Costume e Società

Musica e società

Dario Rivolta

L’arte non vuole più essere apparenza e gioco ma intende diventare conoscenza (T. Mann- Doctor Faustus)

Hans Heinrich Eggebrecht (Musicologo tedesco, nato a Dresda il 5 gennaio 1919 e morto nel 1999) dichiarò: “emozione matematizzata, o mathesis emozionalizzata, la musica induce la sensualità alla ragione, l’emozione all’armonia, in questo sta la sua forza etica, formativa, religiosa, utopistica…”

Ci sono molti modi di ascoltare la musica e altrettanti di considerarla. Il compositore americano Aaron Copland ne ha scelti tre: “l’amatore indifferente” che la ascolta magari come sottofondo o, comunque per distrarsi da altre occupazioni; il “tecnico” che ne coglie la costruzione, che sta attento a identificarne il tema o i temi, che la giudica in base alla sua originalità compositiva; l’”espressionista” che la ascolta nel suo insieme cercando di coglierne il significato intrinseco.

Anche T. W. Adorno (Introduzione alla sociologia della musica – 1962 – ed ital. 1971) suddivide in modo simile i vari modi di ascoltare la musica. Per lui i tipi di ascolto sono sei. Comincia con il “professionista”, solitamente un esecutore o un compositore, che affronta ciò che sente in modo puramente tecnico-formale. Ciò che attira la sua attenzione è la logica costruttiva dell’opera. Poi c’è il “buon ascoltatore” che capisce la musica come ciascuno capisce la propria lingua: vi trova un significato che lui coglie (o crede di cogliere) e gli interessa poco la costruzione strutturale. Solitamente non è un tecnico e non dà particolare importanza ai dettagli musicali preferendo cercare di cogliere il filo conduttore di ogni composizione, ascoltata nel suo insieme dall’inizio alla fine. Il terzo tipo è il “consumatore di cultura”. Costui è informato sulla biografia dei compositori e la storia delle opere cui assiste nei concerti con una certa assiduità. Il quarto è colui che non si interessa per nulla della partitura e del compositore e preferisce abbandonarsi al semplice flusso sonoro. Quasi come lui è il quinto ascoltatore che, tuttavia, predilige la musica detta “leggera”. Questo tipo può essere un ferrato seguace di tale tipologia musicale oppure uno che ascolta le note per puro passatempo ed è indifferente, o quasi, a chi canta o cosa è suonato. L’ultimo tipo identificato da Adorno, il sesto, è lo “ascoltatore risentito” che suddivide in due categorie: chi ascolta solo musica pre-romantica e disprezza il resto e chi ama soprattutto il jazz. Il primo è un fan acceso di Bach e magari apprezza pure il canto gregoriano o la monodia secentesca. Il secondo è un esperto del jazz e considera “superata” o “inutilmente intellettualistica” la musica detta “classica”. Costui vede nel jazz una forma di ribellione alle regole sociali consuetudinarie. Ciò avviene nonostante anche il jazz, come successo pure al rock, sia oramai totalmente integrato nella comune vita sociale e sia stato assorbito dalla logica del mercato.

Se consideriamo utile accettare le suddivisioni sopra citate di Copland e di Adorno, noteremo che il tipo “espressionista” espresso dal Copland e il “buon ascoltatore” identificato da Adorno sono pressoché coincidenti. È ovvio che, come in tutte le ripartizioni in tipologie, non esistano tipi “puri” e tra di loro esistano sfumature e sovrapposizioni.

A prescindere in quale “tipo” ci si immedesimi nell’ascoltarla o per giudicarla, nella musica succede ciò che caratterizza tutte le altre forme artistiche: gli stili, i concetti, le forme appartengono all’epoca in cui sono concepite e, consciamente o inavvertitamente, ne sono l’espressione. Quasi sempre, indipendentemente dalla volontà dell’autore, ogni opera d’arte esprime un pensiero che non può prescindere dalle circostanze culturali dell’epoca o del segmento di società in cui si trova l’autore.

Adorno scrive: “…quel che la musica dice è determinato in quanto cosa che appare, ma che è anche nascosto…la musica coglie l’assoluto senza mediazioni…” E il sociologo Gilbert Durand attribuisce alla musica “la funzione di metaforizzare, nel contrasto delle sonorità, l’intero dramma cosmico”. Schopenhauer, ancora più precisamente sostenne che ogni tipo di musica rappresenta una weltanschauung, cioè una “visione del mondo”.

