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  • Risparmio gestito più magro, lontano da record 2021

    Al risparmio gestito non basta un dicembre 2022 con oltre 11 miliardi di raccolta, grazie alla spinta dei mandati istituzionali (8,7 miliardi), per rimettere in sesto un anno che resta lontano dal record di 93 miliardi registrato a fine 2021 (segnato dal Covid) e che, peraltro, è stato il miglior risultato dal 2017.

    Il 2022, sferzato dalla volatilità, chiude – sulla base della consueta mappa stilata da Assogestioni- sfiorando i 20 miliardi di euro (19.7). A dicembre sul totale (11,15 miliardi) 1,58 miliardi sono gestioni collettive e 9,57 miliardi sono frutto delle gestioni in portafoglio. Quanto al patrimonio gestito scende a 2.215 miliardi euro, dai 2.260 miliardi di novembre.

    “Il dato sulla raccolta netta a dicembre è stato determinato quasi totalmente dai mandati istituzionali, i cui flussi seguono delle dinamiche su cui l’andamento dei mercati influisce in misura minore rispetto al mondo retail”, osserva Alessandro Rota, direttore Ufficio Studi di Assogestioni. “In attesa della lettura trimestrale definitiva, il segnale incoraggiante – aggiunge Rota – arriva a mio avviso dai fondi aperti, con gli azionari che continuano a catalizzare l’interesse degli investitori, consolidando un trend orientato al lungo periodo che prosegue ormai da tempo”.

    I numeri confermano infatti la resilienza dei fondi aperti, che nell’ultimo mese del 2022, hanno registrato 1,14 miliardi euro di afflussi e, in particolare, quella dei prodotti azionari, in positivo per 1,39 mld euro. Segno più anche per i fondi obbligazionari (+375 milioni), mentre restano in rosso quelli bilanciati (-342 milioni). Per i fondi chiusi invece la raccolta è stata di 444 milioni di euro. L’ammontare del patrimonio delle gestioni collettive si attesta così a 1.160 miliardi di euro, equivalenti al 52,4% del totale.

  • Il debito mondiale alle stelle

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 3 febbraio 2023

    L’aumento dei tassi d’interesse e la stagflazione, cioè la situazione che si crea quando la stagnazione economica si combina con l’aumento dell’inflazione, stanno mettendo inevitabilmente la struttura del debito sotto pressione. A giugno si calcolava che il debito mondiale globale, pubblico e privato, fosse pari a 300 mila miliardi di dollari, cioè il 350% del pil mondiale. Nel 1999 era di 200 mila miliardi. Negli Usa il rapporto è del 420%, più alto di quello della Grande Depressione degli anni Trenta e dell’immediato dopoguerra. Tale percentuale riguarda tutte le economie avanzate. In Cina è del 330%.

    I debiti in sé non sono un problema se servono a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il rischio si manifesta quando crescono in maniera sproporzionata e sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale.

    La crescita del debito mondiale ha colpito numerosi settori, come le famiglie, le imprese, le banche, soprattutto quelle cosiddette “ombra”, i governi e persino interi Paesi. In particolare i debitori chiamati zombie, gli insolventi, che sono stati mantenuti a galla dalla prolungata politica del tasso di interesse zero. Da quando la Fed e le altre banche centrali hanno iniziato ad alzare i tassi d’interesse nel tentativo di stabilizzare i prezzi, gli zombie vedono il costo del loro debito crescere costantemente. A ciò bisogna aggiungere l’erosione dei redditi, dei risparmi e della ricchezza, immobiliare e mobiliare, liquefatta dall’inflazione.

    L’ultima volta che l’economia mondiale ha sperimentato la stagflazione è stato negli anni Settanta. Allora, però, i tassi debitori erano più bassi. Oggi, invece, si potrebbe parlare del rischio di “choc da stagflazione”. Anche perché non si pensa di ridurre i tassi d’interesse per alimentare la domanda, le produzioni e i consumi.

