Pil

  • Dal boom economico ai motorini elettrici

    Il 20 settembre 2021 un sicuro e raggiante ministro Brunetta dichiarò “…momento magico per l’Italia, viaggiamo verso il 7% di aumento del Pil…”. Un valore percentuale positivo certamente ma di per sé abbastanza relativo in quanto basato sui valori del 2020, un anno durante il quale il nostro Pil aveva segnato un oltre -9,3%, quindi quasi il doppio rispetto alla Germania.

    E’ evidente come da una base statistica di questo livello gli incrementi percentuali, pur assumendo un indice numerico importante, considerati in valore assoluto si dimostrino decisamente meno entusiasmanti.

    Precedentemente il governo aveva stanziato poco meno di quattro (4) miliardi con l’obiettivo di attenuare l’impatto della crescita dei costi energetici a favore dei nuclei familiari meno abbienti a dimostrazione di come fosse perfettamente a conoscenza delle dinamiche delle quotazioni energetiche e quindi degli effetti impattanti a danno del sistema industriale. Al quale tuttavia non destinò alcuna risorsa né nei capitolati della spesa pubblica né tanto meno delle risorse provenienti dal PNRR.

    A gennaio 2022, cioè a meno di quattro (4) mesi, il sogno di Brunetta si infrange clamorosamente contro la dura realtà nella quale da un boom economico si passa direttamente alla chiusura delle aziende a causa dell’esplosione dei costi energetici. Una situazione ampiamente anticipata dai rappresentanti delle diverse categorie delle imprese mentre contemporaneamente governo e sindacati (per i quali la tutela dei lavoratori non sembra più essere “la priorità”) si occupavano, fino a poco prima di Natale, delle pensioni nel più assoluto disinteresse per le richieste provenienti dall’economia reale e relative alle problematiche energetiche. E nel nostro Paese contemporaneamente si allestiva il “banchetto di spesa” finanziato con il PNRR per soddisfare anche gli appetiti di enti locali (60 mld) e finalizzato sostanzialmente a finanziare piste ciclabili con la piena soddisfazione del governatore del Veneto sorvolando su come al porto di Venezia (vero asset in grado di creare occupazione ed incremento del Pil) non venisse attribuita alcuna risorsa.

    Si “investe” in adeguamenti energetici di teatri e cinema mentre si continuava a blaterare di transizione ecologica ed ambientale r contemporaneamente va ricordato come il costo del gas sia aumentato del 723% con un impatto devastante per il sistema industriale italiano e delle Pmi italiano.

    Mentre per le nuove e per ora solo annunciate riaperture delle estrazioni di gas nel mare Adriatico bloccate dal governo Conte (costo del mq di gas italiano estratto 5 euro contro i 175 attuali del mercato energetico) si attende ancora il via, a tutto beneficio della Croazia che non ha mai smesso di estrarlo.

    In questo delirio di spesa pubblica finanziata con il PNRR il sistema industriale si trova di fronte all’impossibilità di evadere gli ordini acquisiti, segno di una timida ripresa, in quanto con l’esplosione dei costi energetici vengono meno anche le semplici economie in scala sulle quali si basa la produzione industriale e, di  conseguenza, le imprese ricorrono alla cassa integrazione oppure si vedono costrette ad una, si spera, solo temporanea chiusura.

    Con questo disastroso scenario che coinvolge tanto le grandi quanto le micro imprese (a Belluno alcuni bar staccano i frigoriferi per abbassare il consumo di energia elettrica) il governo, ancora una volta con un pesantissimo ritardo, dichiara di avere trovato poco più di un miliardo (1,7 mld) per ridurre l’impatto dell’impennata dei costi. Risorse finanziarie le quali, complessivamente con i precedenti stanziamenti, copriranno meno del 6% dei rincari totali.

    Viceversa in Francia il governo ha approvato una legge il cui impianto normativo si concentra sul divieto dell’aumento delle bollette oltre il 4% con l’inevitabile tracollo in borsa di -25% di Edf (la società di produzione energetica) alla quale viene addebitato il costo aggiuntivo di oltre otto (8) miliardi.

    Questa scelta controversa, tuttavia, è espressione di una strategia, certamente non esente da costi aggiuntivi per lo Stato di circa venti (20) miliardi, la quale però va interpretata come un atto estremo finalizzato a salvaguardare il tessuto industriale ed imprenditoriale nazionale.

    Nel medesimo periodo e precisamente il 13 gennaio 2022 il governo Draghi risponde in questo sempre più problematico contesto internazionale con il finanziamento del bonus per i motorini elettrici in perfetta continuità con i bonus monopattini dei disastrosi governi Conte, ad ulteriore conferma attraverso questi atti precisi e puntuali della “consapevolezza e presa in carico” della situazione economica in atto dei rappresentanti governativi.

    Il livello di Improvvisazione ed impreparazione dimostrati da questo governo “dei migliori” e dai suoi ministri economici sono inaccettabili ma soprattutto deleteri nella gestione dell’emergenza sanitaria ed economica del nostro Paese determinata anche dalle dinamiche dei costi energetici.

