terre rare

  • Export di terre rare cinesi quasi dimezzato in un anno

    Il valore delle esportazioni cinesi di terre rare ha registrato a maggio un brusco calo su base annua. Secondo i dati diffusi oggi dall’Amministrazione generale delle dogane, la Cina ha esportato lo scorso mese terre rare per un valore di circa 18,7 milioni di dollari, con un crollo del 48,3% rispetto a maggio 2024. Il calo rispetto ad aprile, quando le esportazioni ammontavano a 21,7 milioni di dollari, è stato del 13,7%. I dati comprendono tutte le tipologie di terre rare, non solo quelle soggette alle recenti restrizioni decise da Pechino. In termini di volume, a maggio sono state spedite all’estero 5.864,6 tonnellate di terre rare, segnando una flessione del 5,67 per cento su base annua e interrompendo tre mesi consecutivi di crescita. Tuttavia, nel periodo gennaio-maggio l’export totale ha raggiunto le 24.827 tonnellate, in aumento del 2,3% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Le terre rare sono componenti fondamentali per numerose tecnologie avanzate, dai telefoni cellulari ai caccia militari. Secondo le stime degli analisti, gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per circa il 70% delle importazioni di questi materiali, il che pone a rischio l’intera catena di fornitura statunitense.

    Nonostante la dichiarazione congiunta firmata a Ginevra lo scorso mese, in cui Pechino e Washington si sono impegnate a sospendere o rimuovere le misure non tariffarie introdotte dal 2 aprile, il governo cinese ha mantenuto in vigore le restrizioni all’export di terre rare medie e pesanti, annunciate il 4 aprile. Parallelamente, le autorità locali delle province ricche di questi minerali hanno intensificato a maggio la repressione contro l’estrazione illegale. Sabato scorso, il ministero del Commercio di Pechino ha dichiarato di aver approvato le domande di esportazione presentate da aziende qualificate, segnalando la disponibilità a comunicare con i Paesi interessati per “facilitare il commercio conforme”, e quindi una possibile apertura al dialogo sul tema delle terre rare.

  • La Cina si trincera dietro le terre rare per resistere a chi la sfida

    Quando ad aprile il presidente statunitense Donald Trump ha preso di mira la Cina con dazi altissimi, gli Stati Uniti hanno registrato un calo delle importazioni, divenute più costose e la Cina si è ritrovata con fabbriche inattive e carenza di dollari. La Cina, tuttavia, ha un asso nella manica: il monopolio su una serie di terre rare, minerali fondamentali per le principali industrie americane, tra cui quelle del settore della difesa, che ha bisogno di questi materiali per produrre caccia all’avanguardia come l’F-35.

    Nell’attuale guerra commerciale, la Cina ha vietato del tutto l’esportazione di terre rare, ma ha introdotto un regime di licenze che sta già provocando interruzioni nella catena di approvvigionamento. Normalmente, le aziende statunitensi si rivolgerebbero a fornitori di altri Paesi, ma l’attuale sistema di produzione delle terre rare è quasi interamente concentrato in Cina, responsabile di oltre il 90% di questi minerali chiave.

    Secondo un recente rapporto del Center for Strategic and International Studies, il Dipartimento della Difesa americano si è mosso per costruire una catena di approvvigionamento nazionale di terre rare – anche attraverso la concessione di sovvenzioni ad aziende in California e Texas – ma questi impianti devono ancora diventare pienamente operativi. Nel frattempo, anche Paesi come il Giappone e l’Australia stanno cercando di espandere la produzione di terre rare ma, per ora, non sono neanche lontanamente in grado di compensare il monopolio di fatto della Cina. “Lo sviluppo di capacità estrattive e di lavorazione richiede uno sforzo a lungo termine, il che significa che gli Stati Uniti saranno in svantaggio nel prossimo futuro”, si legge nel rapporto del CSIS.

    Il problema peraltro non riguarda soltanto la difesa e preoccupa anche l’Europa. Molti esportatori in tutto il mondo hanno già previsto ritardi a causa dei nuovi requisiti di esportazione introdotti dalla Cina e Tesla è stata una delle prime aziende ad aver dichiarato pubblicamente l’impatto dei divieti di esportazione della Cina sui suoi piani e sulla sua produzione.