Nella formazione di un brano musicale la capacità tecnica del compositore è sicuramente importante e fa la differenza verso quella composta da chi è meno preparato o meno abile. Tuttavia, Croce sosteneva che nell’arte la “forma” è, in sé, anche “contenuto” e nella musica questa realtà diventa particolarmente evidente.

Ogni autore è contemporaneamente, spesso inconsciamente, figlio del suo tempo oppure propositore di uno nuovo. Ciò non significa che tutte le opere musicali rappresentino nella loro completezza l’intera società o rispecchino esattamente tutto il periodo in cui vengono composte, né che la “proposta” tecnicamente più innovativa anticipi sempre il mondo che verrà. Comunque, che il compositore lo sappia o no, ciò che sta scrivendo risponde almeno in parte a quello che l’epoca gli chiede. O gli sta suggerendo.

La musica di Bach, ad esempio, è “perfetta”, rassicurante, ordinata. Se riandate alle composizioni del periodo bachiano è naturale sentire come tutto sia perfettamente equilibrato e confortante. Non che manchi il movimento, tutt’altro, ma avviene all’interno di una struttura ben ordinata. “Matematica”, sostiene qualcuno. Non va dimenticato che si trattava di un artista che componeva da “direttore di Cappella” e che il clero e i nobili, suoi maggiori fruitori (e finanziatori), avevano tutto l’interesse a vedere la società come armonica e stabile. Tale doveva essere la percezione che si voleva fosse trasmessa al popolino e lì dentro non dovevano avere spazio sentimenti o desideri che si contrapponessero all’ordine costituito. Nessuna rivoluzione sociale, dunque: solo perenne stabilità. Esattamente come a molti potrebbe piacere che fosse la società in cui vivere. Anche ai nostri giorni. L’amatore di Bach è, magari inconsapevolmente, un conservatore.

Già le cose cambiano con Vivaldi. Se si va a guardare la sua vita privata si scopre che pur facendo in qualche modo parte dell’élite non vi si trovava completamente a suo agio. Probabilmente ciò era dovuto al suo essere un prete, professione che, molto probabilmente, non viveva con intima convinzione. Era il tempo in cui nella sua società nascevano fermenti disorganici: le guerre che colpivano i vari territori arrivavano sempre più vicine e Venezia, dove viveva il “prete rosso”, era una realtà in espansione. Non una città ripiegata su sé stessa in un’auto-contemplazione, ma lanciata verso commerci ogni volta più lontani. Quella società ambiva a conquistare nuovi mercati, lottava contro i concorrenti. In altre parole era sempre alla ricerca di un nuovo “futuro”. È per questo che la sua era una musica viva, forte, evocativa. Pur rispettando i canoni tecnici richiesti dall’epoca, non si trattava di una musica “rilassante”. Era “ambiziosa” e, in un certo senso, sempre insoddisfatta.

Con Mozart le cose furono ancora diverse. Gli esecutori (i “professionisti”), per loro natura più attenti alla forma che ai contenuti, lo trovano “geniale” e nessuno potrebbe affermare che i suoi pezzi musicali manchino di alcunché. La sua capacità creativa era eccezionalmente multiforme e, per lui come per tutti gli altri maestri, dobbiamo guardare le opere nel loro complesso e non considerarle singolarmente. Poiché nella sua epoca tutti i musici vivevano grazie al favore dei committenti, era naturale che componessero quel che loro era richiesto anche se personalmente avrebbero preferito fare altro. A suo modo, Mozart fu contemporaneamente a disagio e a suo agio nella società in cui viveva. Aveva un carattere giocoso e la sua ironia musicale divertiva e contestava nello stesso tempo. Rimaneva però attento ad offrire un piacere immediato agli ascoltatori. A rischio di diventare perfino “superficiale”. La sua musica non entra mai nel merito di possibili conflitti sociali esistenti e, tantomeno, fa riferimento a possibili drammi esistenziali individuali. È un’eccezione la sua “Messa da Requiem” nella quale il dramma della vita e della morte emergono con forza. In questa sua ultima opera, nemmeno da lui completata per morte sopraggiunta, viene a galla un’intima disperazione e per quanto anch’essa fosse stata commissionata probabilmente vi affioravano i suoi sentimenti più nascosti. Chissà se il motivo stava nella sensazione che la sua fine fosse vicina… Una composizione ben diversa dalle sue solite composizioni fu, stranamente, il concerto per clarinetto K622 ove si respira una certa volontà di affermare sé stesso e non solo assecondare l’auditorio. Anche lo “Scherzo musicale” K522 è dissonante rispetto alle sue solite composizioni. Lì sembra prendersi gioco degli ascoltatori dipingendo una vera e propria parodia in musica.