    Senza poi dimenticare l’assoluta latitanza confermata dal totale disinteresse verso la spirale inflazionistica che ridurrà il già esiguo potere di acquisto delle fasce più deboli della cittadinanza partendo dalla certezza della transitorietà dello stesso fenomeno inflattivo (non certo dell’impatto si dovrebbe aggiungere).

    Come nella esilarante affermazione ministeriale di un boom economico nel 2021 per il nostro Paese così ora a soli quattro mesi di distanza, nel 2022, per la problematica inflattiva la presunzione dimostrata dal governo Draghi si sposa alla assoluta incapacità gestionale di problematiche complesse riguardanti i cittadini ed ovviamente il sistema delle imprese.

  • La sorgente inflattiva

    La politica monetaria espansiva nell’Unione Europea è cominciata nel 2015 con la Presidenza della BCE di Mario Draghi ed il governo Renzi ed ha avuto il merito di abbassare quasi a zero i tassi di interesse e, di conseguenza, i costi del servizio al debito con punte di rendite negative per i Bund tedeschi.

    Il nostro Paese, come sempre governato con una visione prospettica al massimo di quindici (15) giorni, invece di ridurre la massa debitoria grazie al risparmio di oltre 30 miliardi l’anno di interessi ha sempre aumentato la spesa pubblica fino alla pandemia alla quale si è presentato con il 135% di rapporto debito sul Pil pari a 2.409 miliardi e già alla fine del primo anno di pandemia segnava un aumento di oltre 160 miliardi.

    Quello che risulta interessante, tuttavia, è come la politica monetaria espansiva delle autorità monetarie europee e di quelle oltre oceano, pur ideata con la funzione di fornire strumenti finanziari per una ripresa di fronte alla stagnazione complessiva della economia europea e statunitense, di fatto non abbia prodotto alcun effetto collaterale (inflazione). L’effetto complessivo assolutamente marginale di questa strategia monetaria, infatti, veniva non solo confermato dal perdurare della stagnazione economica e contemporaneamente dei consumi quanto confermata da tassi di inflazione sempre vicini, se non addirittura inferiori al punto percentuale. In più il consumo complessivo, come espressione della stessa stagnazione e della sua aspettativa, ha determinato acquisti di beni a minore valore aggiunto anche per la presenza sempre più massiccia di presenza di prodotti provenienti dall’estremo Oriente, espressione delle delocalizzazioni.

    La mancanza di un tasso di inflazione perlomeno prossima al 2% preoccupava le varie classi politiche, ed in particolare quella italiana, le quali vedevano ogni aumento della spesa pubblica (trend assolutamente inarrestabile) riverberarsi in un sensibile peggioramento del rapporto debito Pil (quindi di difficile giustificazione) il quale nel caso, invece, di un tasso di inflazione vicino o superiore al 2% avrebbe raggiunto un equilibrio migliore.

    Il mercato globale, quindi, ha dimostrato sostanzialmente come una politica monetaria espansiva abbia determinato degli esiti quantomeno marginali e contemporaneamente con effetti quasi nulli rispetto alle dinamiche di un mercato complesso la cui globalità determina inevitabilmente la perdita di potere ed efficacia dei vecchi strumenti di indirizzo come le politiche monetarie.

    Viceversa la spesa pubblica (vera ed unica costante in questo mondo in continua evoluzione) ha conosciuto un ulteriore incremento, quasi le risorse disponibili a bassi interessi NON venissero più considerate come un debito.

    Successivamente la terribile pandemia ha bloccato e stravolto l’economia mondiale, dando inizio ad un’altra ed ancora più impegnativa elaborazione di una nuova strategia di politica economica di contrasto al disastroso trend economico. In questo frangente, tuttavia, le economie occidentali si trovano di fronte ad un’impennata dei costi di beni intermedi e strumentali e della gestione delle filiere o supply chain la cui somma finale inevitabilmente si riverbera sulla crescita dei prezzi finali al consumatore. Nel mondo delle imprese, addirittura, questa spirale inflattiva sta portando alla chiusura di attività imprenditoriali (vetrerie Murano-Venezia) o alla sospensione della produzione per mancanza di margine in rapporto alle esplosione dei costi dell’energia la quale comunque, in Italia, prima della pandemia risultava già superiore del 30% alla media europea.

    Sicuramente l’avvio anticipato dell’economia cinese, molto anticipata rispetto a quelle degli altri paesi, ha determinato una sostanziale scarsità di materie prime con un conseguente aumento complessivo dei prezzi. Ora risulta fondamentale, come risposta, la questione relativa alle strategie politiche, economiche e monetarie da adottare in relazione a questa impennata dei costi che minaccia intere filiere industriali ed il crollo dei consumi.

    Gli Stati Uniti hanno avviato una politica di tapering lasciando sostanzialmente invariati i tassi di interesse con una crescita sostanziale invariata mentre nell’Unione Europea si comincia a parlare di una stretta monetaria finalizzata al contrasto dell’inflazione.

    Dopo quasi due anni ormai di disastrosa crisi economica legata alla pandemia e con questa inaspettata spirale inflazionistica si dovrebbe partire considerando gli scarsi se non nulli effetti del periodo precedente della politica monetaria sia sotto il profilo del rilancio economico quanto di un riavvio dell’inflazione per scongiurare la allora tanto temuta deflazione.