  • Dietro lo scontro tra Congo e Rwanda la competizione tra superpotenze per le risorse minerarie

    L’escalation dei combattimenti tra le Forze armate congolesi (Fardc) e i ribelli del Movimento 23 marzo (M23) nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), e in particolare nella provincia del Nord Kivu, ha riacceso il mai sopito conflitto regionale che affonda le sue radici nel genocidio del Ruanda del 1994, ma che trae origine dalla lotta per il controllo e lo sfruttamento delle risorse minerarie di cui la regione è ricca, a cominciare dal cobalto. I ribelli M23, sostenuti dal Ruanda, hanno infatti rivendicato il controllo della città strategica di Goma, capoluogo del Nord Kivu, fulcro di una regione che contiene migliaia di miliardi di dollari di ricchezze minerarie ancora in gran parte inutilizzate. Il gruppo – che è una delle oltre 100 fazioni armate che lottano per un punto d’appoggio nel Congo orientale – è composto principalmente da combattenti di etnia tutsi che non sono riusciti a integrarsi nell’esercito congolese, e che già nel 2012 guidarono un’insurrezione fallita contro il governo di Kinshasa, per poi restare dormienti per un decennio, fino alla ripresa delle attività ostili a Kinshasa nel 2022.

    Tra il 1996 e il 2003 la regione è stata al centro di un conflitto prolungato soprannominato “la guerra mondiale dell’Africa”, che causò la morte di circa 6 milioni di persone, mentre gruppi armati combattevano per l’accesso a metalli e minerali di terre rare come rame, cobalto, litio e oro. In un mondo che fa sempre più affidamento sui metalli e sui minerali rari, per via della crescente importanza che questi rivestono nella rivoluzione tecnologica e nella transizione “verde”, la posta in gioco è ora aumentata, così come gli interessi dei vicini Ruanda e Uganda, ma anche delle grandi potenze come Stati Uniti e Cina.

    Secondo il dipartimento del Commercio Usa, la Rdc è il principale produttore mondiale di cobalto (si stima che fornisca circa il 70% della produzione mondiale), un elemento essenziale per la produzione di batterie dei veicoli elettrici. Ciò nonostante, la maggior parte delle risorse minerarie del Paese – il cui valore è stimato in 24mila miliardi di dollari – resta inutilizzata. Inoltre, soltanto una minima parte della ricchezza prodotta dallo sfruttamento dei minerali è finora stata convogliata alla popolazione congolese, di cui il 60% vive al di sotto della soglia di povertà.

    La Rdc è il più grande produttore di cobalto al mondo con una produzione che si è attestata a 130mila tonnellate nel 2022, ovvero quasi il 70 per cento del cobalto prodotto a livello mondiale. Il Paese è anche il quarto produttore di diamanti industriali, con una produzione di 4,3 milioni di carati, mentre non dispone attualmente di miniere di litio attive, anche se sono in fase di sviluppo diversi progetti, tra cui quello relativo allo sfruttamento della miniera di Manono-Kitolo, che in passato produceva stagno e coltan fino alla sua chiusura, avvenuta alla fine del 1982. Il Congo vanta alcune delle riserve di rame di qualità più elevata al mondo, con alcune miniere che si stima contengano gradi superiori al 3 per cento, significativamente più alti della media globale, pari allo 0,6-0,8 per cento. Anche il settore dell’oro della Rdc sta assistendo a un rinnovato interesse da parte delle società minerarie, e nel 2021 la produzione di risorse minerarie è aumentata da 10 mila a quasi un milione di tonnellate.

    È in questo contesto che va inquadrato il conflitto in atto nel Nord Kivu, che ha conosciuto una significativa recrudescenza nelle ultime settimane con l’arrivo a Goma dei ribelli M23, sostenuti militarmente e finanziariamente dal Ruanda. L’offensiva dell’M23 sembra seguire una logica chiara, vale a dire il controllo sulle risorse naturali della regione: oro, cassiterite, coltan, cobalto e diamanti. Dopo aver inizialmente conquistato vaste aree delle regioni di Rutshuru e Masisi, i ribelli si stanno ora spostando verso l’area di Walikale, nota per la sua significativa produzione di coltan, un minerale strategicamente importante per la transizione energetica. Per queste ragioni, la crisi interessa da vicino le due grandi superpotenze globali, gli Stati Uniti e la Cina, e s’intreccia con il grande progetto infrastrutturale noto come Corridoio di Lobito, il maxi progetto ferroviario lungo 1.300 chilometri – finanziato dagli Stati Uniti e dall’Unione europea – che mira a collegare i bacini minerari della Rdc allo Zambia e al porto angolano di Lobito, sull’Oceano Atlantico. Un progetto che, nelle intenzioni di Washington, punta ad essere la risposta alla Nuova via della seta cinese (Belt and road initiative, Bri).