    Vi sono poi degli eventi geopolitici che hanno avuto e continuano a creare choc negativi nell’offerta: la pandemia, la guerra in Ucraina, certe problematiche interne cinesi, ecc. Rispetto alla grande crisi finanziaria del 2008 e del periodo iniziale del Covid, questa volta non si potrà intervenire con salvataggi pubblici ai settori in difficoltà. Il rischio è generalizzato.

    Alcuni economisti americani, come il professore di Harvard, Kenneth Rogoff, già capo economista del Fmi, vorrebbero distogliere l’attenzione dalle aree di crisi degli Usa, dove, per esempio, il debito delle grandi imprese è diventato un enorme cancro e dirigerla altrove. In particolare Rogoff ha scelto il Giappone e l’Italia come focolai di crisi, perché, a suo dire, l’aumento dei tassi d’interesse renderebbe per loro sempre più difficile garantire il servizio sul debito pubblico.

    Anche i Paesi emergenti sono sotto pressione. Essi sono direttamente influenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’inflazione stanno rendendo molto difficile la gestione del loro debito. The Economist ha identificato ben 53 Paesi vulnerabili che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso che la Banca Mondiale sostiene che il 60% dei Paesi emergenti o poveri è diventato debitore ad alto rischio.

    Poiché i governi non sono intenzionati a tagliare i bilanci o ad aumentare le tasse per ovvi motivi sociali e politici, ancora una volta la patata bollente passa nelle mani delle autorità monetarie. Cresce perciò la richiesta che le banche centrali tornino a monetizzare i deficit. In altre parole, un altro periodo di quantitative easing!

     

    Altri, invece, vorrebbero globalizzare gli allargamenti monetari e finanziari facendo giocare un ruolo centrale al Fmi. Pochi mesi fa il Fmi aveva emesso una montagna di Diritti speciali di prelievo, la sua moneta, equivalenti a 650 mld di dollari. L’intervento era stato abilmente presentato come necessario al sostegno dei Paesi più poveri. In realtà, all’Africa sub sahariana sono andati soltanto 32 mld. Infatti, la distribuzione è stata fatta in rapporto al pil dei Paesi.

    Le politiche attuali potrebbero posporre le crisi ma non evitarle. Per una più adeguata gestione del debito è da farsi almeno l’introduzione di strumenti atti a contenere le varie forme di speculazione.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Un euro sempre meno utilizzato

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 31 gennaio 2023.

    Il mercato dei cambi valutari, il cosiddetto foreign exchange FX, una parte importante della bolla finanziaria e dei derivati, vive una crescente fibrillazione. Il rischio di una grave crisi è grande. A dirlo è la Banca dei Regolamenti Internazionale di Basilea nella sua recente «Triennual Survey».

    Il turnover nei mercati FX è in forte rialzo a livello globale. Nell’aprile 2022 il fatturato è stato pari a 7.500 miliardi di dollari al giorno, un volume 30 volte superiore al pil globale giornaliero. Il 14% in più rispetto al 2019. Circa il 90% delle operazioni è fatto con la valuta americana. L’euro ha una quota del 31%, in forte calo rispetto al 39% del 2010. La valuta cinese è passata da meno dell’1% di venti anni fa a oltre il 7% di oggi.

    Secondo la Bri, a rendere più difficile la gestione è la maggiore frammentazione del trading sui cambi perché si è passati a forme bilaterali di negoziazione elettronica. La Bri parla di uno spostamento da forme visibili ad altre più opache. Una delle principali fonti di vulnerabilità è l’indebitamento in dollari insito nei mercati valutari. A differenza della maggior parte dei derivati, quelli sulle valute comportano lo scambio di capitale e quindi danno luogo a obblighi di pagamento (debiti) pari all’intero importo del contratto.

    A metà del 2022 questo indebitamento in dollari ammontava globalmente a 85 mila miliardi. Se si aggiungono tutte le monete, i debiti arrivano a 97.000 miliardi di dollari, cioè pari al pil globale del 2021 e tre volte il commercio mondiale.