    Nel caso opposto, cioè in previsione dell’adozione di una politica monetaria restrittiva, le conseguenze potrebbero addirittura rivelarsi disastrose per gli effetti sull’economia reale in quanto ridurrebbe, come sempre e per l’ennesima volta, il potere di acquisto (soprattutto per le fasce meno abbienti) e darebbe l’illusione alla classe politica di “avere ridotto” il debito pubblico quando a beneficiarne sarebbe solo il rapporto tra valori nominali (debito/Pil) amplificati dall’effetto inflattivo.

    Mai come ora l’unica soluzione, compatibilmente con le varie realtà finanziarie dei singoli paesi ma inseriti in un mercato globale e con filiere sotto stress, dovrebbe essere quella di un “ammorbidimento fiscale” successivo ad una rimodulazione della spesa pubblica finalizzata a recuperare gli oltre 200 miliardi di sprechi certificati dalla Cgia di Mestre. Solo per offrire un esempio, se si volesse veramente mantenere inalterato il potere di acquisto delle fasce più deboli della popolazione si diminuirebbero le accise sui carburanti, specialmente quelle sul gasolio, in considerazione del fatto che oltre l’82% delle merci viaggia su gomma.

    Il solo modo, ormai, per ridare ossigeno all’economia è quello di riconsegnare un maggiore potere d’acquisto alle domande interne del continente europeo attraverso una diminuzione delle pressioni fiscali in seguito anche alla diminuzione delle spese correnti e contemporaneamente offrire uno scenario di certezza normativa fiscale ed economica. Invece, specialmente in Italia, si continua con le politiche dei bonus che privilegiano una categoria in nome di un’uguaglianza sempre più lontana ed espressione di arbitrarie attenzioni e quindi da un approccio politico nazionale sostanzialmente divisivo.

    Questa “ricerca” della uguaglianza, attraverso il perverso strumento della spesa pubblica, risulta invece talmente ideologica da ottenere negli ultimi trent’anni la diminuzione del reddito disponibile del -3,7% mentre nel medesimo periodo è cresciuta del +34,7% nella vicina Germania.

    La consueta richiesta di una stretta monetaria a fronte di una spirale inflazionistica della quale non si considera la sorgente dimostra come, ancora oggi, non sia compresa l’assoluta inconcludenza della politica monetaria in quanto il mercato globale ha cambiato le potenze di fuoco delle diverse teorie economiche in particolare della politiche monetarie. Ora più che mai, di fronte al pericolo di una politica monetaria restrittiva come azione deflattiva, sarebbe vitale comprendere come l’unico effetto si confermerà quello di penalizzare ancora una volta le fasce più deboli della popolazione lasciando inalterata la scellerata politica di espansione della spesa pubblica finanziata da un continuo aumento delle pressione fiscale.

    Si parla di globalizzazione senza ancora avere compreso le dinamiche complesse delle politiche economiche e soprattutto come la globalizzazione abbia disarmato le politiche monetarie all’interno di un sistema alla continua ricerca di un equilibrio il quale, per le complesse ed infinite variabili della globalità, non potrà mai venire raggiunto.

  • Parte la revisione del Patto di stabilità: gli investimenti green in cima alle priorità della Ue

    Regole più semplici, più coinvolgenti rispetto agli Stati membri, più flessibili sugli investimenti green. Comincia su questo binario la consultazione sulla possibile revisione di uno dei capisaldi più divisivi dell’Unione Europea, il Patto di Stabilità e Crescita. Il 19 ottobre, dopo il collegio dei commissari, il vicepresidente della commissione Ue Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari

    Economici Paolo Gentiloni hanno dato il via alla consultazione pubblica, partendo da un documento, di 14 pagine, sull’impatto della crisi Covid sulle economie europee. Un documento che vuole essere la base per discutere su una migliore applicazione delle regole fiscali. La consultazione pubblica, secondo lo schema della Commissione, dovrebbe chiudersi con la fine dell’anno. E, nella primavera del 2022 l’esecutivo europeo punta a mettere in campo una sua proposta.

    L’obiettivo di una modifica dei Trattati, osservano fonti europee a Bruxelles, è poco meno di un’utopia. La revisione potrebbe portare a modifiche regolamentari – che è l’obiettivo più ambizioso e difficile – o ad una diversa interpretazione delle regole oggi in vigore. Il percorso, come prevedibile, è irto di ostacoli già solo nel timing dell’iniziativa. Dal gennaio 2023 il Patto di Stabilità (con i suoi canonici paletti del tetto per il deficit pari al 3% del Pil e di quello dell’iter per arrivare ad un debito pari al 60%) tornerà in vigore e l’obiettivo dei cosiddetti Paesi frugali, messo nero su bianco in un ‘position paper’ dell’inizio di settembre, è quello di tergiversare il più possibile nel superamento delle regole attuali.

    Molto dipenderà anche dal futuro esecutivo tedesco e da chi, a Berlino, rivestirà il ruolo di ministro delle Finanze. Anche se il candidato alla cancelleria Spd, Olaf Scholz, pur sottolineando come l’attuale Patto sia già flessibile ha spiegato che, questo, “non è il momento dell’austerità”.