Con una capacitò creativa quasi uguale a quella di Mozart si distinse in quell’epoca il nostro Boccherini. Anch’egli seppe sviluppare una originale capacità tecnica ma, forse per la ragione che non “serviva” alla Corte Reale e stava invece presso il fratello cadetto del Re, era molto più libero di “contestare” il potere costituito, pur senza esagerare. Non a caso le sue opere offrono al “buon ascoltatore” spunti concettuali a loro modo “rivoluzionari”.

Nietzsche, che di musica ne capiva molto, aveva visto in Wagner il portatore di una musica “dionisiaca”, e la identificava in una volontà di affermazione virile, immediata, a suo modo sposa del mondo, della natura e dell’uomo che si “impone”. Quando entrambi cambiarono il loro modo di vedere il mondo, la loro amicizia finì. Wagner compose il Parsifal cedendo a sentimenti meno “rivoluzionari” anche per l’età che avanzava o perché non era più un paria musico-sociale come in gioventù ma era diventato, nel frattempo, una “star” riconosciuta. Le sue opere divennero più “mistiche” e più conformiste. Nietzsche, che intanto aveva approfondito il suo distacco dai valori dominanti (contemporaneamente alla “conversione” di Wagner, lui pubblicava “Umano troppo Umano” dedicandolo a Voltaire), lo rinnegò e per contrapporsi a lui decise di preferirgli Brahms o, soprattutto, Bizet. Brahms era un nuovo “classico” che tuttavia rompeva gli schemi precedenti e Bizet, da vero musicista mediterraneo, suggeriva una visione del mondo immediata, solare, vitalistica. Dionisiaca, appunto (Di certo, questa scelta portò Nietzsche anche ad esagerarne i meriti artistici ma ciò era legato al suo bisogno di “liberarsi” da Wagner). A proposito della musica wagneriana, non è per caso o per i contatti personali di Hitler con la famiglia del compositore che Wagner divenisse il compositore prediletto dai nazisti: la sua musica, piena di melodie che si accavallano e intrecciano e non lasciano alcuno spazio uditivo libero per l’ascoltatore è esattamente “totalitaria” così come voleva esserlo il mondo nazista. Una delle accuse che Nietzsche fece alla musica wagneriana fu proprio di voler arrivare al “ventre” saltando ogni contatto con il “cervello” dell’ascoltatore.

Prima di Wagner, Beethoven e Schubert hanno descritto e rappresentato un mondo che voleva cambiare ed è quello che stava accadendo attorno a loro. In Europa c’era stata la Rivoluzione Francese e in tutto il continente le domande di rinnovamento della società e l’avanzare verso il potere di nuove classi sociali imponevano nuove sensibilità e un nuovo modo di essere. L’individuo diventava più importante della società nel suo complesso e l’affermazione personale, per realizzarsi, richiedeva una descrizione ottimista, forte, vincente. Tali sono le sinfonie di Beethoven: un singolo che si afferma contro tutti e davanti a tutto. Dice: io ci sono, esisto come individuo e mi relaziono con gli altri mettendo in evidenza le mie speranze e le mie ambizioni. Nessuna mediazione sociale, né verso il potere né verso la natura. L’individuo, in quanto tale, diventa “padrone del mondo”. Ecco il Romanticismo! Meno “romantiche” alcune delle Sonate, e soprattutto le ultime, la numero 31 opera 110 e la 32 Op. 111. Queste due, pur molto innovative nella forma, riportano al trionfo dell’ordine sul caos, della certezza contro l’incertezza. Della “pace” sulla “guerra”. Fu l’avanzare dell’età a spingerlo verso un atteggiamento più conservatore? O fu solo una questione anagrafica coincidente con la società stanca delle “rivoluzioni”?