    Per i soggetti non bancari fuori degli Usa, per esempio i fondi d’investimento, si stimano 26 mila miliardi di obblighi di pagamento tenuti fuori bilancio, il doppio del loro debito in dollari registrato in bilancio. Nel 2016 erano 17.000 miliardi. Le banche non statunitensi hanno circa 39.000 miliardi di tali obblighi fuori bilancio rispetto a quelli registrati nei bilanci pari a 15.000. Sono più di 10 volte il loro capitale.

    Le operazioni sulle valute, quindi, creano debiti in dollari in gran parte a brevissimo termine che non compaiono nei bilanci e mancano nelle statistiche sul debito. Lontano dagli occhi, afferma la Bri, non dovrebbe tuttavia significare lontano dalla mente. In passato ci sono stati persino casi di fallimento di alcuni attori coinvolti.

    La Bri sottolinea che ogni giorno dello scorso aprile un terzo del fatturato FX, circa 2.200 miliardi di dollari, era a rischio. Un aumento del 16% in tre anni. In definitiva la Bri invita le banche centrali e i governi ad approntare con urgenza regole stringenti. Evidentemente ritiene che le parole e le danze degli sciamani della finanza non bastino.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La verità sul MES

    L’opposizione politica all’adozione del MES, acronimo del Meccanismo Europeo di Stabilità, giustifica questa scelta evocando improbabili scenari di pericolosità inaudita per i destini del Paese, senza però indicarne concretamente nessuno, ma limitandosi a ipotesi generiche e approssimative, che richiamano unicamente alla memoria il duro e sacrificato salvataggio della Grecia.

    Un esempio che non calza per niente, alla luce del fatto che l’Italia non è la Grecia, che aveva a suo tempo falsificato i bilanci ed era ad un passo dal default, e soprattutto perché l’eventuale utilizzo dei prestiti, non riguarderebbe il salvataggio dello Stato, ma costi e utilizzi contenuti e sostenibili.

    Quindi siamo di fronte ad una fobia anti MES, che mal si concilia con le logiche della politica, che devono analizzare le questioni e i dossier, per trarne il giusto giudizio e cogliere la valenza delle scelte.

    Ma quando la politica si veste con l’abito della demagogia, basta gridare al lupo al lupo e la razionalità va a farsi benedire.

    Ma l’Italia davvero vuole correre il rischio di non ratificare il nuovo MES, sulla base di pregiudizi che sono inesistenti? Ovvero giocare la carta, un tantino ipocrita, del rifiuto del governo a prendere una posizione definitiva a favore della ratifica, per lasciare la purezza del rifiuto a Premier e Ministro dell’Economia, affidando al Parlamento la “libertà” di votare a favore della ratifica, salvando contemporaneamente la narrazione demagogica e il buon vicinato con i partner UE?

    Ma davvero si sente il bisogno di un finto gioco delle parti, in cui un Parlamento di nomina dall’alto e senza alcuna libertà di scelta, pena la non ricandidatura, consenta la ratifica che i leader sotto copertura euroscettica non vogliono ufficialmente concedere? Non sarebbe ora che la narrazione uscisse dalle logiche del sì o no al MES, per prendere atto che la nuova versione non costituisce per nessun Paese, e meno che mai per l’Italia, un pericolo alla propria sovranità, specie in termini di obbligo alla ristrutturazione del debito pubblico?

    Basta leggere il dossier per verificare come funziona il meccanismo di stabilità e per prendere atto della totale inesistenza di pericoli simil Grecia.

    In primo luogo perché l’unica condizione è che i fondi concessi vengano usati per spese sanitarie dirette e indirette, rafforzare la sanità territoriale, ma anche la prevenzione sanitaria in altri campi, come la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e delle scuole. Non sono previsti altri vincoli, come quelli imposti in occasione del salvataggio della Grecia e non viene richiesta alcuna riforma economica o di bilancio.

    L’unico controllo è, prima della concessione del prestito, la valutazione del debito preesistente del Paese da finanziare, che deve essere sostenibile, cosa che l’Italia ha notoriamente avuto riconosciuto. Ma nella peggiore ipotesi, qualora non venisse riconosciuto, l’unica conseguenza sarebbe la mancata concessione del prestito, e la questione finirebbe lì.