    Una certa flessibilità l’esecutivo europeo la vorrebbe innanzitutto sugli investimenti green, scorporandoli dal computo del deficit e del debito con quella che, a Bruxelles, già chiamano “golden rule”. Poi c’è il tema del rientro del debito. Il ritorno al limite del 60%, a causa degli effetti della crisi pandemica, per molti Paesi è pressoché irraggiungibile, soprattutto se si vuole evitare di strangolare la ripresa economica con interventi da lacrime e sangue.

    La media del debito dei Paesi dell’eurozona ruota attorno al 100% del Pil. L’obiettivo della consultazione pubblica è quindi trovare un percorso che porti ad una riduzione graduale, ma effettiva del debito. Anche perché, come si evincerà dal documento della Commissione, la crisi del Covid ha portato alla luce la necessità e l’opportunità di più investimenti, pubblici e privati.

  • Chi paga l’inflazione

    Alla fine l’inflazione esogena* è arrivata con grande e malcelata soddisfazione da parte della classe politica e dirigente italiana. Di per se l’inflazione può divenire un indicatore di situazioni diverse tra loro. Un valore, infatti, attorno al +2-3% può esprimere un paese in crescita economia, quindi sintesi contemporanea di aumenti del Pil e dei consumi, e rappresenta un valore positivo certificando una crescita complessiva, non solo legata all’export.

    La medesima crescita del +2-3% di inflazione, ma in questo caso importazione, quindi legata l’andamento dei prezzi delle materie prime, dovrebbe indurre il governo in carica a tamponarne gli effetti attraverso un reale alleggerimento fiscale sia per l’utenza privata che per le imprese con l’obiettivo di evitare di deprimere consumi e crescita economica.

    L’aumento, Infatti, del solo valore nominale dei prodotti manifatturieri (come sintesi finale dell’impennata dei prezzi delle materie prime e di quelle energetiche a monte della filiera) e dei servizi migliora nel breve termine il rapporto con il debito pubblico. Non va in dimenticato, infatti, come il debito pubblico, indipendentemente dal contesto, continui la propria esplosione avendo raggiunto quota 2.727 miliardi di euro anche per effetto dei primi finanziamenti europei legati all’attuazione del PNRR. La previsione legata agli effetti dell’aumento dell’inflazione risulta quindi quella di passare, nel rapporto tra debito pubblico e PIL, da un recente 160% al 158/155% nel breve periodo.

    Da parecchi giorni, a dimostrazione di quanto detto, si nota come una parte degli esponenti del governo, spalleggiato da servili quotidiani, parli impropriamente di una “discesa del debito pubblico”, quando invece è in discesa il solo rapporto con il Pil.

    Dopo stagioni di crescita zero dei prezzi fino alla soglia della deflazione, “finalmente” la tanto agognata inflazione permette allo storytelling governativo di “testimoniare” l’esito positivo delle strategie governative e il proprio entusiasmo vantando una “riduzione” del debito pubblico quando invece si ottiene la riduzione del rapporto del debito sul PIL, in buona parte legata all’avvio dell’inflazione (3%)**.

    Ovviamente questo incremento del tasso di inflazione verrà interamente pagato dai cittadini in quanto a margine di una minima riduzione dell’incremento delle bollette elettriche e del gas attraverso una manovra fiscale rimangono assolutamente escluse da questi benefici fiscali ovviamente le medie e grandi imprese e quindi viene drasticamente ridotta la loro competitività. Ed ovviamente non si pensa assolutamente di ridurre le accise sui carburanti (scelta invece operata dal governo tedesco).

    In questo contesto una manovra fiscale con la riduzione del carico fiscale sull’utenza rappresenterebbe l’unico modo per mantenere invariato il potere d’acquisto.

    L’inflazione, infatti, rappresenta la perdita di potere d’acquisto e, di conseguenza, la possibilità di avere un incremento dei consumi il quale unito ad una crescita del PIL rappresenta l’unica forma di crescita economica.

    Uno scenario ancora molto lontano da quello raccontato dal ministro Brunetta il quale inneggia ad un nuovo boom economico semplicemente legato ad un aumento della produzione industriale (+7%???) e comunque già in discesa a settembre (-0,5%) il cui valore comunque è espressione della splendida versione export-oriented della manifattura italiana ma non certo una crescita sostanziale e complessiva del Paese.

    Alla fine come sempre, ancora una volta, i costi del maggior debito (2.727) verranno scaricati, anche attraverso l’artificio contabile che l’inflazione permette, interamente sui cittadini italiani con una sostanziale riduzione del loro potere di acquisto.

    Francamente, invece di incontrare Greta Thunberg, sarebbe molto meglio preoccuparsi degli effetti devastanti sul reddito disponibile che l’inflazione al 3% determinerà.