    In questo contesto, appare significativo il fatto che di recente Molly Phee, ex assistente del segretario di Stato per gli Affari africani sotto l’amministrazione Biden, abbia affermato che gli Usa avrebbero proposto – senza successo – di coinvolgere anche il Ruanda nello sviluppo della maxi infrastruttura ferroviaria, in cambio del ritiro del proprio sostegno ai ribelli M23. “Avevamo proposto a entrambe le parti (Ruanda e Congo) che, se fossimo riusciti a stabilizzare la Rdc orientale, avremmo potuto lavorare allo sviluppo di una diramazione dal Corridoio di Lobito attraverso la Rdc orientale. (I ruandesi) non hanno permesso quell’azione”, ha detto Phee in un’intervista rilasciata ai media internazionali prima della fine del suo mandato. “Abbiamo cercato di offrire incentivi positivi. Esiste un quadro autentico, fondamentalmente negoziato dalle parti, e al momento il Ruanda sembra essersi tirato indietro”, ha aggiunto. Secondo la diplomatica statunitense, l’offerta includeva anche una stretta sulle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), il gruppo ribelle hutu ruandese attivo nel Congo orientale dal genocidio del 1994, ritenuto fuorilegge dal governo di Kigali. Al contrario, nel settembre scorso il governo ruandese ha preferito siglare un importante accordo che prevede la costruzione di una ferrovia a scartamento standard che collegherà il porto di Isaka, in Tanzania, alla capitale ruandese, Kigali.

    Le abbondanti risorse naturali presenti nel sottosuolo congolese hanno finito per globalizzare il conflitto nella Rdc orientale. Mentre un tempo le aziende statunitensi possedevano vaste miniere di cobalto in Congo, negli ultimi anni la maggior parte di esse è stata venduta a società cinesi, tanto che il “South China Morning Post” descrive il Paese come “l’epicentro degli investimenti cinesi in Africa”. L’ascesa della Cina nell’industria estrattiva del cobalto della Rdc è stata causata dalla significativa diminuzione degli investimenti statunitensi. Nel 2016, ad esempio, la società mineraria dell’Arizona Freeport-McMoRan ha venduto Tenke Fungurume – un sito di estrazione di rame e cobalto – alla China Molybdenum Company. Nel 2020, inoltre, la Freeport-McMoRanha effettuato un’altra vendita di un sito di rame e cobalto non sviluppato alla China Molybdenum Company. In entrambi i casi, le uniche aziende con offerte competitive erano aziende cinesi. Le principali imprese di Pechino che operano nel Paese includono Chengtun Mining, China Molybdenum, China Nonferrous e Huayou Cobalt. Secondo l’Istituto di studi strategici (Ssi) dello Us Army War College, le imprese statali e le banche cinesi controllano l’80 per cento della produzione totale di cobalto congolese, e delle dieci miniere più grandi al mondo, nove si trovano nella regione del Katanga, nel sud della Rdc: di queste, la metà è di proprietà di aziende cinesi. Anche nella raffinazione del cobalto la posizione delle imprese statali cinesi è dominante: le loro raffinerie rappresentano tra il 60% e il 90% della fornitura globale. Inoltre, il 67,5% del cobalto raffinato della Cina proviene dalla Rdc.

    Secondo il Council on Foreign Relations (Cfr), think tank statunitense specializzato in politica estera e affari internazionali, le società collegate alla Cina controllano tuttora la maggior parte delle miniere di cobalto, uranio e rame di proprietà straniera nella Rdc e l’esercito congolese è stato ripetutamente schierato nei siti minerari nell’est del Paese per proteggere le aziende cinesi. La Cina è inoltre pienamente coinvolta nel conflitto interno nell’est della Rdc e nella sua economia: il governo congolese sta infatti combattendo i ribelli M23 con l’aiuto di droni e armi cinesi, e la vicina Uganda – schierata al fianco del governo di Kinshasa – ha acquistato armi cinesi per svolgere operazioni militari all’interno dei confini congolesi. Gli accordi che Pechino ha negoziato con la leadership congolese, in particolare durante la presidenza di Joseph Kabila, hanno aiutato le aziende cinesi a garantire un accesso senza precedenti ai metalli che consentono loro di produrre in serie elettronica e tecnologie per l’energia pulita.

