense.

    Innanzitutto va ricordato che le politiche protezioniste furono inaugurate dall’Unione Europea, cominciando dall’alluminio cinese al riso ed alla ceramica da consumo fino ai pneumatici cinesi (https://www.ilpattosociale.it/2019/07/22/free-o-fair-trade-i-diversi-casi-di-ceramica-riso-e-tessile/). In più, in ambito strategico risulterebbe opportuno utilizzare come parametro economico non tanto il commercio (che risulta espressione di valori già prodotti) quanto i prodotti sintesi di  valore aggiunto legato al know how ed alle professioni, espressione quindi di un valore economico e culturale di un sistema economico nazionale.

    In una recente ricerca pubblicata dalla Banca d’Italia viene certificato come le retribuzioni medie in Italia statisticamente risultino in diminuzione soprattutto a causa dell’aver puntato sul settore turistico a basso valore aggiunto come alla concorrenza nei lavori a bassa professionalità della manodopera extracomunitaria. Da questi dati emerge la seconda motivazione per la quale la crescita italiana in primis ed europea, nonostante l’iniezione di liquidità, non aumentano in quanto il turismo (il petrolio italiano si affermava)non offre  un valore aggiunto simile a quello generato dal sistema industriale. Un minore valore aggiunto che si traduce in una minore capacità di acquisto e di consumo.

    Una crisi economica come quella cominciata nel 2008 ovviamente ha evidenziato come le strategie economiche degli ultimo vent’anni di fatto ci abbiano impoverito. In questo senso, infatti, non sarà mai troppo tardi ricordare come le delocalizzazioni produttive di fatto abbiano rappresentato un semplice elemento speculativo (di clonazione finanziaria) e abbiano permesso alle aziende una svalutazione competitiva del bene finale o intermedio (escludendo ancora il fattore valutario) ed una svalutazione del bene importato dai paesi a basso costo di manodopera. Una strategia all’interno di una logica di breve periodo, espressione della  classifica azione speculativa che il  settore industriale con colpevole leggerezza ha adottato.

    In un contesto così articolato e complesso, quindi, risulta illusorio credere che una politica monetaria espansiva possa offrire degli effetti positivi relativi alla crescita degli asset industriali quando gli Istituti bancari (il vero tessuto connettivo della crescita) stanno riducendo il credito alle imprese.

    Ma il grido d’allarme del presidente della BCE andrebbe anche rivolto non solo ai responsabili delle scellerate politiche della costante crescita della spesa pubblica dei paesi sud-europei ma anche e soprattutto a tutto quel mondo economico che negli ultimi anni aveva  individuato nella sharing, App e gig Economy la strada maestra verso lo sviluppo economico ed in più sostenibile.

    Non appena la locomotiva tedesca, per lo più legata al settore automobilistico (che non è stato assolutamente tutelato dalla Merkel con sua  grandissima colpa) ha mostrato segnali di rallentamento ecco che le produzioni espressione dei nostri distretti industriali sono precipitate del -34,7% il distretto metalmeccanico di Lecco mentre un -30,8% il distretto dei metalli di Brescia e persino il settore delle mele dell’Alto Adige segna un -18,5 %, dimostrando ancora una volta come un mercato globale condizioni settori tra loro distanti. Una tendenza macro comune a tutti i distretti italiani, come per il  tessile abbigliamento pratese e il settore della rubinetteria di Lumezzane che segnano flessioni di produzioni molto preoccupanti. La stessa confusione strategica relativa alla sostenibilità della economia globale, della quale il mondo politico sembra accorgersi seguendo una adolescente svedese, genera una incertezza che blocca qualsiasi iniziativa ed investimento economico. Basti pensare come il nostro sistema industriale delle Pmi risulti il più eco sostenibile d’Europa e come lo stesso continente europeo abbia ridotto le emissioni dal 2000 ad oggi del -16% mentre Cina ed India rispettivamente del +208% e 155%.

    Quindi l’eccellenza industriale italiana ed europea, che trova la massima espressione nel settore automobilistico nel motore diesel a basse emissioni e nella produzione di energia nucleare, ora si trova sotto accusa per responsabilità di altri paesi lontani da noi non solo geograficamente ma soprattutto nelle normative di tutela dell’ambiente così come dei lavoratori ed ovviamente dei prodotti.

    Tornando al  contesto europeo ed italiano  caratterizzato dalla assoluta estemporaneità del ceto politico, la cui visione di crescita strategica parte dalla tassazione delle merendine e ripropone l’ennesima lotta all’evasione fiscale ignorando gli oltre 200 MLD di sprechi delle spesa pubblica, è normale che il consumatore e il lavoratore posticipano gli acquisti lasciando la liquidità nei conti e di fatto ponendo un altro ulteriore freno alla crescita.