La metà dell’ottocento vide in tutta Europa il nascere di sentimenti di appartenenza nazionale e anche la musica, così come la letteratura, la pittura ecc., ne risentì. Smetana, Glinka, Dvorak e Liszt tra gli altri lo testimoniarono, recuperando e rielaborando le musiche popolari tradizionali. Ciò sta a dimostrare che ogni forma artistica risente allo stesso modo delle tendenze culturali della società che cambia (Un esempio più vicino a noi è rappresentato dalle reazioni localistiche alla globalizzazione: mentre le comunicazioni e gli intrecci si fanno sempre più veloci, si riscoprono i canti popolari e le canzoni in dialetto).

Piu’ tardi, Stravinskij fu un maestro tra coloro che ruppero con il passato. I suoi balletti all’inizio fecero scandalo perché totalmente anticonformisti. Diede l’addio alla melodia, simbolo di valori comunemente riconosciuti e portatori di certezze. Pezzi come Il Rito della Primavera o Pulcinella sono la testimonianza immediata della natura che si auto-impone. Si affermano in modo autonomo, sfuggono gli schemi, suggeriscono la forza che la natura esprime, senza mediazioni: il mondo si afferma da sé!

Che dire degli impressionisti? Come nella pittura, rinunciano alla razionalizzazione costruita dalla mente umana e si limitano a “sentire” ciò che li circonda. In Debussy, nonostante la tecnica usata sia sempre “umana”, sono le cose a imporsi, anche qui senza mediazione. Vi si ribellano gli espressionisti come Schoenberg e Webern che tornano a voler “leggere” il mondo scavando dentro sé stessi e riportando a galla un loro estremo soggettivismo come reazione alla solitudine e alla crisi create da un mondo alienato. La loro musica è a-tonale. Anch’essi contestano la tradizione, fino al punto in cui Schoenberg se ne scosta del tutto aprendo alla dodecafonia che è il vero rifiuto di ogni ordine costituito. Non è per caso che questa tendenza musicale sia contemporanea all’astrattismo pittorico di vario genere: è immediatezza e tuttavia soggettiva e interpretativa. I valori di riferimento sono sempre meno comuni e condivisi all’interno delle singole società e la loro assenza la si “vede” esplicitamente nella musica di Stockhausen o, per esempio, nel nostro Nono. In loro tutto è musica e niente lo è. Mancano i canoni comuni, i suoni si impongono tutti allo stesso modo e uno vale l’altro. È la società frammentata, conflittuale, che si auto-presenta come rifiuto dell’ordine costituito. È la perdita dei “valori comuni” o, in altre parole, l’atomizzazione del sociale. È quindi naturale che tutte le società totalitarie, sia comuniste sia fasciste, abbiano combattuto con tutti i mezzi questa forma artistica.

Forse più di tutti, Il primo compositore (inizio novecento) che coscientemente e razionalmente (e pur rispettando i canoni classici) ha voluto rappresentare una sua personale e manifesta Weltanschauung attraverso le note è Gustav Mahler. Nelle sue opere diventa evidente come lui stesso identifichi la musica con la filosofia e gran parte del suo fascino, apprezzato da molti anche ai nostri giorni, sta esattamente in questo. Meno melodico, ma ugualmente “filosofo” seppur con un’altra “visione del mondo” fu anche Richard Strauss (In una società molto diversa perché di un altro tempo, pure il suo bisavolo Johann Strauss i cui valzer restano contemporaneamente la celebrazione di un impero e la premonizione della sua fine raffigurò perfettamente il tempo e il mondo in cui viveva.).

Chi non ascolta la musica con costanza trova difficile coglierne il senso intimo e la dimostrazione del perché di questa difficoltà la si ha nella musica dodecafonica. Pensiamo, per capire tale meccanismo, a ciò che accade con le lingue straniere: se non le conosci, alle tue orecchie quel suono si presenta semplicemente come un insieme di rumori vocali senza significato. In quel caso, e nella migliore delle ipotesi, ci si limita ad apprezzare o, al contrario, essere negativamente colpiti dal loro puro tono, come se fosse fine a sé stesso. Di una lingua straniera che non si riesce a decifrare sfugge totalmente il senso, cioè il significato che chi la parla attribuisce ai suoni che pronuncia. Claude Levi-Strauss: “Fra tutti i linguaggi, soltanto la musica riunisce i caratteri contradditori di essere a un tempo intelligibile e intraducibile”.