    Il predominio della Cina nella filiera del cobalto è il risultato degli investimenti di Pechino nelle miniere della Rdc e di quelli a lungo termine nelle infrastrutture di trasporto nei Paesi circostanti, come Tanzania e Zambia. È il caso dell’accordo siglato nel settembre scorso con i governi di Dodoma e Lusaka per ristrutturare e ammodernare la vecchia ferrovia Tanzania-Zambia (Tazara), lunga 1.860 chilometri e che collega la città zambiana di Kapiri Mposhi al porto tanzaniano di Dar es Salaam. Un’intesa che rientra pienamente nell’ambito dell’Iniziativa Nuova Via della seta cinese. La linea ferroviaria fu costruita tra il 1970 e il 1975 grazie a un prestito non oneroso della Cina, offrendo una rotta per il trasporto merci dalle miniere di rame e cobalto dello Zambia alla costa tanzaniana, aggirando così il Sudafrica e l’ex Rhodesia (l’attuale Zimbabwe). La ferrovia attualmente esporta cobalto e altri minerali dallo Zambia e, in futuro, potrebbe essere un modo importante per le aziende cinesi di estrarre cobalto dalla regione del Katanga meridionale, nella Rdc, e di trasportarlo fino a Dar es Salaam. Nel febbraio 2024 Pechino ha peraltro annunciato l’intenzione di spendere fino a un miliardo di dollari per modernizzare la ferrovia Tan-Zam, in cambio del suo controllo operativo, il che potrebbe aumentare esponenzialmente le esportazioni di minerali essenziali verso la Cina.

    Qualcosa, tuttavia, sembra essere cambiato con l’ascesa al potere a Kinshasa del presidente Felix Tshisekedi, subentrato a Kabila nel 2019. In quello stesso anno la Rdc ha stretto un accordo di cooperazione militare con gli Stati Uniti, che prevedeva tra le altre cose l’addestramento di ufficiali congolesi negli Usa. Nel 2023 il governo di Kinshasa ha inoltre chiesto e ottenuto la rinegoziazione di un accordo da 6 miliardi di dollari siglato nel 2008 con Pechino, ritenuto troppo svantaggioso per il Paese africano. L’anno dopo, nel 2024, gli Stati Uniti hanno sanzionato i ribelli dell’Alleanza del fiume Congo (Afc), della quale fa parte l’M23, accusati di voler rovesciare il governo di Kinshasa e di alimentare il conflitto nell’est del Paese africano. Un mese dopo, Tshisekedi ha apertamente accusato il suo predecessore, Kabila, di appoggiare i ribelli con l’obiettivo di “preparare un’insurrezione”.

    L’idea che proprio di un’insurrezione si tratti sembra essere confermata in questi giorni dal leader dell’Afc, Corneille Nangaa, che ha chiarito che l’offensiva non si fermerà a Goma e che l’obiettivo finale è Kinshasa. L’avanzata ribelle, insomma, sembra voler impedire a Tshisekedi un possibile riavvicinamento a Washington, con tutto ciò che ne consegue in termini di sfruttamento dell’immenso potenziale minerario del Paese. Il Ruanda, che di questo tentativo appare il manifesto regista, potrebbe invece aver trovato una importante sponda internazionale in Pechino. I due Paesi hanno di recente elevato le relazioni al rango di partenariato strategico lo scorso settembre e a dicembre, durante una visita a Doha, Kagame ha elogiato pubblicamente il ruolo della Cina in Africa. “È una relazione senza le tante condizioni poste da altri Paesi del mondo, da cui riceviamo tanto in termini di lezioni e poco in termini di valore”, ha detto

  • Apple accusata di usare minerali provenienti da zone di conflitto

    La Repubblica Democratica del Congo ha denunciato le filiali del colosso tecnologico Apple in Francia e Belgio accusandole di usare minerali in zone di conflitto. Agendo per conto del governo congolese, gli avvocati hanno sostenuto che Apple è complice di crimini commessi da gruppi armati che controllano alcune delle miniere nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. La società statunitense ha affermato di “contestare fermamente” le affermazioni e di essere “profondamente impegnata nell’approvvigionamento responsabile” di minerali.