    (*) malefica perché di importazione e non espressione di una crescita economia e dei consumi

    (**) un maquillage contabile agognato anche dal ministro Padoan e v.ministro Calenda da sempre favorevoli all’aumento dell’Iva nei governi Renzi e Gentiloni

  • Ancora Africa e Cina anche nel libro di Riccardi

    L’ultimo libro di Riccardi, Riccardi vivendo da anni a Shangai e viaggiando per il mondo ha ben presenti i vari aspetti del problema Africa-Cina, affronta la realtà, spesso ignorata più o meno volutamente, dei rapporti tra il continente africano e la mega potenza cinese, rapporti sui quali, in diverse occasioni, ci siamo soffermati sul Patto Sociale. Nel libro si evidenzia come il continente africano potrebbe arrivare, nel 2050, ad avere una popolazione di due miliardi e mezzo, con la Nigeria che potrebbe superare gli Stati Uniti per numero di abitanti, inoltre, dopo la pandemia, è prevista in Africa una notevole crescita del Pil, solo per la regione sub sahariana si parla di un incremento del 3,4% con una crescita record per il Kenya del 7,6.

    Oggi la Cina, che da molti anni investe in più comparti ed in modi diversificati in Africa, è la più grande economia del mondo per Pil a parità di potere d’acquisto ed è il primo paese nel commercio globale. I cinesi nell’ormai lontano 2003 avevano investito in Africa 75 milioni di dollari e nel 2019 sono arrivati ad investimenti per 2,7 miliardi di dollari! Per il continente africano la Cina è il primo partner commerciale visto che investe ogni anno diversi miliardi e che sono più di 10.000 le aziende cinesi che operano nei vari stati africani.

    Il resto del mondo si sappia regolare ma soprattutto l’Unione Europea, area nella quale è costante e sempre più numeroso l’arrivo di migranti e profughi dall’Africa mentre non decollano, in modo idoneo e sufficiente, le nostre politiche economiche, commerciali e sociali verso il continente africano.

  • Effetto Draghi? Il Fmi alza le stime del Pil dal 3% al 4,25%

    Il Fondo Monetario Internazionale vede rosa per la ripresa globale e si appresta a ritoccare al rialzo le sue stime di crescita per il 2021 e il 2022. In un mondo che corre più veloce, anche l’Italia: pil è atteso crescere quest’anno del 4,25%, decisamente di più del 3% previsto in gennaio.

    Pur sottolineando che la “tempistica e la forma della ripresa restano incerte”, l’istituto di Washington nota come dopo un avvio di anno debole l’economia italiana è attesa accelerare nell’ultima parte dell’anno. Il 4,25% previsto dal Fmi è leggermente superiore al 4,1% tendenziale che il governo potrebbe inserire nel Def. “La risposta alla pandemia è stata in via generale efficace ammortizzando l’impatto della crisi sanitaria sulla popolazione e l’economia”, osserva il Fmi notando, comunque, come alla fine dello scorso anno il Pil dell’Italia risultava circa il 6,5% al di sotto dei livelli della fine del 2019. “L’outlook per l’economia italiana è contingente all’andamento della pandemia e alle politiche di sostegno”, aggiunge il Fondo suggerendo di accompagnare la spesa per affrontare lo shock del Covid con un “piano credibile” di riduzione del debito una volta che la ripresa sarà decollata. E se gli stimoli sono necessari per ridurre le cicatrici sul mercato del lavoro, una spinta agli investimenti – aggiunge il Fmi – può aiutare l’Italia a recuperare il terreno perso in termini di produttività e accelerare una transizione verso un’economia più verde e giusta. Una spinta alla crescita potrebbe arrivare da un ammodernamento della pubblica amministrazione, dal ridurre le barriere alla concorrenza a da “un’ampia riforma” delle tasse.

    L’accelerazione italiana si inserisce in un quadro europeo che dovrebbe migliorare nella seconda parte dell’anno con una ripresa “solida” e in un contesto mondiale più veloce grazie al piano di stimoli da 1.900 miliardi di dollari voluto da Joe Biden e dai vaccini. Restano però “pericoli” e fra questi c’è l’elevata incertezza”, anche sul fronte della stabilità finanziaria. “Siamo a un nuovo punto di svolta – ammonisce il direttore generale Kristalina Georgieva -. Non possiamo abbassare la guardia”.

  • La stagflazione politica-amministrativa

    In passato si era già affrontato il problema del nostro Paese per le inevitabili ricadute economiche della gestione delle due forme massime di potere italiano rappresentate (1) dalla gestione della spesa pubblica e da quella del credito (2) nel lontano novembre 2018 (https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/).

    L’esercizio di questi due poteri, interamente in mano alla classe politica (1) che interagisce con i vertici degli Istituti bancari (2), come poteva risultare ampiamente prevedibile invece di partorire delle politiche che potessero supportare il sistema economico italiano si sono rivelati dei veri e propri strumenti di autofinanziamento elettorale e sostegno finanziario al sistema bancario, totalmente a danno del sistema Italia.

    Questa metastasi economico-istituzionale ha prodotto negli ultimi vent’anni degli effetti devastanti, ora amplificati dopo un anno di pandemia.

    Anche durante l’ultimo anno questa alleanza tra due poteri ha dimostrato i propri effetti: basti in questo senso ricordare come dei 150 miliardi di garanzie statali destinati alle imprese stanziati dal governo Conte 2 solo 39 miliardi di reali risorse effettivamente si siano rese disponibili in termini di garanzie statali per gli imprenditori. Una buona parte di queste garanzie statali di Cassa Depositi e Prestiti risultano, viceversa, trattenute all’interno del circuito bancario ed utilizzate per rientri dei fidi della clientela e conseguentemente riduzione dei rischi stessi per l’istituto bancario.