La difficoltà per molti di “leggerla”, e quindi capirla, fu la fortuna personale di Dimitri Shostakovich. Costui certamente non fu propriamente “organico” al sistema politico in cui si trovò a vivere. Eppure compose di tutto, dal jazz al balletto leggero, alle opere celebrative (vedi ad esempio la sinfonia N.7, Leningrado). A volte, pur correndo dei rischi, seppe musicare una critica sardonica allo stesso sistema totalitario che lo circondava (es.: la sinfonia N.3- Il primo di maggio oppure il concerto N.1 per piano, violino, orchestra e tromba N.35 del 1933). Nelle sue opere più intime, i quartetti, la sua anima si evidenzia in una weltanschauung esistenziale e il suo tema discorsivo è l’angoscia dell’esistere. A differenza di Tchaikovsky, pure autore di eccezionali opere drammatiche (vedi ad es. la sinfonia N. 4), per Shostakovich la sofferenza intima non è dramma: è tragedia.  i drammi colpiscono la vita degli individui, le tragedie sono universali. Il primo, attraverso sinfonie e balletti, è l’autore di un sistema musicale che resta organico con la società circostante e vive il personale disagio (era omosessuale in una società ancora omofoba) quasi intimamente, subendone le conseguenze senza ribellarsi. Il secondo, invece, vive virilmente il senza-senso del quotidiano essere: conosce il vuoto dell’esistenza, sa che la vita non ha un fine trascendente ma finisce con sé stessa. Allora vi si contrappone come uomo pensante e indomito. Fa venire alla mente Camus con il suo Prometeo: chi comanda è Zeus ma: “O Zeus, io sono un uomo è in quanto tale io sono la mia libertà”. Shostakovich non era ligio alle tematiche che il partito si aspettava da lui e il suo sentire non era quello del “realismo socialista”. Pur senza comprenderne il significato intrinseco, i gerarchi del PCUS (e lo stesso Stalin) a volte “percepivano” che la sua musica non era in linea con i “dettami” che avrebbe dovuto rispettare.  I custodi dell’ortodossia sovietica capivano che qualcosa non andava ma non riuscivano a coglierne esattamente il perché. Ogni tanto i sospetti furono così forti che il compositore fosse messo sotto accusa ed emarginato dalla nomenclatura artistica. Allora, come fece con la terza sinfonia chiestagli affinché celebrasse il Primo Maggio dei Lavoratori, compose qualcosa che potesse sembrare “organica” al regime eppure, se la si ascolta tenendo presenti le altre sue composizioni, si capisce che in fondo finisce con l’essere una parodia di quella stessa celebrazione. Un’altra ancora più evidente parodia del sistema totalitario sovietico la si coglie nel Concerto N. 1 citato poco sopra. Questa composizione è, di fatto, una caricatura. Comincia con citazioni pianistiche classiche che si trasformano in una marcia militare festosa e celebrante. Ben presto, tuttavia, si tramuta per ben due volte in una musica da circo, tipo quelle usate in quelle occasioni per accompagnare l’apparizione dei clown.

Dove la vera weltanschauung di Shostakovich appare in tutta la sua evidenza è soprattutto nei quartetti. Di loro si potrebbe dire che, se anziché musica fossero state prosa, avrebbero potuto essere libri scritti da qualche esistenzialista alla Jaspers o alla Sartre.