    Ripensando, quindi, alle considerazioni del purtroppo uscente presidente Draghi risulta evidente come il nostro continente, dopo anni di declino culturale, abbia imboccato la strada del precipizio culturale, figlio di una classe dirigente e politica selezionata con criteri assolutamente inadeguati in considerazione di un mercato globale e sempre più complesso. In altre parole, le economie europee, come quella italiana, non crescono non perché la produttività industriale diminuisca ma perché la produttività delle politiche monetarie risulta quasi ininfluente in rapporto all’entità degli strumenti finanziari utilizzati all’interno di un mercato globale.

  • Matrimoni e Patrimoni, quando la finanza parla al femminile

    In Italia una donna su due non lavora, le donne sposate non autonome finanziariamente sono sempre più a rischio, la carriera di una donna spesso ha un percorso non regolare e, per non farci mancare nulla, le donne hanno una longevità superiore rispetto agli uomini diventando, loro malgrado, protagoniste del cosiddetto longevity risk, letteralmente il rischio di sopravvivere al proprio patrimonio. Secondo i dati ISTAT, infatti, le anziane sole sarebbero la categoria più soggetta a povertà. A tutto questo va aggiunta una poca, spesso scarsa, competenza in materia finanziaria che le rende più propense a distorsioni cognitive. Di questo scenario e delle sue possibili soluzioni se ne parlerà durante l’aperitivo letterario T-ESSERE La finanza parla al femminile? organizzato da Women&Tech mercoledì 11 settembre a Milano, alle ore 18,30, allo Spazio Open di Viale Montenero 6 in cui verrà presentato il libro “Matrimoni & Patrimoni” (Hoepli Editore) scritto da Debora Rosciani, giornalista di Radio 24 e Roberta Rossi Gaziano, consulente finanziario indipendente. Il volume proverà a fornire una ideale cassetta degli attrezzi per affrontare un contesto sempre più sfidante, soprattutto per le donne. Con le due autrici dialogheranno Barbara Alemanni, affiliate professor of banking and insurance, SDA Bocconi School of Management e Milena Bardoni, senior private banker, Banca Mediolanum, a fare da moderatrice Paola Rota, autrice e conduttrice. Un libro, ed un incontro, per imparare a dotarsi delle basi minime per affrontare il mondo degli investimenti, comprendere l’attuale contesto economico e pianificare il proprio futuro finanziario per non subire una decrescita tutt’altro che felice e non affrontare impreparate le sfide che ci attendono. Per non dover dire un giorno “Ah se ci avessi pensato prima”.

  • Esce ‘Gli Stangati’, per imparare a navigare nel fosco mare degli investimenti finanziari

    C’è chi ha subito un raggiro finanziario o una truffa e chi ha effettuato investimenti sbagliati. Entrambe le categorie in questione sono state vittime, più o meno inconsapevolmente, di una stangata sul proprio patrimonio investito, frutto di risparmi anche di una vita intera. A tutti loro, e non solo, Stefano Elli, giornalista de Il Sole24 Ore dedica un libro, Gli stangati, disponibile in libreria, e con il noto quotidiano economico, dal prossimo 11 luglio. Da trent’anni anni impegnato a raccontare, attraverso le sue inchieste e i suoi articoli, storie di abusivismo finanziario e operazioni truffaldine che hanno coinvolto migliaia di italiani, nel suo nuovo volume Elli offre uno spaccato sistematico di storie di imbrogli e investimenti traditi, raccogliendoli per tipologia, metodo e modalità operative. L’obiettivo è quello di dare al lettore uno strumento per tutelarsi ed evitare comportamenti che possano mettere a repentaglio il proprio denaro. L’educazione finanziaria è uno dei temi fondamentali de Il Sole 24 Ore, quotidiano da sempre garanzia di un’informazione trasparente, veritiera e utile. Con la pubblicazione di questo volume autore ed editore intendono perseguire un obiettivo comune: contribuire a rendere i lettori meno vulnerabili ed esposti ai comportamenti a rischio raccontando le vicissitudini di coloro che, cedendo alle lusinghe dei gatti e delle volpi 4.0, non sono riusciti a evitarli.

    Il messaggio che si evince è forte e chiaro: leggete quanto è accaduto ad altri per evitare che capiti a voi. Imparate a controllare sempre a chi affidate il vostro risparmio, informatevi prima di fare un investimento, perché i truffatori sono sempre attivi e spesso utilizzano modalità già viste in altre occasioni. Il tono del messaggio non vuole essere moralistico e in questo aiuta la capacità di Stefano Elli di scrivere con taglio ironico e stile veloce e leggero, ma sempre chiaro e preciso.

  • Banche, non sono al primo posto. Nella gestione della massa degli attivi finanziari globali

    Pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 25 febbraio 2019

    Pochi crederebbero che nel mondo della finanza, le banche non siano più i «number one».