    In questa operazione il silenzio del governo relativo a tale distorsione rispetto alla funzione originale di queste garanzie risulta assolutamente complice.

    Sicuramente la devastante pandemia da covid-19 ha amplificato un disastroso trend iniziato proprio nel 2000.

    Va ricordato, infatti, come dall’inizio del terzo millennio ad oggi la spesa pubblica sia aumentata del 85% ma con effetti fortemente contraddittori. In questo senso, per cominciare, va ricordato come, dato 100 il 1999, il sistema privato abbia aumentato la propria produttività di 29 punti (129) mentre la pubblica amministrazione lo abbia ridotto di 12,5 (87,5). L’aumento della spesa pubblica quindi, pur rendendo disponibili maggiori risorse finanziarie (frutto della sintesi di maggior debito e maggiore pressione fiscale), non ha prodotto alcun miglioramento dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione e quindi della sua efficienza a supporto dell’impresa. Addirittura, e siamo appunto all’effetto paradossale, questa maggiore dotazione finanziaria per la P.A. ha determinato un abbassamento delle produttività vanificando, così, in buona parte i risultati ottenuti dal settore privato sempre sul fronte della produttività. Un fattore determinante assieme alla scarsa crescita da oltre vent’anni caratterizzante la nostra economia (https://www.ilpattosociale.it/attualita/linutile-crescita-della-produttivita/).

    In più, durante l’ultimo ventennio, i governi che si sono succeduti alla guida del nostro Paese hanno continuato a sperperare risorse pubbliche col duplice obiettivo di mantenere i propri bacini elettorali. Contemporaneamente hanno condotto delle battaglie politiche aspramente criticate dalla BCE (*) a favore della moneta elettronica (anche attraverso fiscalità premianti) come contropartita all’azione degli Istituti bancari nell’acquisto dei titoli del debito pubblico italiano.

    Questa assoluta mancanza di responsabilità, che coinvolge tutti i ministri economici degli ultimi governi, parte dalla comune considerazione di come, seppur basso, un tasso di crescita potesse comunque risultare compatibile con la gestione della finanza pubblica italiana, perlomeno nell’immediato che rappresenta l’orizzonte massimo di valutazione della classe politica italiana. Un pensiero espressione di una cultura economica irresponsabile come testimoniano gli ultimi dati relativi alla crescita del reddito disponibile degli italiani.

    Va ricordato come agli inizi del 2000 il reddito medio italiano rappresentasse l’83% di quello tedesco: ora, dopo vent’anni, questo rappresenta ormai solo poco più del 67%.

    In altre parole, al di là dell’andamento sinusoidale dell’economia internazionale, il nostro Paese ha registrato una diminuzione di reddito prodotto rispetto alla Germania pari al -0,75 % annuo

    All’interno di un mercato competitivo nel quale la Germania rappresenta la prima industria manifatturiera e noi la seconda è evidente che gli effetti devastanti di questo declino economico si manifestino in una progressiva perdita di competitività e un contemporaneo aumento dei costi sia per le imprese quanto per i consumatori.

    Solo al fine di offrire un esempio di economia quotidiana: per un’impresa italiana attualmente il gasolio alla pompa viene erogato al prezzo medio di 1,48 euro, in Germania viceversa risulta di 1,21 (**), una differenza di poco superiore al 22%, ovviamente a favore dell’utenza e delle imprese tedesche.

    Se poi si valuta anche il differenziale di reddito disponibile è evidente come il carburante in Italia venga pagato circa il 50% in più di quanto in Germania.

    A questo immediato “svantaggio competitivo” per l’economia italiana risulta inevitabile aggiungere, per quanto riguarda il trasporto delle merci su gomma (82% del totale) ma anche in termini più generali per l’economia nel suo complesso, ovviamente il costo delle autostrade. La concessione di un monopolio pubblico a gruppi privati, come sostenuto dall’intera classe di economisti ad accademici negli anni 90, non ha creato alcun vantaggio per l’utenza e tantomeno aumentato gli investimenti nelle Infrastrutture. Con buona pace delle teorie economiche che sostenevano strategie diverse da quanto realizzato in Svizzera ed in Germania.

    Due semplici esempi che mettono in evidenza come la nostra struttura economica sia caratterizzata da una serie di rendite di posizione a favore tanto dello Stato quanto di gruppi privati i quali hanno determinato una diminuzione per l’impresa della competitività e dei cittadini del reddito disponibile attraverso un continuo aggravio dei costi di servizio.

    In altre parole, il costante aumento delle tariffe dei servizi (sia in termini di costi diretti quanto di qualità del servizio stesso) forniti dalla pubblica amministrazione, pur con un aumento di risorse finanziarie e compensato da una bassa inflazione, risulta il primo elemento di una stagflazione.

    Il secondo elemento è conseguenziale al primo, individuabile nella sempre bassa crescita che ha caratterizzato negli ultimi vent’anni la nostra economia.