L’intrinseco significato filosofico e sociale della musica si riscontra anche nella musica cosiddetta “leggera”. Non è per caso che dopo la guerra le canzonette italiane furono sempre edificanti, melodiche, e i loro testi toccassero solamente temi intimi come l’amore o la natura. Più tardi, durante il miracolo economico e con l’avvicinarsi del sessantotto. si cominciò anche da noi a importare lo stile e i testi dei cantautori francesi alla Boris Vian, ai Brassens e ai Brel. Il benessere sembrava raggiunto e si cominciava la critica della società dei consumi e del perbenismo conformista. Fu in quel periodo che nacquero i nostri famosi cantautori, più o meno contestatori e più o meno politicamente impegnati. Detto ciò, una vera contestazione (anche generazionale) verso la società costituita arrivò in tutto il mondo con il rock. Questo ritmo fu una vera cesura col passato della musica “facile”. Basta con le melodie scontate: si imponeva la “protesta”, simbolizzata dallo spazio e dal ruolo dati alla batteria. Il ritmo diventa sincopato e dominante e rappresenta musicalmente la ribellione contro la società che altri, i “vecchi”, ancora controllano. La società dei consumi, però, sa tutto conglobare e perfino i Beatles, nati contestatori, furono presto trasformati in prodotto di consumo. Anche i Rolling Stones che sembravano essere impossibili da “assorbire” seguirono la stessa sorte. In poco tempo il rock fu assimilato smussandone la valenza “anarchica”. Nacque allora l’”hard rock”, ultimo tentativo di mostrarsi, in qualche modo, “contro”. In Francia i primi a provarci furono, con i loro testi e meno con la musica, gli Antoine e, dopo di loro, i Renaud. Quest’ultimo cantava esplicitamente: “Société tu m’aura pas”.

Anche per loro, tuttavia, il destino è stato quello di essere inglobati e, se non è avvenuto a livello personale (nel caso di Renaud), lo è stato per la loro musica.

Quella che non è mai stata inglobata, almeno fino a ora, è la musica dodecafonica. In questo caso la rottura di ogni ritmo o melodia è talmente difficile dall’essere accettata dal comune sentire che la sua diffusione popolare diventa pressocché impossibile. Eppure, è la rappresentazione più evidente delle società odierne nelle quali è impossibile identificare i valori comuni di riferimento. È la dissoluzione dei valori condivisi, la mancanza di orientamento collettivo nelle comunità. In questo tipo di musica ogni rumore diventa suono musicale e il pentagramma viene abbandonato per note nuove, improbabili, irripetibili nella razionalità quotidiana pur essendo proprio niente di più che totale quotidianità.

Un’osservazione a parte merita il jazz. Nato come espressione di gruppi emarginati, ha trovato una ampia legittimazione in tutti gli strati della società nonostante fosse inizialmente la voce di chi di quella “società” non faceva parte. Con il tempo, anche questa musica è stata assorbita e introiettata. Questo stile musicale è sempre più diffusamente popolare e apprezzato anche da chi ne era contestato, fino a snaturarsi totalmente nel diventare perfino un sottofondo musicale da supermercato o da musica per le hall degli alberghi. “La funzione sociale del jazz coincide con la propria storia, che è la storia di un’eresia recepita dalla cultura di massa” (Adorno, op. citata).

Tecnicamente, a suo modo e pur nella grande diversità formale, il jazz è come la musica dodecafonica: senza schemi, con il rifiuto (o almeno la lontananza) dall’ordine costituito. A differenza della dodecafonica però resta più “digeribile” e popolare. Questa accessibilità non è necessariamente una virtù perché il fatto che il jazz sia improvvisato, sedicente “spontaneo” e comprensibile da chiunque, deriva proprio dal fatto che non richiede né in chi lo suona né in chi lo ascolta, studi, regole, “letture” filosofiche. Ovviamente non alludo alla bravura necessaria in chi lo esercita perché, comunque, occorre essere in grado di ben padroneggiare note e strumenti. Penso, piuttosto, al fatto che chi lo suona vuole lasciarsi andare al sentimento del momento e, se non è solista, si coordina con gli altri esecutori che lo seguono o lo anticipano in modo istintivo come fa lui. È la vittoria del contingente sul necessario, dell’improvvisazione sull’elaborato. È il tipico sintomo di una società senza prospettive, senza meritocrazia. Una società ove studiare, programmare, razionalizzare non sono più valori riconosciuti e condivisi. Una società abbandonata a sé stessa, una società che non vede futuro o che non ha nemmeno più la consapevolezza di poterlo costruire.

Quali saranno le future evoluzioni della musica nelle società del futuro? Quali le nuove “visioni del mondo” che troveranno forma attraverso i suoni? Nessuno, per ora, lo può prevedere con certezza salvo affidarsi agli indovini. Comunque, poiché l’arte, musica compresa, è sempre lo specchio della società che la circonda, poco per volta, qualche nuovo artista comincerà ad esserne interprete.

Dario Rivolta (dicembre 2024)

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