    Ecco perché appare strumentale e parossistico l’atteggiamento di paura nei confronti delle presunte conseguenze di accedere al prestito dei fondi Mes.

    Ma c’è davvero qualcuno che potrebbe pensare che l’Italia possa finire come la Grecia?

    L’Italia con il suo PIL, il diritto di veto di cui gode, insieme a Francia e Germania, che gli proviene dalla partecipazione con il 17,7% di contributo al fondo e con la sua potenza economica, non potrebbe mai essere messa in un angolo per il prestito di appena 37-40 Mld di euro, da destinare alla Sanità nazionale, pari al valore di una manovra finanziaria.

    Come potrebbe mai un debito così insignificante, mettere il Paese in ginocchio?

    La situazione è quindi del tutto diversa, ed il punto politico non è la ratifica, ma l’utilizzo dei 37-40 Mld di euro, che oggi potrebbero se richiesti e spesi con velocità e intelligenza, riuscire a recuperare le falle mostruose della sanità nazionale, e consentire di riportare il rapporto dell’assistenza medica e ospedaliera di nuovo a livelli di civiltà, salvando migliaia di vite umane, altrimenti a rischio. Non è pensabile, per questioni ideologiche, di penalizzare ancora gli italiani.

    Il nostro sistema sanitario è stato massacrato da una miriade di tagli nei finanziamenti degli ultimi decenni, nel corso dei quali gli investimenti sono diminuiti in maniera esponenziale e gli stipendi dei medici ed infermieri, si sono ridotti dal 40% al 30% del totale. Erano 27 miliardi di euro nel 2000, sono stati 36 Miliardi di euro nel 2019, con un aumento nominale del 32%, molto più basso dell’inflazione, che nello stesso periodo è stata del 50%.

    In termini di potere d’acquisto quindi gli stipendi del personale sanitario si sono ridotti del 18%, facendo degli operatori della sanità italiana una delle categorie meno pagate d’Europa nel loro settore.

    Da qui conseguenze a cadere con i pronto soccorso strapieni e sotto stress, l’assenza di una medicina dei territori, la riduzione del numero dei medici ed infermieri in servizio, in pratica il serio rischio di implosione dell’intero sistema.

    Per questo, ciò che c’è da fare è l’esatto contrario di ciò che si è fatto negli ultimi vent’anni, investendo su un maggior numero di medici e infermieri, realizzare più presidi territoriali, organizzare la medicina dei territori, incoraggiare di nuovo i giovani a intraprendere le carriere sanitarie e fornire servizi sanitari veri ai cittadini.

    Abbiamo con il MES una fonte di risorse a costo praticamente zero, rispetto a qualsiasi altro strumento finanziario, e non è pensabile che si possa rinunciare al suo utilizzo, per questioni di identità politica o per paure astratte, che non hanno alcuna giustificazione.

    Per questo il MES va ratificato ed utilizzato, lo impone la situazione della sanità nazionale, ed il dovere di dare risposte concrete ai cittadini italiani più fragili perché bisognosi di aiuto.

  • Le bollette intaccano i risparmi, è boom di prelievi

    L’onda lunga della crisi economica generata dalla pandemia, ma soprattutto l’aumento delle bollette energetiche seguito alla guerra in Ucraina si fanno sentire sempre di più sui risparmi di famiglie e aziende. Così il salvadanaio degli italiani, dopo quasi tre anni di crescita costante, torna a svuotarsi. Un’inversione di tendenza certificata dai dati, che indicano come solo negli ultimi 3 mesi sono stati prelevati da conti correnti e altre forme di risparmio oltre 50 miliardi di euro.

    Si tratta di una diminuzione del 2,4%, spiega il Centro studi di Unimpresa, visto che a luglio l’ammontare delle riserve delle famiglie e delle imprese depositate nelle banche del Belpaese era a quota 2.097 miliardi, mentre ad ottobre la cifra è calata a 2.047 miliardi. Una fotografia scattata analizzando i dati della Banca d’Italia, spiega la confederazione delle imprese, secondo la quale “il deflusso improvviso potrebbe avere qualche ripercussione” sulla raccolta da parte delle banche e degli istituti di credito.