    Una vera e propria stagflazione politica – amministrativa che definisce in modo chiaro il fallimento di una scuola economica e politica i cui effetti sono stati un progressivo aumento della spesa pubblica e del debito ma con una diminuzione del reddito disponibile dei cittadini anche per i consumi.

    Si aggiunga poi che a causa di servizi della pubblica amministrazione sempre più scadenti molti contribuenti sono stati costretti a rivolgersi a soggetti privati per ottenere gli stessi servizi finanziati già col prelievo fiscale.

    Un doppio costo che drena risorse al circuito economico. In altre parole, la sintesi di un fallimento economico politico.

    (*) solo negli ultimi sei mesi la BCE ha richiamato due volte il Governo Conte ad una posizione neutrale rispetto alle forme di pagamento.

    (**) Grazie ad una riduzione dell’IVA a sostegno della ripresa economica post pandemia.

  • L’economia sommersa vale 192 miliardi, quasi il 12% del pil

    In Italia l’economia sommersa e quella illegale valeva, nel 2018, 211 miliardi di euro, ovvero l’11,9% del Pil, un dato leggermente migliore rispetto a quanto rilevato negli anni precedenti. Così come in lieve miglioramento si rivela anche la situazione del lavoro nero, anche quest’ultimo diminuito (per numero di unità) rispetto a quanto accadeva nel 2017. Questo, a grandi linee, il quadro rilevato dall’Istat nel rapporto sulla cosiddetta economia non osservata. Un quadro che, pur mostrando qualche segnale positivo soprattutto se rapportato con le tendenze degli anni precedenti, viene comunque additato dalle associazioni dei consumatori come la dimostrazione di un paese incivile e che ha perso la battaglia sul fronte del lavoro nero. Tra le maggiori spine nel fianco l’Italia annovera infatti un’economia illegale in via di peggioramento, trainata soprattutto dal traffico di droga ma anche dalla prostituzione.

    Il rapporto Istat con gli ultimi dati disponibili che risalgono a due anni fa mostra che il peso del sommerso e dell’economia illegale si riduce complessivamente di circa 3 miliardi dal 2017, confermando la tendenza alla discesa dell’incidenza sul Pil (0,4 punti percentuali in meno) dopo il picco raggiunto nel 2014 (13,0%). In particolare, nel 2018 l’economia sommersa valeva 191,8 miliardi (10,8% del Pil): le principali voci, ricorda l’Istat, sono costituite dal valore aggiunto occultato tramite comunicazioni volutamente errate del fatturato e/o dei costi (sotto-dichiarazione del valore aggiunto) oppure generato mediante l’utilizzo di input di lavoro irregolare. Ad esso si aggiungono fra l’altro anche il valore degli affitti in nero e delle mance. La componente legata alla sotto-dichiarazione del valore aggiunto è scesa a 95,6 miliardi dai 98,5 del 2017, mentre quella connessa all’impiego di lavoro irregolare si attesta a 78,5 miliardi (80,2 miliardi l’anno precedente). Circa l’80% del sommerso economico si genera nel terziario e si concentra per circa due terzi in tre settori di attività economica: Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (40,3%), Altri servizi alle imprese (12,7%) e Altri servizi alle persone (12%).

    Quanto al lavoro irregolare 3 milioni 652 mila persone nel 2018 svolgevano mansioni irregolarmente, 48mila in meno rispetto al 2017. Ed in particolare, la componente del lavoro non regolare dipendente scende dell’1,4% (-39mila unità), quella indipendente si riduce dello 0,9% (-9mila unità). Per quanto riguarda invece le attività illegali, il rapporto Istat mostra un incremento dell’1,8% tra il 2017 e il 2018 con proventi per 19,2 miliardi, ovvero l’1,1% del Pil. La crescita di questa voce è determinata per la quasi totalità dal traffico di stupefacenti il cui valore aggiunto sale a 14,7 miliardi di euro. Di non poco rilievo neppure il ruolo della prostituzione che ha generato consumi per 4,7 miliardi di euro (+6,8%) equivalente, secondo i calcoli del Codacons, ad una spesa media di 180 euro a famiglia.

    Secondo l’Unione Nazionale dei consumatori i dati diffusi dall’Istat sono “sconfortanti, non degni di un Paese civile. I risultati ottenuti contro l’evasione sono a dir poco deludenti ed insignificanti ed i progressi fatti sono a passo di lumaca”, mentre sul lavoro nero “è una battaglia persa, dato che nessuno ha voluto ancora combatterla”.

  • Il Pil cinese è già guarito dalla pandemia

    Prima a finire nelle secche del coronavirus e adesso prima a uscirne tra i principali Paesi: la Cina ha visto la sua economia risollevarsi nel secondo trimestre con un rimbalzo del Pil del 3,2% su base annua e dell’11,5% sul periodo gennaio-marzo, battendo con margine le previsioni degli analisti pari,

    rispettivamente, a +2,5% e a +9,6%. Il messaggio, con gran parte del pianeta stretto ancora dalla pandemia del Covid-19, è che Pechino grazie alla sua gestione della crisi ha centrato l’inversione di rotta sul tonfo del 6,8% del primo trimestre (-9,8% congiunturale), la prima contrazione dal 1992, anno d’inizio dei dati statistici trimestrali. A rimarcare la svolta c’è stata la contestuale, rispetto ai dati sul Pil, e inconsueta diffusione della lettera di risposta del presidente Xi Jinping a quella ricevuta dai 18 capi azienda del Global CEO Council che riunisce 39 multinazionali leader nei rispettivi settori di attività. “I fondamentali di lungo termine di solida crescita dell’economia non sono cambiati e non cambieranno” e la Cina continuerà ad approfondire le riforme e ad aprire i mercati, fornendo “un migliore ambiente business per gli investimenti e lo sviluppo delle imprese cinesi e straniere”, ha scritto Xi nel mezzo dello scontro con gli Stati Uniti.