    Le autorità in Francia e Belgio esamineranno se ci sono prove sufficienti per proseguire con l’azione legale.

    In una dichiarazione, gli avvocati della Repubblica Democratica del Congo hanno parlato della contaminazione della filiera di Apple con “minerali del sangue”. Affermano che lo stagno, il tantalio e il tungsteno vengono prelevati da aree di conflitto e poi “riciclati attraverso filiere di fornitura internazionali, sottolineando che queste attività hanno alimentato un ciclo di violenza e conflitti finanziando milizie e gruppi terroristici e hanno contribuito al lavoro minorile forzato e alla devastazione ambientale. Apple ha respinto le accuse affermando di mantenere i suoi “fornitori ai massimi standard del settore”.

    L’est della Repubblica Democratica del Congo è una delle principali fonti di minerali e la sete globale di questi minerali ha alimentato guerre per decenni.

    I gruppi per i diritti umani hanno a lungo affermato che grandi quantità di minerali provenienti da miniere legittime, così come da strutture gestite da gruppi armati, vengono trasportate nel vicino Ruanda e finiscono nei nostri telefoni e computer.

    In passato, il Ruanda ha descritto l’azione legale del governo congolese contro Apple come una trovata mediatica, negando di aver venduto minerali di aree di conflitto alla società tecnologica.

  • Terre rare possibile trappola di Tucidide tra Pechino e Washington

    Le terre rare si sono trasformate in una fonte di tensione tra Usa e Cina, poiché entrambi i Paesi cercano di assicurarsi una posizione di vantaggio nel loro sfruttamento, sempre più rilevante a fronte di una crescente domanda globale di tecnologie ad alta efficienza energetica, come veicoli elettrici, pannelli solari e batterie al litio.

    Attualmente, le riserve note di minerali rari sono concentrate principalmente in poche regioni, tra cui la Cina. Secondo il Geological Survey degli Stati Uniti, la Cina detiene circa il 70% delle riserve mondiali di questi minerali. La Cina, che ha un’industria manifatturiera dominante nel settore delle tecnologie avanzate, ha accumulato una considerevole quantità di queste riserve, dando loro una posizione di forza nel mercato globale dei materiali critici. Tuttavia, l’America ha recentemente scoperto una vasti giacimenti all’interno dei suoi confini. Questa scoperta ha suscitato grande eccitazione negli Stati Uniti, poiché offre l’opportunità di ridurre la dipendenza dalle importazioni cinesi e garantire un maggiore controllo sulla catena di approvvigionamento di materiali critici.

    La contesa tra Cina e America riguardo al controllo di queste riserve strategiche ha creato un clima di tensione internazionale. Entrambi i paesi sono determinati a garantirsi un vantaggio competitivo nel settore tecnologico del futuro. La Cina, che è attualmente il principale produttore mondiale di tecnologie ad alta efficienza energetica, desidera mantenere il suo dominio sulla produzione di dispositivi elettronici avanzati. Il governo cinese ha adottato politiche volte a promuovere l’industria delle energie rinnovabili e a consolidare la sua posizione di leader nel settore, sfruttando al massimo le riserve di cui dispone.

    D’altro canto, gli Stati Uniti cercano di rafforzare la propria base manifatturiera e ridurre la dipendenza dalle forniture cinesi. La scoperta delle riserve interne ha spinto il governo americano a promuovere politiche di sicurezza nazionale e strategie di diversificazione delle fonti di approvvigionamento. Gli Stati Uniti intendono investire nella produzione e nella raffinazione dei questi minerali rari sul proprio territorio, al fine di ridurre la vulnerabilità alle interruzioni delle forniture estere e garantire una maggiore autosufficienza nel settore delle tecnologie avanzate.

    La competizione per il controllo va oltre la mera questione economica. Le implicazioni geopolitiche sono significative, poiché questi minerali potrebbero diventare un fattore chiave nella definizione delle dinamiche di potere globale. Chiunque detenga il controllo delle riserve dei minerali rari avrà un’importante leva negoziale nel settore delle tecnologie avanzate, potendo influenzare il prezzo e l’accesso a questi materiali critici.

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