    Eppure lo conferma il rapporto «Global Shadow Banking Monitoring Report 2017» del Financial stability board (Fsb), il Consiglio per la stabilità finanziaria. Si ricordi che è l’organismo internazionale con il compito di monitorare il sistema finanziario mondiale per ridurre il rischio sistemico. In passato è stato presieduto anche da Mario Draghi.

    Secondo tale rapporto, alla fine del 2016 gli attivi finanziari globali totali ammontavano a 360 mila miliardi di dollari. Cinque volte e mezzo il pil mondiale. Essi sono così suddivisi: 160 mila miliardi gestiti dagli organismi finanziari non bancari, 138 mila dalle banche, 26 mila dalle banche centrali e il resto da istituti finanziari pubblici. Gli organismi finanziari non bancari, cioè «gli enti e le attività dell’intermediazione del credito che operano fuori dal sistema bancario regolare», sono considerati e chiamati dallo Fsb «shadow banking», sistema bancario ombra. Secondo il Consiglio non sarebbe è una definizione spregiativa.

    Sta di fatto che essi manovrano cifre spaventose, se si confrontano con quelle del pil mondiale. Per evidenziare tutta la fragilità e i rischi del sistema finanziario, è, inoltre, doveroso rilevare che non sono inclusi i noti derivati finanziari otc e altri prodotti speculativi, di cui più volte abbiamo denunciato la pericolosità.

    I non bancari comprendono le assicurazioni con 29 mila miliardi di dollari di attivi concentrati negli Usa e in Europa, i fondi pensione con 31 mila miliardi, il 60% dei quali in mano americana, e ben 100 mila miliardi dei cosiddetti «Other Financial Intermediaries» (Ofi) che includono vari tipi di fondi d’investimento, hedge fund, holding finanziarie e altri organismi finanziari, spesso «molto fantasiosi» e speculativi.

    Circa la creazione del credito, però, le banche mantengono ancora il primato con 69 mila miliardi, pari al 77 per cento del totale, lasciando molto indietro il settore dei citati Ofi. Il che significa che questi ultimi sono attratti soprattutto da settori molto distanti da quelli concernenti l’economia reale.

    Nel frattempo gli Ofi hanno registrato un grande aumento in Europa. Ad esempio, rappresentano il 92% di tutti gli attivi finanziari del Lussemburgo, il 76% dell’Irlanda e il 58% dell’Olanda. L’area euro conta detti attivi per 32 mila miliardi di dollari, superando gli Usa, dove, in realtà, stanno diminuendo, e di molto la Cina, dove, al contrario, è in atto una crescita straordinaria.

    All’interno degli Ofi vi è un settore in continuo aumento che rappresenta ben 45 mila miliardi di attivi considerati molto rischiosi anche dallo Fsb. Si chiama «narrow measure of shadow banking», un nome senza senso anche in inglese e impossibile da tradurre in italiano in modo comprensibile. Non è la prima volta che prodotti finanziari molto rischiosi vengono chiamati, volutamente, in modo stravagante e fuorviante.

    Secondo il Consiglio per la stabilità finanziaria, le operazioni «narrow measure» sono molto più rischiose in quanto utilizzano massicciamente la leva finanziaria, operano cioè con grandi numeri ma pochi capitali propri. Di conseguenza sono vulnerabili ai rischi di rinnovo delle posizioni e di estensione della scadenza (rollover risk) e a quelli di eventuali massicci ritiri di fondi per timore di insolvenza (run), in particolare quando si rendono dipendenti da finanziamenti di breve periodo.

    Sono esattamente le situazioni che si erano create alla vigilia della Grande Crisi del 2008 e che hanno provocato il crollo del sistema. Circa le citate operazioni «narrow measure» gli Usa sono ancora i primi con il 31%, seguiti dall’Europa con il 22% e dalla Cina con il 16%. È molto rilevante il fatto che le Isole Cayman, il «paradiso fiscale» per eccellenza, con 4.700 miliardi di attivi, rappresentano il 10% del totale!

    Nei passati 5 anni la quota del settore bancario si è andata riducendo di anno in anno, rimpiazzata da una crescente e sempre più ingombrante presenza dello shadow banking. La tendenza è stata ancor più forte in Europa. Comunque, resta sempre molto elevata l’interconnessione tra tutti i vari settori, bancari e non. Perciò permane il rischio di crisi sistemiche.