    Malgrado l’exploit del Pil, le Borse cinesi sono affondate: i listini, tradizionali anticipatori degli umori degli investitori, hanno visto su Shanghai il peggior calo da febbraio (-4,50%) e Shenzhen chiudere a -5,20%. L’analisi del Pil ha fatto emergere una produzione industriale in crescita del 4,4% nel trimestre, non sostenuto da un adeguato aumento della domanda. Le vendite al dettaglio, in frenata per il sesto mese di fila, sono scese a giugno dell’1,8% su attese a +0,5%, mentre il calo semestrale è dell’11,4%. Gli investimenti fissi hanno avuto una frenata annua del 3,1%, a 28.160 miliardi di yuan

    (4.000 miliardi di dollari circa), nella prima metà del 2020, ma avendo la parte privata in sofferenza (-7,3%) e quella pubblica a +2,1%. “L’economia nazionale ha superato progressivamente l’impatto avverso della pandemia nella prima metà del 2020 e ha dimostrato un momento di crescita tonica e di graduale ripresa”, ha notato l’Ufficio nazionale di statistica, non nascondendo “gli evidenti e crescenti rischi e sfide future interne ed esterne”, a partire dalla pressione Usa, quando “la ripresa non è consolidata”. L’interscambio commerciale in dollari è ritornato positivo a giugno su maggio: l’export è salito dello 0,5% con la domanda di materiale medico anticoronavirus e prodotti farmaceutici, mentre l’import è andato a +2,7% con elettronica e materie prime. “Il recupero è stato ottenuto grazie alle politiche fiscali e sociali a supporto delle attività economiche. Nuovi incentivi hanno consentito alle imprese di ridurre i costi operativi, ottenere liquidità e favorire l’occupazione, la cui stabilità è da sempre uno dei temi chiave per il governo cinese”, ha notato Lorenzo Riccardi della Shanghai Jiaotong University.

    La disoccupazione di giugno è scesa al 5,7% dal 5,9 di maggio, mentre sono stati 5,64 milioni di posti di lavoro nel semestre: il dato considera l’occupazione urbana e non la forza lavoro migrante che pesa per un terzo circa di quella totale. Stime indipendenti parlano di 20 milioni di posti di lavoro persi a causa del Covid-19 e a luglio ci saranno circa 9 milioni di nuovi diplomati e laureati in cerca della prima occupazione. Dopo il 2019 con un Pil in crescita del 6,1%, ai minimi degli ultimi 29 anni, il Fmi ha stimato una Cina in crescita dell’1% nel 2020, con un’economia mondiale in contrazione del 4,9%. “Siamo entrati in una nuova fase della crisi, una fase che richiederà ulteriore agilità politica e azione per assicurare una ripresa durevole e condivisa”, ha messo in guardia il direttore generale del Fmi, Kristalina Georgieva, rilevando che l’attività economica globale “ha iniziato gradualmente a rafforzarsi. Ma non siamo ancora fuori dai guai”. L’incertezza resta alta, ha marcato il documento del Fondo preparato per il G20 dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali, che si terrà virtualmente il 18 luglio. Al G20 il Fmi ha chiesto gli “sforzi collettivi” che “sono essenziali per mettere fine alla crisi finanziaria e rilanciare la crescita”.

  • Il coronavirus fa crollare il Pil di Singapore

    L’economia di Singapore in picchiata nel secondo trimestre, con una contrazione record causata dalla crisi del coronavirus. Come riferito dal ministero del commercio e dell’industria, il PIL è sceso del 41,2% a seguito delle misure attuate tra aprile e maggio per arginare la diffusione di COVID-19. Il calo è stato peggiore delle aspettative degli esperti che si attestavano attorno al 37,4%.

    Il settore dell’edilizia è crollato del 95,6% su base trimestrale per la quarantena imposta a decine di migliaia di lavoratori migranti. Il comparto del manifatturiero è cresciuto del 2,5% rispetto allo scorso anno, grazie soprattutto all’aumento della produzione nel settore biomedico.

    Su base annua, il PIL è sceso del 12,6%. Il declino ha segnato il secondo trimestre consecutivo di contrazioni per l’isola. Il governo si aspetta adesso che il PIL per l’intero anno subisca una riduzione tra il 7% e il 4%, il che renderebbe la recessione la prima dal 2009 e la peggiore da quando Singapore ha ottenuto l’indipendenza nel 1965.

    Singapore ha finora dichiarato 46.283 infezioni e 26 morti per malattia.

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