    “Quella che abbiamo sotto gli occhi è una situazione drammatica che noi, purtroppo, avevamo prospettato da tempo”, commenta il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara, sottolineando come “stanno venendo meno le forze e la liquidità, sia per le famiglie sia per le imprese, specie quelle più piccole. I costi sono insostenibili – prosegue – le bollette energetiche non più gestibili. Ecco perché, chi ha la possibilità attinge alle proprie riserve. Al governo riconosciamo l’impresa di aver confezionato una legge di bilancio comunque positiva e in tempi brevissimi. Tuttavia segnaliamo l’urgenza di avviare un piano straordinario di interventi pubblici e di sostegni a partire da gennaio”.

    Fino al luglio scorso, da oltre 2 anni si era registrata una crescita costante dei risparmi degli italiani, complice anche il periodo della pandemia e del lockdown che ha portato a un drastico calo dei consumi: 1.823 miliardi a dicembre 2019, 1.956 miliardi a dicembre 2020, 2.050 miliardi a ottobre 2021, 2.075 miliardi a dicembre 2021. Una tendenza all’accumulo che è proseguita per tutto l’anno in corso, salvo invertire la rotta da agosto in poi.

    Sono soprattutto i conti correnti la forma di accumulo più utilizzata da aziende e cittadini, sia durante la fase di risparmio sia come fonte a cui attingere in caso di liquidità necessaria in tempi rapidi: il saldo totale era pari a 1.182 miliardi a fine 2019, a 1.349 miliardi a fine 2020, a 1.449 miliardi a ottobre 2021 e a 1.480 miliardi a dicembre 2021, e ancora in aumento fino a 1.497 miliardi fino a luglio 2022. Poi la discesa di 45 miliardi (-3,0%) a 1.452 miliardi toccati a ottobre scorso. Più lineare invece l’andamento delle altre forme di deposito e accumulo di liquidità, come i depositi con durata prestabilita, i depositi rimborsabili con preavviso, i pronti contro termine.

  • Crolla il risparmio gestito dopo il record del 2021

    Crolla il risparmio gestito nel 2022 dopo la raccolta record di 93 miliardi del 2021. A dire il vero l’avvio dell’anno era stato più che promettente con un primo trimestre a quota 11 miliardi. Poi i mesi estivi, tradizionalmente più deboli, e un settembre negativo hanno certificato le poche luci e le molte ombre. Difficile invertire la tendenza complice l’estrema volatilità di un mercato stretto tra la morsa dell’inflazione e le tensioni geopolitiche. Se lo scorso anno la raccolta mise a segno il miglior risultato dal 2017, il 2022 con gli 11 mesi a quota 8,6 miliardi secondo i dati Assogestioni, si avvia a chiudere sui livelli o comunque poco sopra i 7,8 miliardi del 2020, anno segnato dalla pandemia.

    Andando a scorrere i dati di novembre il patrimonio del mercato italiano del risparmio gestito si è attestato a 2.260 miliardi di euro. A influire sulle masse è stato principalmente l’effetto mercato positivo, quantificato dall’ufficio studi di Assogestioni in un +2,4%. La raccolta netta è stata positiva per 268 milioni. Una cifra, quest’ultima, in calo rispetto ai 967 milioni di ottobre, mese che però ha segnato una ripresa della raccolta dopo i -3,3 miliardi di settembre. Da segnalare a novembre l’Inversione di marcia per i fondi aperti che sono tornati in territorio positivo, raccogliendo 231 milioni nel mese. In particolare, i dati hanno confermato il continuo interesse dei sottoscrittori per i prodotti azionari, che hanno registrato afflussi netti pari a 1,63 miliardi. Allo stesso tempo, si sono affievoliti i deflussi dai comparti obbligazionario e bilanciato, pari rispettivamente a 216 e 379 milioni di euro. La mappa mensile di Assogestioni indica poi come, sostanzialmente, sia rimasto invariato il quadro sui fondi chiusi che, a novembre, hanno raccolto 640 milioni di euro, portando il dato complessivo di raccolta delle gestioni collettive a +870 milioni di euro, per un patrimonio di 1.180 miliardi, pari al 52,2% delle masse. Sul fronte delle gestioni di portafoglio, i mandati istituzionali hanno visto una raccolta negativa pari a 1,58 miliardi di euro nel mese, mentre quelli retail hanno registrato afflussi netti per 987 milioni. Il patrimonio complessivo delle gestioni di portafoglio si attesta così a 1.080 miliardi di euro, equivalenti al 47,8% del totale.

  • Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi

    Bruxelles da molti anni è notoriamente sede di lobby di ogni genere e specie, nella capitale belga si intrecciano non solo affari ma anche le informazioni e le pressioni più disparate mentre molti, che si occupano di spionaggio regolare o non, proprio qui si incontrano e si scontrano, inoltre molte cellule del terrorismo più efferato hanno trovato base proprio a Bruxelles

    Per evitare infiltrazioni di interessi non chiari o comunque di parte il Parlamento europeo ha da anni regole e vincoli chiari che, fino ad ora, avevano funzionato.

    La recente vicenda dello scandalo della enorme quantità di denaro che sembra sia stato trovato nelle abitazioni di Kaili, vicepresidente del Parlamento europeo, e di Panzeri, già deputato europeo e fondatore della ong Fight Impunity, con indagini che vedono il coinvolgimento di altre persone legate al mondo delle ong e del Parlamento, gettano una luce inquietante sulla caduta di valori e sull’amore per il denaro che per alcuni prevale su tutto, impongono una diversa selezione del personale politico, ad ogni livello, ed un vero controllo sulle ong.

    Il marcio non è nelle istituzioni ma nelle persone ed in un sistema politico, in ogni paese, che in troppi casi sembra premiare gli esempi negativi anche per le ovvie conseguenze che derivano da una società, sempre più superficiale e priva dei fondamentali, basata sull’apparire e sull’interesse del singolo rispetto a quello del bene comune.

    Mentre attendiamo gli esiti finali dell’inchiesta la speranza è che questa triste e squallida vicenda porti tutti a vigilare con più attenzione ed insegni a chi vuole corrompere, e a chi aspetta solo di essere corrotto, che la verità e le colpe vengono, prima o poi, alla luce perché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

  • Basta con la politica dell’annuncio

    Comprensibile l’entusiasmo che alcuni ministri o esponenti di partito possono avere nell’annunciare questa o quella nuova norma che il governo intende varare, meno comprensibile che poi, puntualmente, la norma debba essere rivista e modificata a fronte di ragionamenti più approfonditi.

    La fretta non è mai una buona consigliera specie quando si tratta di argomenti delicati che riguardano tutti i cittadini, con riflessi in vari settori.

    Il limite del contante a 10.000 poi, giustamente, riproposto a 5,000, tema che avrebbe dovuto dividere il problema tra quanto si può prelevare dal proprio conto, senza incorrere in controlli che comunque suonano un po’ vessatori visto che ognuno dovrebbe essere padrone dei propri soldi, e quanto si può pagare in contanti.

    Alle considerazioni di chi teme che pagare in contanti porti ad un aumento del “nero” il governo dovrebbe rispondere dando, finalmente, nuove indicazioni in materia fiscale utili a contrastare tanta parte di evasione. Basterebbe consentire anche ai privati, come avviene per partite iva e imprese, di poter detrarre almeno l’iva di alcune spese quali quelle per idraulico, elettricista, imbianchino, o giardiniere.

    Anche i privati fanno girare l’economia dando lavoro e non si comprende per quale motivo debbano essere penalizzati: tasse le pagano già sul loro reddito e su tutto quello che acquistano, servizi compresi, per quale motivo devono ulteriormente pagare l’iva sulle spese di manutenzione della casa o del verde? Se ci fosse una norma che consentisse la detrazione dell’iva, per le voci sopra indicate, eviteremmo l’evasione in molti settori.