    Gli studi fatti dal Financial stability board sono encomiabili e di grande aiuto. Però, la velocità e le dimensioni degli attuali processi finanziari sono davvero straordinarie e ci impongono una domanda. Le autorità di controllo sono veramente capaci di governarli oppure tentano di inseguire queste evoluzioni finanziarie che, di fatto, finiscono col dettare i movimenti e le regole di comportamento dei mercati e dei loro principali attori? È un dubbio inquietante che lascia sconcertati.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Un debito insostenibile e il rischio di un nuovo crac finanziario

    William White, ex capo economista della Banca per i Regolamenti Internazionali (BRI) ha dichiarato al settimanale Der Spiegel del 7 settembre scorso che “il problema di fondo della crisi della Lehman Brothers (la più grossa banca d’affari degli Stati Uniti che dichiarò bancarotta il 15 settembre 2008 scatenando la crisi finanziaria non ancora risolta del tutto) non è mai stato affrontato. Al contrario – afferma White – è stato esacerbato e il debito è più alto che mai” ed il sistema finanziario “è giunto al limite”. Affermazioni gravi, se corrispondono al vero, che dovrebbero impensierire i politici di ogni colore. Allo scoppio della crisi del 2007/2008 tutti gli esperti hanno dichiarato che quel che stava accadendo era causato dal sistema finanziario esistente. La crisi è sistemica – dicevano – non congiunturale e momentanea. Ma tutti gli espedienti utilizzati per far fronte alla crisi non hanno mai intaccato il sistema, non lo hanno mai riformato, come inizialmente gli esperti chiedevano. Anzi, le banche speculative, invece, non solo furono salvate, ma fu loro permesso di riscrivere le regole. Bilioni di denaro a costo zero sono stati regalati alle banche e alle istituzioni finanziarie ombra, sotto l’egida del “Quantitative Easing” e questi soldi sono andati ai mercati azionari, producendo una finta ripresa e rilanciando lo smercio dei derivati. L’effetto è stato che il volume di debito a bassa qualità dei Paesi emergenti, come pure il debito sovrano di molti Paesi transatlantici, unito al livello insostenibile raggiunto dal debito societario, dal debito privato (carte di credito), dai prestiti studenteschi e via dicendo, ha raggiunto livelli pericolosi. In effetti le economie emergenti sono oggi esposte per oltre 8.000 miliardi di dollari di debito sovrano e societario, 249 miliardi dei quali scadranno l’anno prossimo. L’aumento dei tassi d’interesse e un dollaro più forte rendono più costosi i rimborsi, con la conseguenza che si va verso l’insolvenza. Ancora più esposto è il debito societario americano. Nel 2007 gli USA avevano 17.700 miliardi di dollari di debito societario. Oggi quel dato è 15.900 miliardi, gran parte del quale di bassa qualità, inclusi i cosiddetti titoli spazzatura. Nel 2008 furono emesse obbligazioni societarie per 700 miliardi di dollari. Questa cifra è aumentata di 2,5 volte nel 2017, con un’afta percentuale di debito sub-prime. Raghuram Rajan, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, ha messo in guardia dall’effetto domino che potrebbe essere scatenato da un default, e sottolineando che il settore più a rischio della finanza consiste oggi nel “sistema bancario ombra” in cui non v’è trasparenza. Nonostante le rassicurazioni di politici e istituzioni finanziarie, il sistema bancario non è affatto più forte rispetto al crac del 2008. Gran parte del debito creato dalle banche centrali per stimolare la ripresa, è di dubbia qualità e i piani di riduzione della leva finanziaria ideati dalle banche centrali, insieme all’aumento dei tassi d’interesse in corso o in programma, aumenteranno la volatilità fino a raggiungere un punto pericoloso. Non c’è alcun dubbio: il rischio che si corre è dato da un debito insostenibile, che minaccia di scatenare il prossimo crac finanziario. Per evitarlo, c’è chi propone di ripristinare la legge Glass-Steagall, cioè la netta separazione tra banche d’affari e banche ordinarie, costringendo le prime ad accollarsi le perdite aggiustando il valore dei derivati ai prezzi reali e tutelando invece le banche ordinarie e i risparmiatori. L’appello più importante è contenuto in un “libro bianco” pubblicato dall’associazione nazionale delle banche cooperative, la National Association of Federally Insured Credit Unions (NAFCU), dal titolo Modernizing Financial Services: The Glass Steagall Act Revisited (“Ammodernare i servizi finanziari: il Glass Steagall Act rivisitato”), seguito da un editoriale su The Hill dell’11 settembre a firma di Carrie Hunt, vicepresidente esecutiva e consulente legale dell’associazione. Anche se sottovaluta il pericolo di un crac finanziario oggi, la Hunt fa notare che il ripristino della legge Glass-Steagall contribuirebbe a tutelare i consumatori dagli effetti di “un’assunzione di rischi sfrenata ed eccessiva” e impedirebbe che le banche cosiddette “too big to fail” (troppo grandi per esser lasciate fallire) dovessero essere sovvenzionate dai contribuenti. Appelli simili sono stati lanciati in Germania. E in Italia?

    Fonte: Agenzia EIR Strategic Alert n. 38 del 18.09.18

Pulsante per tornare all'inizio