    Si è parlato di togliere l’obbligo del pos per cifre inferiori a 60 euro e già ci si corregge pensando di diminuire l’importo, un’altra inutile confusione che crea sconcerto ed incertezza nei singoli e in diverse categorie.

    Basta con la politica dell’annuncio che ci ha ammorbato per troppi anni, grazie a troppi governi, si passi, in questo che vorremmo fosse il nuovo corso della politica, a dare notizia di un nuovo provvedimento solo dopo che si sono valutate tutti i pro ed i contro, sempre ovviamente disponibili ad ascoltare il Parlamento per eventuali modifiche ma non correggendosi da soli in continuazione.

  • Pos: repetita iuvant

    La libertà di utilizzare una determinata forma di pagamento non si può definire tale e tantomeno democratica se il suo costo viene attribuito ad uno solo dei due soggetti interessati alla transazione. L’equa riparazione di vantaggi ed oneri rappresenta uno dei fattore qualificanti lo stesso sistema democratico.

    In più, risulta assolutamente ridicolo credere che tracciando i pagamenti anche al di sotto il limite dei 60 euro questo possa rappresentare una lotta all’evasione (*).

    Questa battaglia si delinea ancora una volta come puramente ideologica e finalizzata solo alla crescita dei fatturati del sistema bancario, il quale, andrebbe ancora una volta ricordato, già oggi viene determinato al 50% dal valore delle sole “commissioni” (**).

    La migliore versione della sudditanza culturale e politica si dimostra quando il cittadino si convince di lottare con l’obiettivo di mantenere o raggiungere una libertà democratica mentre invece si stanno solo acquistando le corde della propria schiavitù.

    (*) 10 gennaio 2019 https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-falso-alibi-dellevasione-fiscale/

    (**) 30 agosto 2021 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-metamorfosi-bancaria/

  • REACT-EU: altri 1,5 miliardi di euro per lavoratori, datori di lavoro e competenze in Italia

    L’Italia riceve altri 1,5 miliardi di € nell’ambito di REACT-EU per aumentare le assunzioni di giovani e di donne, migliorare le competenze dei lavoratori e delle persone in cerca di lavoro e sostenere la ripresa economica del paese. Tali fondi saranno messi a disposizione in aggiunta ai precedenti 4,5 miliardi di € erogati per un sostegno analogo nell’ambito del programma operativo nazionale “Sistemi di politiche attive per l’occupazione” finanziato dal Fondo sociale europeo (FSE), inizialmente proposto nel settembre 2021.

    Il nuovo finanziamento sosterrà:

    la creazione di posti di lavoro nelle regioni meridionali: 1,2 miliardi di € consentono di ridurre del 30% i contributi previdenziali a carico delle piccole imprese per i loro lavoratori nelle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. Per essere ammissibili, le imprese devono impiegare i lavoratori per almeno nove mesi dopo la presentazione della richiesta di riduzione;

    l’occupazione giovanile: 139,1 milioni di € sono destinati a ridurre i contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro che nel corso del 2022 assumono persone di età inferiore a 36 anni con contratti a tempo indeterminato, una misura di cui si prevede usufruiranno oltre 48.000 giovani;

    l’assunzione di donne: 88,5 milioni di € sono destinati a ridurre (entro il limite di 6.000 € l’anno) i contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro che nel corso del 2022 assumono donne, una misura di cui si prevede usufruiranno oltre 54.000 donne;

    la formazione nel campo delle competenze verdi e digitali: quasi 280.000 € provenienti dal “Fondo nuove competenze” compensano le ore durante le quali il personale partecipa a corsi di formazione per acquisire nuove competenze verdi e digitali, una misura di cui si prevede usufruiranno oltre 5.700 imprese.

    Con l’approvazione di questi altri 1,5 miliardi di € l’Italia riceverà in totale 14,4 miliardi di € nell’ambito di REACT-EU per stimolare la sua ripresa e incentivare gli investimenti nelle transizioni verde e digitale.

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